
Sono stati per primi gli antropologi, all’inizio del ‘900, a utilizzare le immagini per documentare visivamente le proprie ricerche in paesi lontani e solo da alcuni decenni, in seguito alla rivoluzione digitale e alla diffusione di internet, l’utilizzo delle immagini per fare ricerca si è maggiormente “affermato”: il ricercatore, per compiere la sua indagine sul campo, può acquisire dati e informazioni attraverso delle immagini (fotografiche o audiovisive), che possono confermare o smentire le sue ipotesi teoriche di ricerca elaborate precedentemente, durante la fase preparatoria. Un altro possibile utilizzo delle immagini è legato alla divulgazione, al termine del suo percorso conoscitivo, per facilitare la diffusione dei risultati. In questo caso di parla di Sociologia visuale CON le immagini, nel senso che le immagini sono state realizzate dal ricercatore stesso o dal soggetto/i indagato (produzione soggettiva di immagini). Interessante è anche l’uso delle immagini per intervistare e stimolare le risposte dei soggetti indagati, la cosiddetta “intervista con fotostimolo”, un modo per cercare di stabilire una relazione più empatica, più aperta a risposte poco prevedibili.
È possibile utilizzare il cinema per fare ricerca sociale?
Si, l’altro grande filone di studio, a me particolarmente caro, riguarda infatti la Sociologia visuale SULLE immagini, cioè l’indagine di immagini già presenti nella nostra società, come ad esempio lo studio di opere cinematografiche che possono fornire informazioni su una determinata società o su un determinato periodo storico. Proprio la cosa di cui mi occupo io: indagare la realtà attraverso la finzione (il cinema). Il cinema italiano rappresenta un grande “giacimento visuale”, un patrimonio di immagini che può essere utilizzato per comprendere come è cambiata la società italiana, da Gli uomini che mascalzoni, commedia sulla piccola borghesia italiana del 1932, passando per il periodo neorealista con Roma città aperta, Ladri di biciclette, Riso amaro, Sciuscià, la commedia all’italiana, il cinema dei grandi autori, fino ai giorni nostri, con registi importanti come Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana e Gianni Zanasi.
Quando nasce la sociologia del cinema?
Sono stati per primi i francesi, con la scuola storica degli Annales a utilizzare il cinema come nuova fonte da utilizzare per fare ricerca, per arrivare poi a Sigfried Kracauer, accostato alla teoria critica della Scuola di Francoforte, che realizzò nel 1947 il primo studio di sociologia del cinema, basato sulla cinematografia tedesca dei primi trent’anni del ‘900: “Dal Gabinetto del Dottor Caligari a Hitler. Una storia psicoanalitica del cinema tedesco”. Indagando i film tedeschi di quel periodo Kracauer rileva degli “indicatori sociali” che avrebbero poi portato all’affermazione del nazismo.
Riflettere sul cinema significa cogliere, “come in uno specchio”, un riflesso del mondo, troppo caotico e casuale per essere analizzato in sé. Il cinema diviene una categoria dello spirito e diventa il Gran Teatro del Mondo, un’arte legata all’evoluzione della società e capace di superare i limiti dello spettacolo.
In che modo nelle opere cinematografiche italiane da Lei analizzate si riflettono dinamiche e aspetti della società contemporanea?
Comunemente, per semplificare, tendiamo ad identificare un film con il nome del regista, come se l’opera cinematografica fosse frutto principalmente di una sola persona.
In realtà un film è frutto di un lavoro collettivo, vi partecipano un gran numero di persone, basta veder scorrere i lunghi titoli di coda a fine film, che collaborano per un certo periodo di tempo, dall’ideazione alla postproduzione, per arrivare al master del film, la copia campione o al DCP (l’hard disk del film completato). Questo grande lavoro collettivo, coordinato in tutti i suoi aspetti dal regista, riflette degli elementi (indicatori) della società che lo realizza, ovvero delle persone inserite in una determinata società che partecipano alla sua realizzazione. Chi lo pensa, chi lo scrive, chi realizza i costumi o la scenografia, chi realizza la colonna sonora ecc. vive la contemporaneità, nel suo paese in una determinata epoca; in un certo senso riflettono lo spirito del loro tempo e inseriscono nell’opera degli elementi di conoscenza rilevabili da un ricercatore sociale.
Attraverso la finzione mettiamo in scena la realtà che ci circonda, un certo aspetto o argomento, una certa storia, che vogliamo raccontare e comunicare, creando un immaginario che a sua volta può influenzare il pubblico che vedrà il film.
Qual è stato l’impatto della rivoluzione digitale sul nostro modello di società?
Un impatto molto forte che ci ha travolto, cambiando le nostre vite senza che ce ne rendessimo bene conto. Riprendendo le categorie di Umberto Eco mi iscrivo a quella degli “apocalittici”, dei critici, di coloro che ritengano che il “principio di precauzione” non valga più: lo sviluppo tecnologico ha preso una sua strada che non siamo in grado di controllare democraticamente. La politica, nazionale o continentale, ha abdicato al mercato finanziario globalizzato, in mano a pochi gruppi multinazionali che dettano i tempi e le condizioni. La velocità in cui agiscono non è arginabile dai sistemi politici elettivi. Mi dispiace dirlo ma non sono ottimista per il nostro futuro.
Stefano Alpini, laureato in Scienze Politiche, ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia e si è specializzato presso l’Università di Bordeaux (Francia). Produttore e regista cinematografico ha prodotto il documentario “211: Anna”, documentario dedicato alla giornalista russa Anna Politkovskaja, uccisa nel 2006, selezionato al Sundance Film Festival e vincitore del premio Ilaria Alpi nel 2009. È stato assistente alla regia di Roberto Faenza e ha diretto il film “Il giocatore invisibile” tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Pontiggia. Dal 2012 insegna Sociologia visuale presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa.