
Questa strategia, tuttavia, non evitò l’insorgere di un’insolubile aporia, in quanto si mescolarono tra loro categorie di pensiero di matrice cristiana con alcuni concetti derivanti dalla tradizione ebraica, come ha ben spiegato lo studioso Amnon Raz-Krakotzkin. Questa operazione intellettuale fu certo animata dalle più nobili intenzioni da parte dei maskilim (gli ebrei emancipati vicini all’Illuminismo ebraico, i.e. la Haskalah). Eppure, come mostra la successiva ricezione sionista, una simile operazione ebbe un esito involuto, dal momento che, anziché ridisegnare semplicemente i contorni dell’idea di comunità ebraica, offrì agli ebrei sempre più attivi nella vita politica e sociale europea delle nuove categorie ibride, a partire dalle quali poter edificare le loro rivendicazioni politiche di gruppo. Quello che svolgo pertanto nella prima parte del libro è un discorso di carattere propedeutico utile a comprendere sia l’uso politico che il sionismo fece del «sognare Sion», che le basi filosofiche e concettuali su cui il movimento stesso fondò i suoi presupposti e la sua forza.
Vorrei poi chiarire ancora un aspetto. Quando parlo di uso strumentale del «sognare Sion» mi riferisco alla rivisitazione in chiave evolutiva della precedente storia ebraica promossa dal discorso nazionalistico, secondo la cui lettura «sognare Sion» presuppone «fondare Israele». I primi sionisti, infatti, come Ilia Grünberg o Nahum Slouschz, interpretarono romanzi, poesie e saggi pubblicati dagli ebrei nel corso dell’Ottocento a partire da questa prospettiva teleologica, piuttosto inusuale nel pensiero ebraico, ma molto diffusa nelle fonti sioniste. Questa presenza si spiega in relazione alla mutata percezione del tempo prodotta proprio dall’influsso dello storicismo europeo di cui accennavo sopra. La prospettiva teleologica, infatti, alterò l’idea stessa di speranza ebraica e il correlato concetto di Messia, offrendo una nuova categoria politico-filosofica. Mi riferisco al «messianismo» che fu non a caso utilizzato in funzione critica dai primi oppositori al sionismo, penso, ad esempio, allo storico Simon Dubnow o al giornalista David Fresco. Fu così che il «sognare Sion» diventò un momento interno all’evoluzione dell’ebraismo. Una tappa decisiva, dunque, nel cammino pur agitato che avrebbe condotto gli ebrei ad abbracciare il sionismo, ritenuto la meta storica finale della realizzazione dell’ebraismo tout court.
Trattasi di una questione alquanto complessa che qui posso solo menzionare a grandi linee. Basti ricordare che la visione teleologica abbracciata dagli studiosi sionisti, grazie a cui essi riscoprirono le utopie di Sion, si lega a una più annosa problematica filosofico-religiosa presente nella Haskalah stessa e che da questa passò poi al sionismo. Nel libro ricostruisco alcuni snodi decisivi di questo processo a partire dal quale si introdusse una progressiva alterazione della tradizionale percezione del tempo all’interno della cultura e del pensiero ebraici, come lo storico Amos Funkenstein ha spiegato. Si consideri infatti che l’ebraismo è di per sé refrattario a una visione lineare del tempo e il suo percorso attraverso la storia è sempre stato declinato dagli ebrei nei termini di un moto circolare, anziché lineare. Motivo per cui uno storico come Funkenstein parlò di indifferenza in relazione alla percezione del tempo da parte degli ebrei prima della loro emancipazione. Pertanto l’alterazione di tale rapporto divenne un elemento determinante nella costruzione del pensiero politico sionista, nonché nella conseguente rivisitazione in chiave ideologica della speranza messianica, della letteratura e della storia ebraica passata.
Di quali speranze si nutriva l’immaginario utopico ebraico che sorse negli ultimi decenni dell’Ottocento?
