
Nel primo gruppo troviamo il premio Nobel per l’economia (1974) e sociologo austriaco naturalizzato britannico Friedrich von Hayek (1899-1992): nel suo Scientism and the Study of Society (1942/1944) contestava l’applicazione dei metodi delle scienze naturali allo studio e soluzione dei problemi relativi alle istituzioni sociali e alla collettività.
Poi Karl Popper (1902-1994) che, rifacendosi proprio a Hayek, intravedeva nel dogmatismo metodologico tipico dello scientismo il presupposto del totalitarismo. Secondo Popper, la scienza procede non solo razionalmente ma anche con l’ausilio di altre forme di pensiero come, ad esempio, la metafisica. Inoltre, il filosofo era anche scettico sulla possibilità di approdare a una qualunque certezza in ambito scientifico; senza per questo rinunciare alla ricerca della verità, che è invece il presupposto del suo razionalismo critico. Infine, Popper sosteneva l’inconsistenza di concetti come quello, tanto invocato, di ‘metodo scientifico’, quale presunto criterio oggettivo per valutare una teoria. Infatti, egli scriveva: “non esiste alcun metodo scientifico in nessuno di questi tre sensi: […] non c’è alcun metodo per scoprire una realtà scientifica; non c’è alcun metodo per accertare la verità di un’ipotesi scientifica, cioè nessun metodo di verifica; non c’è alcun metodo per accertare se un’ipotesi è probabilmente vera (Popper, 1956-57, trad. it. p. 44).
Anche altri filosofi, come Hilary Putnam (1992, trad. it. p. x) e Tzvetan Todorov (2001, p. 20), hanno criticato sia l’appoggio dogmatico al metodo scientifico che il ritenere (vera) conoscenza solo ciò che può essere contato, misurato, quantificato (come invece pensavano Galilei e Cartesio). Come a dire, se non si può contare allora non conta. Proprio l’opposto pensava Albert Einstein che (pare) nel suo ufficio alla Princeton University avesse appesa la seguente massima “Non tutto ciò che conta può essere contato, e non tutto ciò che può essere contato conta”.
Fra i progressisti, invece, Max Horkheimer (1895-1973) e Jürgen Habermas hanno lungamente combattuto lo scientismo, considerato come un fenomeno culturale figlio della moderna civiltà occidentale. Ma, forse, il più acerrimo oppositore allo scientismo è stato il filosofo Paul Feyerabend (1924-1994). Seppur partito, in età giovanile, da posizioni scientiste, più tardi si convinse che la scienza è «un’impresa essenzialmente anarchica» e non merita alcun monopolio esclusivo sul «commercio della conoscenza».
Oggi, dopo le filosofie critiche degli anni Settanta e il post-modernismo degli anni Novanta, lo scientismo sta rivivendo una nuova stagione. Uno degli indizi è l’uso diffuso nel discorso pubblico di espressioni quali “anti-scientifico”, “naturale”, “oggettivo”, “realtà dei fatti”, “vera verità”, “evidence-based”, “pseudoscienza”, “teorie complottiste”, “fake news”, “post-verità”. Una costellazione di termini tesa a fornire una visione rassicurante della scienza, pensata come impresa dai confini precisi e dai risultati inequivocabili. Questo ritratto caricaturale, quasi fumettistico, da Tex,
mal si concilia con la presenza, all’interno della scienza e sin dalla sua nascita, di inevitabili controversie, tesi divergenti e prospettive plurali.
All’inizio dicevamo che gli scientisti sono convinti che il sapere scientifico debba essere a fondamento di tutta la conoscenza, anche in etica e in politica. Ebbene, un secondo indizio del recente revival scientista è pensare che di un qualsiasi tema (scientifico, sociale, politico, etico ecc.) se ne debbano occupare solo gli “esperti”, gli unici ad avere le conoscenze adatte per affrontare i problemi e risolverli. E a lamentare il fatto che i politici ascoltano troppo poco gli scienziati e gli esperti. Eppure se c’è stato un momento in cui i politici hanno seguito, come non mai, le indicazioni degli scienziati è stato proprio in occasione dell’attuale pandemia di SARS-COV-2. E non ci pare che sia andata meglio delle altre volte.
