
Tuttavia, il realismo politico è spesso raffigurato – in maniera caricaturale – come una concezione cinica e a-morale della politica interna e internazionale. Tradizionalmente, viene interpretato come una dottrina pragmatica di adeguamento alle ‘regole’ del potere. Tutto ciò che è associato a un tale concetto deve necessariamente implicare potere, violenza e corruzione. Per molti versi, secondo molti critici e non pochi sostenitori, il realismo politico tratteggia i contorni di un regno governato dalla competizione per la sopravvivenza e il dominio tra esseri umani rapaci, vulnerabili e insicuri. Descrive un mondo determinato dalla contingenza e dal conflitto, che non è destinato alla perfezione o alla salvezza.
In realtà, i pensatori realisti vogliono proporre una osservazione scientifica dei fenomeni politici. Desiderano svelare le “regolarità” del comportamento politico. Intendono descrivere l’essere e non il dover essere della politica. Però, nella percezione più comune, e sotto molti aspetti fuorviante, l’obiettivo del realismo politico rimane quello di offrire utili consigli per conquistare, conservare e accrescere il potere. Non è affatto un caso, allora, che esso sia circondato da una fama piuttosto sinistra, e che gli appartenenti a questa tradizione siano spesso soggetti ad aspre critiche e talvolta a contrapposizioni preconcette.
Perché nascono queste critiche? Dove nascono tali preconcetti?
Critiche e preconcetti nascono da una concezione del realismo politico ben precisa e assai parziale, che si diffonde a partire dalla fine dell’Ottocento e poi si rafforza nel corso del Novecento. In essa si mostra il consapevole obiettivo di evidenziarne il carattere cinico, immorale e perfino demoniaco. E ciò, ovviamente, non solo contribuisce a diffondere il pregiudizio e la diffidenza verso questa tradizione di pensiero, ma ne determina anche la (s)fortuna intellettuale nel dibattito pubblico. Eppure, una tale interpretazione sembra derivare da due forzature concettuali fondamentali.
Innanzitutto, non è affatto infrequente che il paradigma realista venga ridotto in modo piuttosto acritico a una pura e semplice espressione di machiavellismo. Laddove per machiavellismo si intendono una dottrina politica e un esercizio del potere improntati a un utilitarismo spregiudicato e spietato che si serve di espedienti subdoli o di mezzi violenti. Con questo termine, che nasce da un’interpretazione parziale del pensiero del segretario fiorentino, si vuole indicare il comportamento di chi fa un uso disinvolto della simulazione e della dissimulazione pur di giungere al suo scopo e perseguire il proprio utile. Nell’equiparazione fra realismo e machiavellismo si tenta così di porre particolare enfasi sul cinismo e sulla spregiudicatezza di un governante, il quale persegue il fine della conservazione e dell’ampliamento del proprio potere. In tale prospettiva, pertanto, realista sarebbe soltanto colui che non rifugge dall’utilizzo dell’inganno e della violenza per ottenere vantaggi politici, che pensa e agisce in maniera astuta e subdola, che appare come privo di scrupoli.
In secondo luogo, invece, il realismo politico viene fatto perfettamente coincidere con tre concetti che nascono in ambito tedesco a cavallo fra il XIX e il XX secolo: vale a dire, Realpolitik, Machtpolitik e Weltpolitik. Anche in questo caso, la finalità denigratoria risulta alquanto evidente. Il realismo non sarebbe altro che un insieme di dottrine a sostegno del perseguimento della politica di potenza. Esso costituirebbe l’ultima espressione ideologica dell’imperialismo tedesco (che si contrappone, è giusto ricordarlo, a quello francese e inglese). Ed è qui che, molto probabilmente, risiede la principale ragione della pessima fama del realismo politico. Nel mondo anglofono e francofono, infatti, realismo è un termine considerato sotto una luce assai negativa. Esso, infatti, viene visto con sospetto e ostilità tanto nell’opinione pubblica, quanto nel mondo accademico. Nonché ridotto, assai di frequente, a una concezione della politica amorale o immorale. Eppure, il realismo politico possiede una ricchezza che va al di là delle varie rappresentazioni caricaturali che ne sono state offerte.
In che cosa consiste la ricchezza del realismo politico?
Innanzitutto, la ricchezza del realismo politico risiede nelle sue molteplici e cangianti sfumature. Esse mostrano in maniera inequivocabile il fatto che non vi sia alcun accordo – pieno o anche solo parziale – sui presupposti, i contenuti e le finalità di questa complessa tradizione del pensiero politico. All’interno della filosofia occidentale, vengono infatti associati a questa tradizione autori anche assai differenti fra loro, che hanno vissuto in tempi e contesti molto diversi. In altri termini, il paradigma realista non è un monolite, bensì manifesta una natura proteiforme.
