
Io però non sono convinta che oggi le persone (chi, poi? Chi sono “le persone”?) si comportino in maniera diversa da ieri. Di base c’è che la nostra umanità è fragile e che piuttosto che farci guidare da una ragione granitica e infallibile, poggiata su calcoli e considerazioni lucide, quando si tratta di salute siamo preda delle emozioni. E quindi può capitare a chiunque, ed è sempre capitato, di fare scelte diverse da quelle dettate dalla scienza.
Quello che è probabilmente cambiato in tempi molto recenti è la prepotenza del mercato, e la sua fantasia nel proporci finte terapie, alimenti e diete che dovrebbero farci vivere per sempre sani. Forse è cambiata anche la nostra fiducia nell’autorità: un tempo, quando eravamo più ignoranti, ci facevamo guidare con meno difficoltà da chi aveva studiato e aveva più autorevolezza di noi. Oggi siamo più colti e abbiamo più strumenti e questo, a dispetto di quanto potremmo credere, non ci difende perché ci fa credere di poter trovare da soli la soluzione ai nostri problemi.
Voglio dire: i ciarlatani e i venditori di olio di serpente sono sempre esistiti. Oggi forse fa più impressione vedere che molti di noi vi si affidano perché dall’altra parte c’è una medicina sempre più scientifica e capace, che giorno dopo giorno migliora le proprie possibilità. Credo che proprio per questo sia arrivato il momento di cercare di capire come renderla anche più efficace nel dialogo con il pubblico, superando la sua vecchia propensione al paternalismo e all’affermazione cieca della propria autorevolezza, e più capace di ascolto e di comprensione.
Quanto è diffusa la medicina cosiddetta ‘alternativa’?
La medicina sedicente alternativa è meno diffusa di quel che si pensi. L’omeopatia oggi viene usata dal 4% degli italiani, ed è una percentuale in calo continuo. Se si va a vedere l’andamento dei titoli delle ditte produttrici di preparati omeopatici in borsa si nota che sono in costante e importante perdita. Anche perché con la crisi gli italiani (e gli europei in generale) hanno rinunciato a spendere soldi in questo tipo di prodotti, implicitamente ammettendo che non si tratta di un consumo essenziale. Altre terapie cosiddette alternative in Italia sono ancora meno usate (la fitoterapia meno del 2%, l’agopuntura intorno all’1%). Va anche notato che sono pratiche molto più diffuse nelle regioni ricche del paese, quelle del nord (e del nord-est in particolare), un po’ per la vicinanza col Nord-Europa, da cui molte di queste proposte provengono e dove si trovano le aziende principali che producono e vendono preparati omeopatici, ma soprattutto perché si tratta di un mercato rivolto alle persone con maggiore disponibilità economica e con titolo di studio più alto (due fattori spesso, ma non sempre, associati).
Insomma: non c’è nessun allarme.
C’è, quello sì, da porre attenzione quando queste pseudoterapie arrivano nelle case di persone con malattie gravi, e vengono usate in alternativa alle terapie mediche oppure ritardano la diagnosi di malattie importanti. E c’è da notare che accanto a questo mercato, e senza grandi soluzioni di continuità, si è sviluppato il marketing dei prodotti alimentari che fanno finta di prevenire o di curare le malattie, di rallentare l’invecchiamento, rinforzare il sistema immunitario e così via. Siamo sempre nell’ambito dei prodotti venduti per la salute, ma qui la questione è più subdola perché passa attraverso i supermercati ed è più difficile avere dati, anche perché questo tipo di cose sono sempre più pervasive nelle nostre vite.
Il ricorso a tali pratiche pseudoscientifiche è diffuso anche tra persone colte e istruite?
Sì. Il ricorso a proposte terapeutiche alternative è molto più diffuso tra le persone con titolo di studio alto. Il titolo di studio è il fattore predittivo principale per l’uso delle terapie non convenzionali e c’è una linearità importante tra gli anni dedicati allo studio e il consumo delle varie omeopatie e proposte simili. Questo è uno dei punti principali della questione. Ci impone di chiederci perché, e ci dà alcune indicazioni importanti sul rapporto tra la scienza (la scienza biomedica in particolare) e la società.
Io ci vedo in primo luogo una (quasi) buona notizia: non siamo più gli italiani che si facevano dire che cosa fare e non alzavano mai il dito per fare una domanda. Oggi ci interessiamo della nostra salute, vogliamo gestirla in prima persona, ci impegniamo per curarla ogni giorno con le nostre mani. Questo ovviamente succede con tanta più disinvoltura quanto più pensiamo di poterci arrangiare con la nostra intelligenza e la nostra preparazione. Ma ci predispone a molti errori, perché la medicina è una materia difficile, più difficile di quel che sembra.