Il problema è che gli scienziati stessi sono stati divisi (e lo sono ancora) su molti aspetti di questa pandemia: dall’efficacia delle mascherine alla terapie più adatte e protocolli per affrontare la malattia Covid-1; dalle modalità di trasmissione del virus all’attendibilità dei test per rilevare i positivi; dalla bontà dei modelli predittivi dell’evoluzione della pandemia all’utilità delle chiusure generalizzate. Gli scienziati ed esperti, a seconda del loro profilo professionali (biologi, infettivologi, immunologi, microbiologi, virologi, epidemiologi, clinici, medici di base ecc.) hanno detto cose diverse; anche con accuse reciproche di incompetenza. Visto che la scienza non forniva risposte univoche, i suggerimenti di quali discipline il politico avrebbe dovuto seguire? Senza dimenticare che ci sono stati anche conflitti intra-disciplinari (e non solo inter-disciplinari).
Perché occorre ripensare la scienza?
Per diversi motivi.
Innanzitutto, l’immagine della scienza (come impresa monolitica e univoca) che ne da la maggior parte degli scienziati non è verosimile. La Scienza (con la S maiuscola) non esiste. Esistono, invece, le comunità scientifiche. Esse sono costituite da pratiche e procedure, gruppi di persone, istituzioni (laboratori, dipartimenti, enti, società scientifiche e associazioni professionali, conferenze, congressi, seminari, corsi di laurea ecc.), codici di comportamento e etiche della ricerca, culture epistemiche (ovvero epistemologie e modi di vedere la realtà, di considerare ciò che è un fatto o una prova ecc.) che cambiano da disciplina a disciplina.
All’inizio del secolo scorso ci sono stati pensatori che hanno tracciato le linee di questa diversa concezione della scienza. Pensiamo al matematico, storico della scienza e filosofo Federigo Enriques (1906) in Italia; al filosofo, storico della scienza, fisico e matematico Pierre Duhem (1906) e al filosofo della scienza Gaston Bachelard (1934) in Francia; al microbiologo e filosofo Ludwig Fleck (1935) in Polonia. Poi a partire dagli anni Cinquanta è arrivata la “nuova filosofia della scienza” (Norwood Hanson, Thomas Kuhn, Paul Feyerabend, Michael Polanyi) che ha messo in luce il carattere contestuale, relazionale, culturalmente e storicamente condizionato anche dei processi conoscitivi scientifici. Tutti questi autori hanno fornito un’immagine più equilibrata della scienza, pur riconoscendone la sua specificità rispetto ai normali processi conoscitivi umani.
In secondo luogo anche i media hanno trasmesso e perpetuato un’immagine inverosimile della scienza, facendo propria la visione scientista. Però qui, durante questa pandemia, qualcosa è andato storto. È successo qualcosa di imprevedibile, che in qualche modo si è ritorto contro la stessa immagine scientista: negli studi televisivi (forse per la prima volta in modo così palese) abbiamo assistito a conflitti interpretativi e battibecchi fra scienziati, con le reciproche accuse di incompetenza; siamo stati testimoni di presentazioni di informazioni e comunicazioni contraddittorie (soprattutto nelle prime fasi di diffusione del virus, dato che era un virus sconosciuto). In altre parole, i media sono stati (inconsapevolmente) i promotori di un cambiamento epistemologico presso il vasto pubblico, facendo emergere una diversa immagine della scienza, più kuhniana e in parte anche popperiana (a scapito del modello neopositivista), fatta di conflitti, interessi, opinioni diverse, certezze che vengono rimesse in discussione dopo poche settimane, previsioni che raramente si avverano, terapie sbagliate e giuste ecc., che finora era relegata alla filosofia e sociologia della scienza. Insomma, proprio in virtù dell’esposizione mediatica che hanno avuto gli scienziati, la scienza in TV si è mostrata con un volto nuovo, cioè come un’impresa in tutto e per tutto “umana” e “sociale”. Una specie di (salutare) autogol.
Quando e come nasce la sociologia della scienza?
Definire il momento di nascita di una disciplina è quasi impossibile. Possiamo però ripercorrerne i passaggi fondamentali che hanno portato alla definizione della disciplina così come oggi la conosciamo.