La principale speranza che animò l’immaginario utopico ebraico si lega al tentativo di ridefinire i confini delle comunità ebraiche nell’epoca dei nazionalismi. In queste fonti la maggiore preoccupazione che accomuna tutti gli autori, pur di diversa provenienza e non in contatto tra loro, riguarda il destino dell’ebraismo inteso come comunità spirituale, culturale e sociale. Come riconfigurare una società ebraica futura di fronte ai sostanziali mutamenti sociali, economici, familiari che l’industrializzazione aveva introdotto? Sulla scia di tale interrogativo gli utopisti come Max Osterberg e il rabbino Henry P. Mendes, si immaginarono una società ebraica in cui la religione e la scienza avrebbero potuto convivere una accanto all’altra, senza che, per dirla con Weber, la religione avesse richiesto un «sacrificio dell’intelletto».
Un’altra speranza, non meno urgente della precedente, riguardava il superamento di ogni forma di antisemitismo. Nella prefazione dell’utopia Ein Zukunftsbild (1885) l’autore Edmund Eisler scriveva, ad esempio, di aver composto l’utopia proprio dopo aver subito un attacco antisemita durante il quale la sua casa era stata distrutta. Attraverso la fantasia utopica egli auspicava di trovare un luogo in cui tali episodi di violenza non sarebbero più avvenuti. Analoghe speranze animarono la breve utopia del galiziano Isaac Fernhof, il cui racconto prende avvio da un episodio di quotidiano antisemitismo. «Sognare Sion» diventa così una via di fuga dalle sofferenze patite dagli ebrei in diaspora. Il personaggio di Fernhof, infatti, si addormenta nella carrozza di un treno e inizia a sognare una futura società ebraica, dove gli ebrei non avrebbero più subito discriminazioni e ingiustizie analoghe.
Vorrei solo aggiungere che tali narrazioni utopiche non sarebbero probabilmente state prodotte qualora la sintesi proposta dall’Haskalah tra l’acquisizione della cittadinanza e l’appartenenza all’ebraismo non fosse entrata in crisi per effetto dei cambiamenti subiti dal tessuto sociale, culturale e politico nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Nella fattispecie l’indebolimento della sfera religiosa produsse un ironico rovesciamento nella sintesi tra ragione e religione proposta dalla Haskalah. Lo scrittore Israel J. Singer ne offre una valida raffigurazione in La famiglia Karnowsky (1943), dove si legge: «La vita è burlona, rabbi Karnowski, ama giocarci qualche tiro mancino. Volevamo essere ebrei in casa e uomini in strada, la vita è arrivata e ha messo tutto sottosopra: siamo goyim [i.e. non-ebrei] in casa ed ebrei in strada». Citando indirettamente il padre della Haskalah russa, Judah Leib Gordon, Singer riconosceva la crisi di quella sintesi tra un’apertura all’universalismo della cittadinanza e la conservazione di un’idea di comunità tra le mura domestiche su cui il lungo processo di emancipazione ebraica si era eretto.
Quali utopie sioniste germogliarono in epoca contemporanea e in che modo esse ripensavano la vita collettiva ebraica al di fuori del ghetto?
Innanzitutto mi preme fare una precisazione terminologica. Nel volume ho adoperato la categoria «utopie di Sion» al posto della precedente dicitura, storiograficamente debole, «utopie sioniste». Gli studiosi, infatti, a cui si deve la riscoperta di tali narrazioni, parlarono espressamente di «utopie sioniste» in virtù dell’idea che le visioni letterarie in esse contenute fossero profetiche anticipazioni della fondazione dello stato di Israele. Risulta evidente che la concomitanza tra la riscoperta delle utopie di Sion e la nascita del nuovo stato giocò un ruolo non secondario. Per questo motivo la categoria «utopie sioniste» risulta problematica. Parlare di utopie di Sion consente invece di spostare l’attenzione dal discorso politico a quello filosofico e religioso, riconducendo la genesi di questa specifica produzione letteraria all’età dell’emancipazione e alla Haskalah. Inoltre, con la categoria «utopie di Sion» ho voluto porre al centro il termine Sion allo scopo di evidenziare le rimodulazioni che tale nozione centrale nell’ebraismo ha subito in età contemporanea, parlando per l’appunto di «disseminazione», «amore» e «ritorno» quali metamorfosi di Sion. In questi romanzi la convergenza decisiva rimane infatti quella tra il luogo dell’utopia e Sion a prescindere dall’identificazione tra Sion e la Palestina ottomana, che non è sempre presente.
