
Quali eventi e protagonisti hanno qualificato l’esercito italiano, definendone le specificità?
Di prassi l’esercito richiama la funzione bellica, di difesa e di offesa. La periodizzazione classica rimanda quindi alla partecipazione ai conflitti armati. Tuttavia, gli eserciti nazionali con l’Ottocento diventano i titolari di quel potere di monopolio della forza che è uno degli attributi più importanti degli Stati-nazione. Ad essi, in quanto espressione della difesa dell’unitarietà e della continuità della comunità politica e sociale (quella che nella Costituzione italiana è richiamata anche dall’articolo 52, laddove nei suoi tre commi recita: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica»), è demandato un ruolo strategico. Il quale, per intenderci, non ha solo a che fare con la difesa dei confini, o al limite con la loro estensione, ma anche con la tutela degli assetti interni dal punto di vista politico e istituzionale. Non si può quindi ragionare sugli eserciti nazionali in età contemporanea senza cogliere la loro fisionomia di ossatura primaria delle pubbliche amministrazioni e, quindi, dello “Stato persona”, ossia quell’entità composta dai suoi organi funzionali, con i quali esso intraprende rapporti esterni con gli altri Stati, e i soggetti di diritto internazionale, così come rapporti interni con i soggetti individuali e collettivi che ne fanno parte. Ma al medesimo tempo, alle forze armate è conferito anche un ruolo simbolico molto forte, essendo ad essere attribuito un ruolo di garanzia della legalità, della legittimità, della regolarità della vita degli Stati. Quando questi elementi si rompono, allora anche le società vanno immediatamente in crisi. Affermo questo per stabilire una cornice di riflessioni sui momenti salienti e sui personaggi che hanno connotato le forze armate italiane, dal Regio esercito unitario del 1861 all’Esercito italiano di oggi. A rischio di risultare schematico, quindi, identifico alcuni passaggi fondamentali. Il primo di essi è il processo di unificazione degli eserciti peninsulari, avvenuto nel corso delle tre guerre d’Indipendenza risorgimentali. In questo caso vi è una tradizione militare piemontese che si raccorda a quella di altri regni peninsulari, ed in particolare di quello borbonico. Il Regio esercito nasce dall’unione di questi due elementi con un terzo, quello garibaldino, assai più propenso alla guerra di guerriglia. Non è un caso se il primo grande teatro nel quale i reparti si trovino ad operare è la lotta al brigantaggio, un’opera assidua e continuativa, che coinvolge quasi la metà dei coscritti. Si tratta di un evento di repressione sistematica e di “normalizzazione” di una parte del Meridione d’Italia. La dissoluzione dell’esercito borbonico, che reclutava truppe tra i contadini poveri, l’abolizione degli antichi usi comuni delle campagne, l’introduzione della leva obbligatoria furono alcune delle ragioni che scatenarono le diffuse violenze che attraversarono il Sud del Paese. Le bande di briganti colpivano con attacchi e imboscate i soldati e le forze di polizia, assassinando quanti si erano espressi a favore dello Stato unificato. La risposta dei governi fu tuttavia prevalentemente repressiva: venne inviato un corpo di spedizione che contava oltre 150.000 soldati al comando del generale Enrico Cialdini e quindi del generale Alfonso La Marmora, mentre furono instaurate leggi eccezionali (legge Pica del 1863) sotto la giurisdizione dei tribunali militari. Vennero comminate oltre 7000 condanne a morte e uccisi più di 5000 banditi; diversi paesi che avevano solidarizzato con i briganti furono incendiati. Un secondo passaggio fu l’avvio delle imprese africane. Il 5 febbraio 1885 il colonnello Tancredi Saletta, con un corpo di spedizione di 800 uomini, sbarcò a Massaua, aprendo così il periodo coloniale. La successiva battaglia di Adua, momento culminante e decisivo della guerra di Abissinia, il 1º marzo 1896, tra le forze italiane e l’esercito abissino del negus Menelik II, dove gli italiani subirono una pesante sconfitta, arrestò per molti anni le ambizioni coloniali sul Corno d’Africa. La guerra italo-turca (conosciuta anche come guerra di Libia o campagna di Libia) combattuta tra il Regno d’Italia e l’Impero ottomano per il possesso delle regioni della Tripolitania e della Cirenaica, tra il 29 settembre 1911 e il 18 ottobre 1912, fu il passaggio bellico che superò lo stallo precedente, consolidando