La sociologia della scienza, infatti, affonda le sue radici nella storia e nella filosofia della scienza della prima metà del ‘900, quando pensatori come quelli prima citati avevano indagato vari aspetti della scienza come impresa intellettuale. Questi pensatori, tuttavia, non arrivarono mai a considerare la scienza come qualcosa di indagabile al pari di qualsiasi altro fenomeno sociale. Anche Robert Merton, spesso considerato il primo sociologo della scienza, non prese mai in considerazione il contenuto del sapere scientifico, che non riteneva rilevante dal punto di vista sociologico, ma si limitò a fornire una descrizione fortemente idealizzata dei principi che egli riteneva muovessero la comunità scientifica.
Fu solo negli anni ’60 e ’70 che cominciò a prendere forma la sociologia della scienza come la conosciamo oggi. Nel 1962, lo storico della scienza americano Thomas Kuhn pubblicò La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche, un’opera che segnò una vera e propria svolta nel modo di studiare la scienza. Kuhn descrisse la nascita e l’affermazione di quelli che chiamava “paradigmi” (cioè insiemi di teorie e pratiche scientifiche) come percorsi ciclici nei quali la cosiddetta “scienza normale” (cioè periodi in cui la maggioranza della comunità scientifica riponeva la propria fiducia in una certa teoria) si alterna a periodi di “scienza rivoluzionaria”, nei quali un’anomalia divenuta troppo spinosa finisce per smantellare ogni certezza. È a questo punto che un nuovo paradigma, completamente differente da quello precedente sia dal punto di vista teorico che da quello metodologico, prende piede. All’interno di questa dinamica, la scienza non appare più indipendente dai gruppi sociali che la praticano; al contrario, essa si rivela come socialmente determinata e comprensibile solo all’interno del contesto storico, economico e culturale all’interno del quale essa viene praticata.
Pochi anni dopo, all’Università di Edimburgo, nacque la Science Studies Unit, un gruppo di lavoro interdisciplinare volto ad indagare la scienza (o meglio, le conoscenze scientifiche) come fenomeno sociale. La Science Studies Unit fu fortemente voluta e supportata proprio dai dipartimenti scientifici dei quell’ateneo. In quegli anni, infatti, la presa di coscienza degli effetti indesiderati dell’industrializzazione su larga scala, i mutamenti ambientali dovuti all’uso dei pesticidi da parte dell’industria agroalimentare e il timore dilagante per il possibile scoppio di una guerra nucleare avevano messo in luce il lato pericoloso e ambiguo dell’uso incontrollato e irresponsabile delle nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche. La fiducia incontrastata nel progresso aveva cominciato a vacillare. È proprio in questo contesto che – invece che riporre una fiducia incontrastata (quasi dogmatica) sul fatto che la scienza e la tecnologia potessero avere l’ultima parola su ogni problema e fornissero una soluzione ad ogni rompicapo – venne avvertita l’esigenza, non solo da parte dei sociologi, ma anche e soprattutto da parte di scienziati ed ingegneri, di indagare il rapporto tra scienza e società. La convinzione era che proprio nella comprensione reciproca si potessero gettare le basi per un rapporto più consapevole e responsabile.
Quali sono i temi principali degli Science and Technology Studies (STS)?
Nei suoi oltre cinquant’anni di storia, gli STS hanno abbracciato un numero enorme di temi. L’espressione Science and Technology Studies designa un campo estremamente interdisciplinare, all’interno del quale si intersecano sociologia, storia, filosofia, antropologia, letteratura, studi di genere, geografia culturale e altre discipline ancora. Queste diverse tradizioni disciplinari, e la loro fertile commistione di approcci e campi di ricerca, hanno fatto sì che i temi indagati dagli STS dagli anni ’70 in poi siano molteplici e multi sfaccettati. Gli studiosi di STS si sono chiesti, per esempio, come vengano definiti, mantenuti o ridisegnati i confini di quella che noi chiamiamo scienza; come venga attribuita una certa autorità ad alcuni individui piuttosto che altri; in che cosa consista “l’oggettività” (e se esista, in un certo senso, l’oggettività, o se esistano al contrario tante prospettive situate); cosa sia un “fatto scientifico” e come venga costruito; quali siano le modalità comunicative attraverso le quali la scienza viene comunicata, e quali siano le implicazioni pratiche di ciascuna di queste modalità; quale ruolo abbia giocato la scienza nella costruzione delle differenze sociali e di genere, ecc. Tutte queste tematiche hanno in comune un presupposto fondamentale: le pratiche scientifiche sono performative, cioè creano e ricreano la natura stessa di ciò che definiscono.
