
Quali vicende hanno segnato la sua vita privata e il suo percorso politico?
Il libro mette in evidenza le tante vicende che hanno caratterizzato la vita di Erdogan comportando inevitabili ripercussioni sul suo carattere e sulle scelte intraprese in politica. L’impianto teorico utilizzato è quello dell’analisi della psicologia del leader. Al suo interno viene analizzato l’ambiente in cui Erdogan è cresciuto, le figure di riferimento durante gli anni di formazione, le prime delusioni, i modelli di autoidentificazione giovanile, le passioni, il rapporto con la famiglia e, ovviamente, le principali tappe politiche. Un aspetto che ritengo centrale per comprendere la personalità di Erdogan è il rapporto con il padre, un uomo violento e anaffettivo. Con lui l’attuale presidente turco instaurò una relazione di distaccata reverenza.
In che modo, nei quasi vent’anni della sua ascesa al potere, il leader conservatore ha trasformato il suo Paese?
L’adozione di metodi autocratici a partire dal 2011 – anno che nel libro viene assunto come momento di svolta – ha portato alla progressiva destituzione di pesi e contrappesi democratici, che tuttavia già prima di Erdogan erano lontani dagli standard delle democrazie liberali, e al sistematico azzeramento dei potenziali avversari, fossero essi politici, istituzionali o della società civile. Da allora il regime turco si è avviato in direzione di un sistema autoritario e personalistico, in cui centrale è la figura dell’uomo solo al comando. La Turchia da alcuni anni attraversa una fase di trasformazione, vera e propria riconfigurazione non tanto del regime politico, che come metto in evidenza nel libro presenta molti elementi di continuità rispetto al passato, quanto della concezione che i turchi hanno del proprio Paese e la loro visione del mondo circostante. La svolta, in parte impressa da Erdogan e in parte cavalcata dallo stesso, ha mutato il tessuto sociale e identitario turco talmente in profondità che i suoi effetti si ripercuoteranno, al pari di quanto successo a seguito delle riforme di Mustafa Kemal, anche per molti anni dopo l’uscita di scena dell’attuale presidente.
Quali peculiarità caratterizzano la cornice ideologica creata intorno alla sua figura, il sovranismo islamico?
Negli ultimi anni il personalismo di Erdogan e l’apparato ideologico creato intorno alla sua figura, l’erdoganismo, hanno assunto sempre più i contorni di un sovranismo islamico: un mix tra la tradizione autocratica kemalista, ossia strutture e metodi di governo introdotti dal padre della Repubblica Mustafa Kemal e consolidati dai suoi eredi politici , gli attuali regimi ‘one-man rule’ come Russia e Cina, le strutture di potere tipiche dei regimi mediorientali e l’utilizzo dell’elemento religioso come timbro politico identitario e importante collante sociale. A puntello della propria retorica, Erdogan aggiunge l’elemento ottomano, ossia l’idea di un ritorno a un glorioso passato, crollato sotto i colpi dei nemici esterni e che era stato forzatamente rimosso dalla memoria collettiva turca per mano della rivoluzione kemalista. Alla base di tale retorica non vi è alcun progetto neo-imperiale o neo-ottomano, ma i richiami ai fasti imperiali sono allusioni storiche in grado di evocare potere e autenticità, facendo rivivere nella comunità nazionale turca orgoglio e senso di appartenenza attorno a un condottiero. La componente ideologica di Erdogan si unisce a una concezione selettiva della democrazia, assai diffusa nella cultura politica turca, secondo cui la maggioranza costituisce l’unico attore politico deputato non solamente a esprimere la direzione del Paese ma anche ad avere conoscenza dell’interesse e del bene della nazione.
Qual è la visione geopolitica di Erdoğan?
Da alcuni anni a questa parte, la politica estera turca è stata sempre più reazione a stimoli provenienti dalla politica interna rispetto al perseguimento di una strategia comprensiva in cui gli obiettivi da raggiungere e gli strumenti utilizzati per raggiungerli siano ben definiti. In altre parole, al momento è impossibile comprendere la politica estera turca senza cogliere le dinamiche di politica interna. Si è in qualche modo arrivati alla estremizzazione del concetto di ‘gioco a due livelli’ elaborato dal politologo Robert Putnam. Infatti, le azioni e il comportamento schizofrenico in campo internazionale sono figlie della costante ricerca di consenso interno da parte Erdogan e della sua gestione totalizzante del potere esecutivo, solo parzialmente legittimata dal nuovo assetto costituzionale. Questa concentrazione delle prerogative e l’estrema personalizzazione della politica internazionale turca è stata accompagnata da un processo di de-istituzionalizzazione, ossia il ridimensionamento dei tradizionali attori come i foreign-policy makers e i diplomatici che ora sono quasi unicamente degli osservatori passivi. Fatta questa premessa, Erdogan nutre una duplice ambizione per la sua ‘Grande Turchia’: far diventare il paese il vero key player regionale, in un Medio Oriente sempre più allargato – dall’Afghanistan al Sudan -, e costruire l’immagine di una Turchia attore globale, presente ed influente, in una molteplicità di fora regionali e internazionali.
Quale futuro, a Suo avviso, per la Turchia?
Fare previsioni risulta molto complesso oltre che azzardato, soprattutto in virtù di un contesto regionale contraddistinto da instabilità e fluidità. All’orizzonte si intravedono due avversari politici nuovi per l’attuale Presidente che possono essere considerati a tutti gli effetti le prime figure politiche figlie del post-kemalismo, ossia della fase politica nuova in cui la Turchia è entrata il giorno stesso in cui, nel 2002, l’AKP ha vinto le prime elezioni. Da una parte il neoeletto sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu le cui fortune molto dipenderanno dalla capacità di guidare una megalopoli e, compito dall’elevato coefficiente di difficoltà, riuscire a promuovere un processo di trasformazione e ‘svecchiamento’ politico all’interno del proprio partito CHP. Dall’altra parte Ali Babacan, già Ministro durante i primi governi Erdogan presenta un profilo più allettante agli occhi delle componenti conservatrici e liberali turche. Inoltre, aspetto per nulla secondario, che lo accomuna al suo principale sostenitore, l’ex Presidente Abdullah Gül, Babacan ha avuto il merito di smarcarsi dalla politica di Erdogan in tempo, non condividendone i metodi autocratici. A loro due si aggiunge l’incognita Ahmet Davutoglu e la capacità da parte del partito HDP, partito progressista turco a forte trazione curda, di riorganizzarsi nonostante l’ondata di arresti degli ultimi quattro anni. Guardando invece a medio-lungo termine, è altresì plausibile che, come più volte avvenuto nella storia della Turchia repubblicana, a un periodo di rigido autoritarismo segua una fase di ammorbidimento e maggiore apertura.
Federico Donelli è Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Genova dove insegna History and Politics of the Middle East e Visiting Fellow presso il Center for Modern Turkish Studies della Şehir University di Istanbul dove insegna Comparative Foreign Policy of the Middle Eastern States. Le sue ricerche riguardano la sicurezza e la politica del Medio Oriente con una particolare attenzione alla Turchia. Ha recentemente pubblicato Le due sponde del Mar Rosso: la politica estera degli attori mediorientali nel Corno d’Africa (Mondadori Università, 2019).