Su questo credo che la comunità scientifica dovrebbe lavorare: l’erosione della asimmetria conoscitiva, per cui un tempo era chiaro chi aveva voce in capitolo e chi no, deve essere affrontata a partire dal rispetto per l’interlocutore. In fondo, l’interlocutore, anche se sbaglia, sta esprimendo una pulsione buona e si sta impegnando per partecipare alle scelte di salute. Intendo dire che l’analisi della correlazione tra anni di studio e ricorso a proposte terapeutiche non scientifiche ci dice che non basta imporre la propria autorevolezza per essere seguiti sul difficile sentiero della cura o della prevenzione delle malattie. Bisogna studiare chi è il pubblico, che cosa pensa, che cosa sente, dove sta andando e come si può parlargli. E non trattarlo da cretino. Tantomeno in un mondo in cui l’organizzazione sanitaria è tutt’altro che perfetta e in cui la classe medica di errori ne ha fatti eccome.
Una seconda cosa che ci vedo è che l’idea dell’esistenza di bolle sociali separate, per cui noi ci circondiamo di persone che ci assomigliano e fanno le nostre scelte e quindi siamo incapaci di capire gli altri e di dialogare con loro, non è sempre così corretta. La nostra vita è molto complessa e ciascuno di noi ha amici, amiche e parenti che a tavola o nel cassetto dei medicinali tengono prodotti diversi da quelli che scegliamo noi. Anche questa, tutto sommato, è una buona notizia.
Nel mio libro parto da qui: se i nostri amici, e forse a volte anche noi stessi, ci affidiamo a pseudoterapie e pseudoscienze, forse possiamo cominciare col parlarci. Con il chiederci reciprocamente il perché, e con il provare a correggere gli errori, cognitivi e di comunicazione, che tutti quanti facciamo.
Quali sono le ragioni profonde di questa ondata di sfiducia nella scienza?
Di nuovo: non c’è nessuna “ondata di sfiducia” nei confronti della scienza. C’è una critica, molto spesso legittima, che la scienza deve imparare ad ascoltare. Poi è vero che ci sono i truffatori, i ciarlatani, i venditori di fumo, ma noi dobbiamo interessarci più del pubblico che di loro (loro sono materia per autorità giudiziaria o per garanti dell’informazione). Ed è anche vero che ci sono gli irriducibili: i no-vaxx duri e puri che non si lasciano convincere con niente. Ma sono pochi, meno dell’1% della popolazione: attaccarli in maniera eccessiva significa sopravvalutarli e dare loro molta più voce di quella che da soli avrebbero. Non solo: si rischia di trovarsi a dileggiare i tanti esitanti che hanno dubbi più che sensati e che si possono sentire insultati, con il risultato di poterli avvicinare al fronte dei no-vaxx e di radicalizzare le loro posizioni.
Quale responsabilità hanno il web e i social network?
Molto poca. O meglio: hanno la responsabilità di qualsiasi strumento di informazione, con alcune peculiarità importanti. I social network danno voce anche ai “piccoli”: chi non ha un’immagine pubblica può costruirsela lì, se ha fortuna, astuzia, e tempo da investire. E così può propagare le proprie idee con molta maggiore efficacia di un tempo. Ma questo vale per chiunque: per l’anti-vaxx come per l’apostolo dei vaccini obbligatori.
Poi i social network possono distorcere la nostra percezione dei pesi relativi delle cose: per come funzioniamo noi, e per come funzionano i loro algoritmi, ciascuno di noi ha la propria timeline che gli descrive un mondo che è solo suo. In questo senso sì che le bolle esistono, ma Facebook non è la vita reale! Basterebbe imparare a riconoscere questa banalità, e chi di mestiere lavora sulla comunicazione della scienza e sulle immagini sociali della scienza in genere sa distinguere abbastanza bene.
In più, i social network probabilmente sono in crisi: Facebook è un posto da vecchi, ormai, e i giovani usano altro, se usano. E comunque non li conosciamo bene. Oggi possiamo leggere ricerche che ci dicono che sui social network si cambiano le idee politiche della gente (probabile, sennò non avremmo “il bestia” che ogni giorno ci manda “bacioni” a nome del ministro degli interni) e altre ricerche che ci dicono che invece non funzionano tanto indirizzando direttamente il nostro voto quanto imponendosi sulla comunicazione politica (per me, ancora più probabile). Cioè: se ne parlassimo un po’ meno, i social network sarebbero un po’ l’equivalente di un Hyde Park dove chiunque può salire sul proprio sgabello e parlare ma senza grandi conseguenze per la vita politica di un intero paese. Per me, dare la colpa (di che cosa?) a internet, Google e Facebook ci fa perdere di vista la complessità dei problemi, e ci impedirà sempre di risolverli.
Silvia Bencivelli, giornalista scientifica e conduttrice radiotelevisiva. È tra i conduttori di Pagina3 e di Radio3 Scienza su Radio3 Rai. Ha lavorato con Rai3 e Rai scuola. Scrive per la Repubblica e allegati, Le Scienze, Focus e altre testate. Insegna giornalismo scientifico all’Università La Sapienza di Roma. Il suo ultimo libro è Sospettosi (Einaudi 2019). Tra gli altri, il romanzo Le mie amiche streghe (Einaudi, 2017) e i saggi Perché ci piace la musica (Sironi 2007, 2012, tradotto in tre lingue), È la medicina, bellezza! (con Daniela Ovadia, Carocci 2016).