l’uso dell’esercito al di fuori delle logiche di difesa nazionale. La partecipazione alla Prima guerra mondiale (1915-1918) va ricordata per più ragioni, trattandosi del conflitto nel quale il nostro esercito raggiunse il maggiore grado di esposizione quantitiva, con 6 milioni di chiamati alle armi, ma anche il più accettabile equilibrio tra obiettivi e risorse. Tra le ragioni che la Grande guerra chiama in causa vanno ricordate: la coscrizione di massa e la mobilitazione generalizzata; la guerra di trincea tra filo spinato, artiglieria e i gas; l’ibridazione tra le classi sociali; il cameratismo e l’arditismo, insieme alla violenza sistematica e all’esperienza quotidiana della morte (prodromici al fascismo). In quella circostanza due modelli di esercito si confrontarono: fino a Caporetto, sotto il comando di Luigi Cadorna, l’idea serpeggiante in una parte dell’alto comando era che il Regio esercito avesse oramai assunto una fisionomia politica a sé, destinata quindi ad andare oltre la mera funzione bellica; con l’avvicendamento e l’arrivo di Armando Diaz, il ridimensionamento non fu solo conseguente al tracollo militare ma anche ad un ridisegno della funzioni che vengono attribuite alle forze armate, nel loro insieme riconsegnate al controllo diretto della politica. Il fascismo prima e la Seconda guerra mondiale poi, contrariamente a quanto si è indotti a pensare, non corroborarono l’immagine che il regime aveva costruito di un’Italia bellicosa, semmai rivelando le carenze delle forze armate. La conduzione della guerra in condizione di totale subordinazione ai tedeschi, sancì il declino dell’idea di esercito di cui ancora una parte del Paese era depositario. Non era solo lo smascheramento della retorica fascista, dallo sguardo feroce e dalla sostanza inconsistente ed imbelle, ma la sconfitta della residua autonomia delle forze armate. Con la lotta di Liberazione e la ricostruzione, le cose sarebbe radicalmente cambiate. Ma sarebbe stata l’Italia stessa, a quale punto, a conoscere una svolta radicale. Di mezzo c’erano stati il trauma dell’8 settembre, l’occupazione militare tedesca, la guerra partigiana.
Come si è evoluta la figura del soldato italiano, dalle prime leve obbligatorie al professionismo più recente?
È utile, al riguardo, richiamare l’articolo 11 della Costituzione, il quale recita: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». La differenza tra la leva obbligatoria, nel corso del tempo, fino ad anni non troppo lontani, e il professionismo odierno, non è solo interna all’istituzione militare ma richiama sia i mutamenti della società italiana che di quella internazionale. In linea generale, a rischio di semplificare al massimo, la leva demanda ad un obbligo da assolvere mentre la professione rimanda ad una scelta (e quindi ad un’opportunità). Il modo in cui il coscritto si vive rispetto all’universo di aspettative del militare professionista è quindi, in linea di principio, molto differente. Rimane il fatto che, al pari degli altri paesi che hanno introdotto la volontarietà del servizio, il mestiere delle armi sia visto essenzialmente come un’alternativa al lavoro civile, laddove soprattutto esso difetta. Se discorso a sé va fatto per l’ufficialità, che in genere (benché non sempre) dovrebbe essere il prodotto di una scrematura e di una selezione alla quale seguono investimenti nella formazione permanente, diverso è la questione dei volontari a ferma prefissata e in servizio permanente. Nel primo caso, soprattutto per alcune specializzazioni, abbiamo a che fare con un profilo che tende a valorizzare competenze e aspettative di carriera e di professione, unendo le une alle altre in una sorta di processo di promozione sociale. Nel secondo caso, le dinamiche sono molto più statiche. Le missioni all’estero, sia da un punto di vista esperienziale che professionale, ma anche economico così come umano, sono viste a tutt’oggi come l’ambito dove concretamente il militare professionista può cercare di realizzare le sue ambizioni. Rispetto alla logica della caserma, ossia della stanzialità del vecchio esercito di leva, coinvolto raramente in impegni diretti, se non durante le periodiche esercitazioni, l’esercito professionale deve confrontarsi invece con il dato permanente della mobilità, non solo fisica, territoriale, di scenario ma anche di funzioni, quindi operativa.
Che rapporto è esistito tra esercito e società italiana?
