
Sono molte le caratteristiche tipiche – e in qualche modo fondative – delle pratiche di consumo che sono diventate parte integrante del nostro più ampio sistema culturale. Pensiamo ad esempio a come la tendenza al ricambio veloce – all’insegna del valore della novità – sia diventata sempre più comune negli ambiti più diversi, con il suo inevitabile correlato di superficialità e banalizzazione: dai consumi culturali, alla vita politica, al confronto delle opinioni. Se i criteri vincenti sono quelli della quantità, della velocità e della novità, così come siamo portati a considerare superato dopo poco tempo l’ultimo modello di telefono o di vestito, saremo portati a consumare velocemente, per passare presto ad altro, anche persone, relazioni, idee.
Accade così anche per la tendenza alla spettacolarizzazione: i criteri vincenti tanto nelle pratiche di consumo in senso stretto quanto nei più diversi ambiti della vita sociale sono sempre più l’apparenza, la spensieratezza e il divertimento. E lo stesso può dirsi dell’atteggiamento fortemente competitivo, che è fondamentale per alimentare la gara costante con gli altri nei consumi, ma che ci accompagna costantemente in quasi tutti i contesti di vita quotidiana. Per tutto questo, il consumo diventa parte costitutiva della nostra identità: noi siamo ciò che consumiamo e misuriamo su questo il nostro valore e il valore di ciò che ci circonda (ambienti, cose, persone).
Come si è formata la “cultura del consumo” e come ha assunto la forza e la pervasività che oggi conosciamo?
La cultura del consumo si è sviluppata parallelamente al sistema economico fondato sull’accumulazione capitalistica e sulla crescita costante della produzione, dei consumi e dei profitti. Un momento storico molto importante in questo percorso sono stati i primi decenni del Novecento negli Stati Uniti, quando si è creata una saldatura fra gli interessi economici delle imprese, la cultura del consumo che si stava consolidando a supporto dell’aumento della produzione, e gli ideali di libertà e autodeterminazione su cui si fondava il “sogno americano”.
Venne a crearsi in tal modo un “blocco storico” (in senso gramsciano) in cui convergevano diversi fattori, tutti molto potenti, la cui sinergia costituì allora – e continua a costituire tuttora – un elemento di particolare forza per la costruzione e la pervasività della cultura del consumo. Gli interessi economici delle imprese, infatti, trovarono corrispondenza in un sistema ideologico avente al centro l’individuo e le sue potenzialità, fondato sulla competizione e sull’autodeterminazione, finalizzato al raggiungimento della massima soddisfazione personale. Tali ideali e valori risultavano da un lato perfettamente congruenti con la valorizzazione del mercato e dell’assoluta libertà delle imprese dalle ingerenze dello Stato, e dall’altro costituirono una spinta decisiva per l’aumento dei consumi, intesi come espressione di libertà e autorealizzazione.
In questo senso la società dei consumi, come si andò delineando in quegli anni e in quel contesto, assunse anche un potente significato di tipo politico, diventando, soprattutto negli anni del duro confronto con i totalitarismi europei, la prova evidente della superiorità del sistema democratico. In un certo senso, consumare divenne anche una sorta di dovere civico, per consentire all’economia di essere florida nell’interesse di tutti, ma anche per dimostrare la superiorità del modello di vita americano. Con l’esportazione di quel modello in tutto il mondo, nei decenni successivi e fino ai nostri giorni, il consolidamento di quell’insieme di fattori – interesse delle imprese per la libertà di mercato, sistema ideologico-politico fondato sull’autorealizzazione individuale, promessa dei consumi di massimizzare la soddisfazione personale – ha fatto in modo che questo tipo di organizzazione della vita economica, politica e sociale ci sembri l’unico possibile.
Quali difficoltà si incontrano, sul piano più propriamente psicologico, nel mettere in discussione quella cultura?
La facilità con cui la cultura del consumo si è strutturata e l’ampiezza della sua diffusione sono in gran parte dovute proprio al fatto che essa è fortemente ancorata a processi psicologici, ed è per questo stesso motivo che troviamo tanta difficoltà a metterla in discussione. Ovviamente – va sempre ribadito – essa corrisponde in primo luogo a necessità e a logiche di tipo socio-economico; ma il suo funzionamento come motore dell’azione individuale, nella quale poi concretamente il consumo si realizza, avviene mobilitando diversi processi psicologici.