Oggi tutti questi temi (e molti altri ancora) vengono indagati in molti ambiti di studio. Nel nostro libro abbiamo scelto di affrontarne alcuni che riteniamo particolarmente significativi per le sfide del nostro tempo: l’ambiente, la medicina e il mondo digitale, ma anche il rapporto fra l’umanità e le altre specie viventi, le biotecnologie, l’intelligenza artificiale, l’esplorazione spaziale, l’agricoltura. Scienza e tecnologia sono oggi pervasivi, e gli STS ci forniscono quindi strumenti per meglio comprendere ogni ambito del nostro vissuto.
In che modo scienza e tecnologia costituiscono due facce della stessa medaglia?
Scienza e tecnologia sono due oggetti di studio almeno in parte differenti. Laddove la scienza si presenta come un sapere “universale”, “oggettivo” e “sperimentale” (e il compito della sociologia è indagare in che modo queste caratteristiche le siano attribuite e sostenute), la tecnologia è molto più esplicitamente composita, eterogenea e fisicamente localizzata.
In realtà, tuttavia, distinguere nettamente scienza e tecnologia è impossibile: ogni apparato tecnologico incorpora un certo numero di conoscenze scientifiche e, a sua volta, la ricerca scientifica si basa sull’uso di una moltitudine di strumenti tecnologici, a volte molto semplici, altre volte estremamente complessi. Si pensi per esempio a quanto siano fondamentali gli enormi apparati che compongono gli acceleratori di particelle per lo sviluppo della fisica subatomica, o quanto la ricerca in campo biologico dipenda da microscopi, pipette, piastre di Petri, centrifughe ecc.
Dove finisce la scienza e comincia la tecnologia (e viceversa)? Il confine tra scienza e tecnologia non può essere individuato né negli oggetti né nelle pratiche, ma è di origine retorica, appartiene cioè alla dimensione interpretativa. Ogni oggetto tecnologico, indipendentemente dal fine per il quale era stato progettato, si ritroverà a far parte di sistemi di conoscenze, persone, prodotti, macchinari, fondi, mercati ecc. estremamente articolati e dai confini sfumati. Latour suggerì l’espressione “tecnoscienza” per enfatizzare la natura ibrida e relazionale di scienza e tecnologia; esse infatti esistono sempre in sistemi composti da elementi interconnessi e indissociabili, e non si possono trovare isolate l’una dall’altra.
Su quali presupposti è possibile fondare un nuovo umanesimo scientifico?
Il primo passo è stato già tracciato dagli autori richiamati nella prima domanda, che andrebbero recuperati. Essi hanno storicizzato, “antropologizzato” e “sociologizzato” la scienza. Su questo solco si sono inseriti gli STS che hanno ampliato la prospettiva e condotto analisi raffinate in molte discipline.
Questa tendenza, che può spaventare molti scienziati, non dev’essere assolutamente vista come qualcosa di negativo: accettare l’ineliminabile circolarità tra scienza e società, considerare la scienza (anche quella apparentemente più impersonale, come la matematica) come impresa umanistica, sociale e culturale non la sminuisce affatto. Al contrario, la rende più aperta, morale e utile. Ripristinando un rapporto più bilanciato (e un atteggiamento più tollerante verso le opinioni e ipotesi diverse), a beneficio sia della società che della scienza stessa.
A ben vedere, questa proposta è un (benefico) ritorno agli Antichi, che paradossalmente, dal punto di vista epistemologico, erano più saggi di noi. Per loro natura e cultura erano inestricabili. Infatti la nostra civiltà è da sempre vissuta assieme alla scienza e alla tecnica, che gli antichi greci chiamavano episteme e techné, anche se non siamo sempre stati consapevoli di questo legame. Un nuovo approccio alle scienze, che Latour (2010) chiama “umanesimo scientifico”, potrà rendere nuovamente evidente che le scienze sono umane.
Ecco perché è urgente, oggi più che mai, ripensare la scienza.
Giampietro Gobo insegna Sociologia delle scienze e delle tecnologie e Metodologia della ricerca sociale all’Università degli Studi di Milano
Valentina Marcheselli è assegnista di ricerca presso il dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale dell’Università di Trento