Nelle opere dei diversi esponenti della tradizione realista, sembrano emergere linee di tensione, opposizioni polari o autentiche aporie. I vari autori possono infatti differire anche sensibilmente tanto nelle loro argomentazioni quanto nelle loro conclusioni. Seppur abbiano molto in comune, essi sono al tempo stesso distanti in non pochi e neppure marginali aspetti. Il contesto storico, sociale e culturale in cui sono immersi i differenti autori, così come le grandi sfide cui sono costretti a rispondere in maniera innovativa, contribuiscono a definire le inconciliabili varietà di un canone che non può essere facilmente e sbrigativamente racchiuso in una formula precisa. In epoche diverse e in contesti differenti, alcuni pensatori si imbarcano nella temeraria impresa di offrire una descrizione realista e realistica della politica, che sia in grado di tenere conto della totalità dei fattori in gioco. Pur evidenziando alcuni aspetti comuni e ricorrenti, il realismo politico mostra infatti un’infinità di volti differenti. Tanti quanti sono gli autori che vengono inseriti in questa tradizione del pensiero occidentale.
Per molti versi, sottolineando il ruolo del potere, del conflitto e dell’interesse, in ciascun comportamento individuale o in tutte le imprese collettive, i pensatori realisti non solo propongono un criterio di interpretazione della realtà politica, ma esprimono anche una teoria critica del potere, e soprattutto delle sue patologie. Il realismo politico non è pertanto una concezione cinica e a-morale del mondo, bensì rappresenta piuttosto un approccio che indaga la contingenza della politica, evidenzia l’ambiguità della natura umana e riflette sulla drammaticità della storia.
Chi sono i maggiori rappresentanti della tradizione realista nella storia del pensiero politico (pre)internazionale?
Per rispondere a questa domanda occorre fare una breve premessa. Il realismo politico sembra possedere una duplice radice. In tale prospettiva, è stata proposta la distinzione fra pensiero politico (pre)internazionale e pensiero politico internazionale. Lo spartiacque tra queste due fasi è rappresentato dalla nascita del sistema degli Stati moderno. Esiste, infatti, un realismo politico che si sviluppa prima e un realismo politico che si afferma dopo l’istituzione del sistema internazionale. Da un lato, il realismo costituisce una duratura e al tempo stesso indeterminata e nebulosa corrente all’interno del pensiero politico e filosofico dell’Occidente. Dall’altro, invece, esso si afferma nell’ambito della disciplina delle Relazioni Internazionali a partire dalla prima metà del XX secolo.
Occorre, però, compiere una precisazione ulteriore. A definirsi per la prima volta – e in maniera consapevole – realisti sono soltanto alcuni studiosi (come Edward H. Carr, Hans J. Morgenthau e Reinhold Niebuhr) che operano nel Novecento. Quindi, il realismo nasce innanzitutto all’interno del pensiero politico internazionale. E questo è un punto davvero fondamentale. Tutto ciò che viene prima rappresenta soltanto il frutto di una costruzione intellettuale contemporanea. Al fine di giustificare una specifica visione del mondo (indipendentemente dal fatto che sia quella realista o quella idealista), vengono inventate delle tradizioni. Vengono, in altri termini, individuati dei ‘padri nobili’ nelle cui mani affidare il buon nome di una particolare concezione della politica internazionale. I pensatori realisti, che vengono convenzionalmente inseriti all’interno del pensiero politico (pre)internazionale, non si sono mai definiti tali, oppure non hanno mai utilizzato il termine realismo politico.
Tenendo conto di tutto ciò, si può sostenere che i maggiori rappresentanti del realismo politico nella storia del pensiero politico (pre)internazionale – senza pretesa di esaustività – siano sicuramente Tucidide, Sant’Agostino, Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes. Nella loro riflessione, infatti, il realismo politico si afferma come una serie di insegnamenti perpetui sulla politica che fondano una vera e propria di saggezza senza tempo. Certamente molti altri autori potrebbero essere aggiunti a questo elenco. Ma questi quattro pensatori, in particolare, sembrano rivolgere una specifica attenzione ai rapporti tra unità politiche autonome.
Il logorante conflitto tra Atene e Sparta è la cornice che permette a Tucidide di descrivere le relazioni tra poleis indipendenti nella Grecia del V secolo a.C. Sottolineando il ruolo della natura umana, sempre ambigua e inafferrabile, lo storico greco evidenzia allora la tragedia del potere. Il Vescovo di Ippona, invece, mostra, al tramonto dell’Impero romano, la dimensione contingente di ogni intrapresa sociale e soprattutto i limiti della politica. Una politica che, attraverso il cristianesimo, viene ‘desacralizzata’. Seppur da prospettive completamente opposte, non è difficile veder emergere, sia nella Guerra del Peloponneso sia nel De civitate Dei, una serie di ‘regolarità’ che accompagnano durante l’incessante scorrere dei secoli l’esistenza dell’essere umano e la vita delle comunità politiche organizzate.