Questi Zukunftsromane dunque offrirono un’immagine e con essa una possibile riformulazione della vita collettiva ebraica al di fuori del ghetto, attingendo dai modelli politici e letterari europei, ma adattando tali modelli all’ebraismo. A tal fine, questi «sognatori di Sion» si avvalsero dell’immaginario utopico per ridefinire l’idea di nazione ebraica in un’epoca in cui il concetto stesso di «nazione» stava assumendo una nuova valenza a causa dell’emergere dei movimenti nazionalistici. Solo apparentemente, dunque, questi utopisti aderirono alle «utopie dello stato nazionale» che la letteratura dell’epoca stava producendo. In realtà gli autori che ho trattato nel libro dimostrarono di sfruttare il modello letterario utopico per ridare centralità all’ebraismo. Così facendo, essi finirono, però, per sovrapporre la nozione di comunità a cui essi aspiravano con il nuovo concetto di comunità politica e nazionale, avvalorando di conseguenza la convergenza tra discorso politico e quello religioso.
Tale sovrapposizione si nota, ad esempio, nell’utopia ebraico-tedesca di Max Osterberg, Das Reich Judäa im Jahre 6000 (1893), in cui si narra di un viaggio di piacere a Gerusalemme, capitale del futuro regno ebraico, nel lontano 2240. Il protagonista è un giovane tedesco di religione cristiana, Ludwig von Fürsprech, ospite presso Wolf Frankfurter, amico di famiglia e illustre cittadino del futuro regno. Le posizioni conservative dell’autore sommate allo sforzo di modernizzare la propria Sion trovano un punto di incontro nel modello europeo offerto dalla monarchia costituzionale con un re, una famiglia reale e un parlamento. Tuttavia, Osterberg si adoperò per adattare il modello monarchico al fine di offrire un paradigma politico e religioso in una versione ebraica. Tale operazione condusse così l’autore – ammirato da Theodor Herzl – a definire la sua futura Sion nei termini di uno jüdisches Reich. Un regno ebraico, dunque, prima ancora che uno Judenstaat.
Altri esempi sono offerti da Jacques Bahar e dal rabbino Henry P. Mendes. Diversamente da Max Osterberg, entrambi gli autori aderirono al sionismo, seppur in modo differente: Mendes fu piuttosto attivo nel corso di tutta la sua vita, mentre Bahar se ne allontanò dopo soli due anni, come l’amico Bernard Lazare. Eppure, un punto li accomuna: sia Mendes che Bahar pensarono infatti di poter sfruttare il nuovo movimento per dare seguito alle proprie teorie politico-religiose.
Mi limito per ragioni di spazio al racconto Antigoysme à Sion (1898) di Bahar, in cui si ribalta l’antisemitismo francese che contraddistinse il noto Affaire Dreyfus, immaginando un ipotetico «antigoismo» nella futura Palestina, dove ora a essere discriminatati sono i non-ebrei (in ebraico goyim). Questo rovesciamento di prospettiva è funzionale alla critica di Bahar alla società francese dell’epoca, nonché all’idea di una nazionalità fondata su vincoli di lealtà e appartenenza a una determinata comunità politica. La futura Sion di Bahar, definita anche «Stato sionista» e «regno di Dio», vuole invece prefigurare una società migliore con un regime di cittadinanza capace di porsi al di là dei vincoli di fedeltà che lo stato nazionale presupponeva. Tuttavia, l’universalità dei diritti a cui Bahar sembra aspirare contrasta con un certo esclusivismo e con la centralità che l’ebraismo avrebbe dovuto avere nella futura società. Trapela infatti dal testo la speranza in una progressiva introiezione dei precetti dell’ebraismo da parte degli stranieri, definiti dall’autore tramite categorie religiose come cristiani o mussulmani. Vivendo nella futura Sion questi stranieri avrebbero con il tempo fatto propri usi e costumi tipicamente ebraici, come il rispetto dello Shabbath, delle regole alimentari e di norme religiose come la circoncisione. Non sorprende dunque che la compresenza di un modello universalistico di inclusione sociale da un lato e di un sotteso esclusivismo dall’altro generi un palpabile contrasto nell’utopia di Bahar, così come anche nelle altre «utopie di Sion».
Stefania Ragaù, dottoressa di ricerca in Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa, si occupa di storia del sionismo, ebraismo e messianismo tra Otto e Novecento, con una particolare attenzione per la teologia politica e la filosofia della storia.