Si è già detto dell’identità; è evidente che quando una porzione così centrale della nostra vita psichica si è costruita intorno ad un certo stile di consumo sarà difficile che questo possa essere messo in discussione. Inoltre, molta parte della cultura del consumo si basa sulla valorizzazione di dinamiche psicologiche profonde, di cui gli individui non sono consapevoli e che attivano potenti emozioni. Uno dei passaggi fondamentali nella costruzione della cultura del consumo, anche da un punto di vista storico, è stato il momento in cui i beni di consumo sono stati presentati non più come mezzi per soddisfare necessità e bisogni, che per loro natura hanno un limite fisiologico, ma piuttosto come chiavi di accesso a un mondo di desideri, fantasie e sogni, che per loro natura invece sono tendenzialmente senza limiti e non soggetti a vincoli di realtà. Se a tutto ciò si aggiunge l’aspetto valoriale connesso con la superiorità del sistema politico democratico e con l’importanza dell’autorealizzazione dell’individuo ci si rende conto di quanto sia difficile pensare ad un’alternativa.
In pratica, nel momento in cui le persone hanno imparato a considerare la crescita continua dell’economia e dei loro consumi come fondamento e in qualche modo sinonimo di prosperità, autorealizzazione, felicità, successo e perfino di società autenticamente democratica, le proposte di revisione di quel modello, come ad esempio quelle che richiedono una riduzione dei consumi, saranno percepite come minacce, e respinte in quanto potenziali portatrici di un inaccettabile regresso sul piano sia individuale che sociale.
Quale rapporto esiste tra la cultura del consumo e la crisi ambientale?
La crisi ambientale che stiamo vivendo, soprattutto con riferimento alle molteplici gravissime problematiche innescate dal riscaldamento globale, è strettamente legata al modello di sviluppo di cui la sovrabbondanza di consumi è parte integrante. Quel modello si basa infatti sulla crescita costante dell’economia, con conseguente continua crescita dell’uso delle risorse naturali, dell’inquinamento e soprattutto della quantità di energia che occorre utilizzare.
Quest’ultimo dato è molto importante rispetto al riscaldamento globale, dal momento che i combustibili fossili, di cui oggi in prevalenza ci serviamo per far funzionare il sistema di produzione industriale, i trasporti, il riscaldamento, gli elettrodomestici e tutte le comodità a cui siamo abituati, sono la causa principale dell’immissione di gas serra in atmosfera. Oltre a ciò, anche il modo in cui ci nutriamo contribuisce in maniera significativa all’effetto serra, non solo perché l’agricoltura industriale richiede l’uso di una grande quantità di combustibili fossili e loro derivati, ma anche per le massicce emissioni di metano degli allevamenti intensivi. Rispetto a tutto ciò, e di fronte agli allarmi sempre più pressanti degli scienziati sull’accelerazione e sulle gravi conseguenze della crisi ecoclimatica, diventa urgente intraprendere la strada di una riduzione dei consumi e un loro orientamento nella prospettiva della sostenibilità, in modo da contenere i danni (ormai purtroppo già in parte fatti) agli equilibri della biosfera.
Contrariamente a ciò che la cultura del consumo ci porta a credere, una tale riduzione non si tradurrebbe necessariamente in un arretramento nella qualità della vita o nelle possibilità di realizzazione dell’individuo, né tantomeno in una diminuzione della libertà e della democrazia. Al contrario, secondo molti, la qualità della vita potrebbe migliorare, non solo per i vantaggi sul versante ambientale, ma anche per il fatto di potersi finalmente liberare della necessità di dover continuamente correre per stare al passo con le aspettative del sistema e con ciò che fanno gli altri. In effetti, ciò che si chiede da parte di chi prospetta una riduzione dei consumi non è la rinuncia alle comodità o al progresso, ma semplicemente la rinuncia allo spreco, che di per sé non è di nessuna utilità concreta per l’individuo. Senonché la cultura del consumo, anche proprio per il suo stretto legame con il sistema socio-economico fondato sulla crescita e sull’accumulazione capitalistica, ha di fatto come elemento costitutivo proprio lo spreco, ed è quindi uno dei principali ostacoli ad una possibile (e sempre più urgente) riconciliazione tra le legittime esigenze di una vita non solo dignitosa, ma anche comoda e interessante, e le necessità e i vincoli del pianeta che ci ospita.
Bruno Maria Mazzara, psicologo sociale, insegna Psicologia dei consumi presso l’Università Sapienza di Roma, dove è stato Direttore del Dipartimento di Comunicazione e ricerca sociale. È membro del Comitato tecnico-scientifico per la Sostenibilità dell’Ateneo. Oltre che di psicologia dei consumi, si è occupato di pregiudizi e relazioni intergruppi, con un approccio di psicologia culturale. Tra le sue pubblicazioni: Il discorso dei media e la psicologia sociale (2008), Prospettive di psicologia culturale (2009), L’incontro interculturale (2010).