Nel Rinascimento e nella prima Età moderna, le figure che guadagnano il centro della scena sono invece quelle – non di rado fraintese – di Machiavelli e Hobbes. Attraverso l’esperienza delle incessanti lotte fra le città-stato italiane e delle inconciliabili rivalità fra le nascenti sovranità sul Vecchio continente, il segretario fiorentino e il filosofo di Malmesbury sembrano preparare – tanto nel Principe e nei Discorsi, quanto negli Elementi, nel De cive e nel Leviatano – lo spartito della modernità politica. Machiavelli sembra affermare il primato della politica su tutte le altre dimensioni dell’esistenza umana individuale e collettiva, e sembra giustificare l’esercizio della virtù della necessità. Hobbes appare invece più interessato al mantenimento dell’ordine all’interno di ciascuna sintesi politica. Le relazioni internazionali, oltre a non ricoprire grande spazio nella sua trattazione, evidenziano un’indole assai meno bellicosa rispetto a quanto viene tradizionalmente presentato tanto dai suoi sostenitori quanto dai suoi detrattori moderni o contemporanei.
Come si articola la storia del pensiero politico internazionale?
Il realismo nel pensiero politico internazionale costituisce una reazione alla crisi della politica novecentesca, che si evidenzia nella tragedia dei due conflitti mondiali, nell’assurdità dell’ascesa dei totalitarismi, e nell’angoscia della Guerra fredda. È in questo clima che prende forma il realismo. Un approccio alla politica – e, soprattutto, al suo studio – che caratterizza tanto l’accademia, rappresentando di fatto la protostoria della disciplina delle Relazioni Internazionali, quanto l’azione di uomini di Stato e diplomatici nelle pratiche della politica estera e nelle dinamiche della politica internazionale. Pur nelle loro evidenti differenze, autori come Carr, Morgenthau e Niebuhr sono tutti critici tanto delle illusioni quanto delle aberrazioni della politica, ed elaborano un tentativo di risposta etico-politica alle sfide epocali che devono fronteggiare nel corso del XX secolo. Essi denunciano sia l’idealismo (o utopismo) interbellico, sia gli orrori della politica totalitaria. Il loro intento è infatti quello di richiamare alla realtà i propri contemporanei, affinché un più adeguato intendimento della politica possa allontanare facili illusioni o comportamenti cinici.
In The Twenty Years’ Crisis 1919-1939, l’attenzione di Carr è rivolta non solo a comprendere le ragioni storiche e ideologiche che conducono alla «crisi del ventennio», ma anche e soprattutto a tentare di immaginare una prospettiva futura in grado di allontanare il sempre più evidente (dis)ordine internazionale. Lo storico inglese, pur rivendicando – e contribuendo a diffondere – una visione del mondo realista, finisce in maniera alquanto ironica per operare un chiaro fraintendimento delle motivazioni più profonde che guidano gli attori internazionali nel corso degli anni Trenta del secolo scorso. La sua riflessione mostra pertanto un’evidente tensione costitutiva che dona all’autore le sembianze di un realista in cerca di un’utopia. Morgenthau – tanto in Scientific Man vs. Power Politics quanto in Politics Among Nations, così come in tanti altri scritti – definisce invece il dibattito accademico e politico del mondo della Guerra fredda. Descrivendo le stringenti dinamiche della politica di potenza, il politologo tedesco mostra il persistente valore dell’etica, per cui prudenza e responsabilità sono le qualità fondamentali che occorrono agli statisti per agire in maniera adeguata nel sistema internazionale. Fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta, infine, Niebuhr è certamente la figura religiosa più importante – insieme a Martin Luther King – degli Stati Uniti del XX secolo. Il teologo protestante, da Moral Man and Immoral Society fino a Man’s Nature and His Communities, propone una visione antropologica e una interpretazione storica che descrivono i contorni di quello che, rifacendosi all’opera di Sant’Agostino, egli stesso definisce «realismo cristiano». Egli non solo mette in luce l’ambiguità della natura umana e la contingenza di ogni impresa politica, ma pone anche le dinamiche della storia in un orizzonte trascendente, testimoniando la necessità del controllo morale della dimensione politica all’interno di un mondo imperfetto, e bisognoso di qualcosa che sia in grado di eccedere l’immanenza della storia.
Luca G. Castellin è Professore associato di Storia delle dottrine politiche presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Storia del pensiero politico internazionale, History of Political Thought e Politica e Comunicazione. Tra i suoi lavori: Ascesa e declino delle civiltà. La teoria delle macro-trasformazioni politiche di Arnold J. Toynbee (2010); Il realista delle distanze. Reinhold Niebuhr e la politica internazionale (2014); Società e anarchia. La “English School” e il pensiero politico internazionale (2018); Sotto un cielo vuoto. Il realismo politico nella storia del pensiero internazionale (2022).