Un rapporto molto diversificato nel corso del tempo e in base alle classi sociali prese in considerazione. A tutt’oggi, direi che esso interpella una serie di questioni molto rilevanti. Tra di esse richiamerei: la questione dell’identità nazionale e del senso di appartenenza ad un’unica nazione; il tema dei legami e della coesione sociale in un Paese, il nostro, dove a lungo i regionalismi e i localismi hanno predominato rispetto ad una cittadinanza costituzionale e repubblicana ancora fragile; il problema del rispetto delle regole comuni e del rapporto tra diritti e doveri; la natura della prestazione che l’individuo deve comunque offrire allo Stato, sia in ordine alla milizia armata (che nel nostro ordinamento costituzionale non è mai stata soppressa – come già ho ricordato – poiché il servizio obbligatorio di leva risulta sospeso, non cancellato) che alla fiscalità; più in generale, la cittadinanza come legame non solo giuridico ma anche morale e sociale. Il rapporto tra forze armate e società è in funzione (se si preferisce: è una variabile dipendente) dell’evoluzione della cittadinanza, ossia del modo in cui le singole persone si sentono parte a pieno diritto di una comunità politica nazionale. La questione delle forze armate, quindi, è un tema molto politico. Poiché esse sono tra i depositari non tanto di valori insindacabili quanto di quel senso di legittimità senza il quale nessuna istituzione, militare e non, può essere credibile. Quindi, continuare ad esistere. Sia tuttavia chiara una cosa: gli eserciti, in età contemporanea, non possono prescindere (o prevaricare) l’ordinamento politico e istituzionale. Sono semmai parte del secondo, con le specifiche funzioni che vengono ad esse assegnate. Quando le cose vanno altrimenti, si pensi ai casi recenti ripetutisi nel Mediterraneo o in Medio Oriente, ad esempio in Libia o in Irak, si passa alla pura fazionalizzazione e quindi alla frantumazione in milizie armate, specchio della dissoluzione dello Stato e della disintegrazione delle società civili.
Claudio Vercelli, storico contemporaneista, è docente a contratto all’Università Cattolica di Milano. Ha svolto inoltre attività di ricerca di storia contemporanea presso l’Istituto di studi storici Salvemini di Torino. Attualmente collabora con il Centro studi Piero Gobetti. Per la Fondazione Università popolare di Torino è titolare dell’insegnamento di Storia contemporanea. Giornalista, è collaboratore, tra gli altri, del Manifesto, di Pagine ebraiche, Moked, Bet Magazine-Mosaico, Patria Indipendente, delle testate online Doppiozero e Nazione Indiana, nonché del periodico Prometeo, trimestrale di scienza e storia. Ha pubblicato numerosi volumi tra i quali: Tanti Olocausti. La deportazione e l’internamento nei Lager nazisti (La Giuntina, Firenze 2005); Israele e Palestina: una terra per due (Ega, Torino 2005); Israele. Storia dello Stato 1881-2008, dal sogno alla realtà (La Giuntina, Firenze 2007-2008); Breve storia dello Stato d’Israele (Carocci, Roma 2009); Storia del conflitto israelo-palestinese (Laterza, Roma-Bari 2010); Triangoli viola. La persecuzione e la deportazione dei testimoni di Geova nei Lager nazisti (Carocci, Roma 2012); Il negazionismo. Storia di una menzogna (Laterza, Roma-Bari 2013); Il dominio del terrore. Deportazioni, migrazioni forzate e stermini nel Novecento (Salerno editrice, Roma 2016); Israele 70 anni, nascita di una nazione (il Capricorno, Torino 2018), Neofascismi (il Capricorno, Torino 2018); “Francamente razzisti”. 1938: storia e memorie delle leggi razziali (il Capricorno, Torino 2018), Soldati. Storia dell’esercito italiano, dall’Unità ad oggi (Laterza, Roma-Bari); L’anno fatale. 1919 Da piazza San Sepolcro a Fiume (il Capricorno, Torino 2019). È inoltre co-curatore, con Francesca Romana Recchia Luciani, del volume collettaneo Pop Shoah? Immaginari del genocidio ebraico (Il Nuovo Melangolo, Genova 2016), A breve darà alle stampe 1942. El Alamein (il Capricorno, 2019) e Il sionismo. Tra diaspora e Israele (Carocci, Roma 2020).