“Smart Working reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie” di Luca Pesenti e Giovanni Scansani

Prof. Luca Pesenti, Lei è autore con Giovanni Scansani del libro Smart Working reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie edito da Vita e Pensiero. La pandemia ha repentinamente catapultato, loro malgrado, milioni di lavoratori nel cosiddetto Smart Working: quali condizioni si sono trovati ad affrontare questi “forzati” del lavoro da remoto?
Smart Working reloaded. Una nuova organizzazione del lavoro oltre le utopie, Luca Pesenti, Giovanni ScansaniQuella che durante il lockdown (ed in molti casi ancora oggi) hanno vissuto circa 7 milioni di lavoratori e lavoratrici in Italia è definibile come “misura obbligatoria di remotizzazione lavorativa”, il cui obiettivo non era né l’aumento del benessere, né l’aumento della produttività. L’obiettivo esplicito era invece un altro, ed è bene tenerlo sempre a mente: quello di evitare la diffusione del contagio da Covid-19, permettendo al contempo il proseguimento da remoto di tutte le attività di lavoro possibili. Mi pare indispensabile richiamare alla memoria questo obiettivo primario per consentire di fare degli utili distinguo con l’autentico “lavoro agile”. Si tratta di un distinguo indispensabile per riprendere il cammino cercando di imparare comunque qualcosa dall’esperienza che abbiamo tutti, obtorto collo, dovuto affrontare.

Si è troppo rapidamente salutata l’esperienza di massa del “lavoro forzato da casa” non già come un evento da cui estrarre, alla luce dell’esperienza, tanto gli elementi di interesse effettivamente replicabili in futuro, quanto i problemi rispetto ai quali approfondire l’analisi, bensì come l’avvento, quasi messianico, di una compiuta rivoluzione organizzativa della quale il lavoro in Italia aveva (e nessuno nega abbia) bisogno. Quasi sempre in questi due anni sono mancati alcuni elementi qualificanti del “lavoro agile”: primo tra tutti la volontarietà, ma più in generale la presenza di una riprogettazione organizzativa complessiva.

Lavoro agile, da remoto, smart: la terminologia adottata è varia ma qual è la definizione più adatta al concetto?
Lo smart working è una modalità di lavoro che si basa su principi quali la fiducia, la responsabilizzazione del dipendente e la sua autonomia nella scelta di luoghi, orari e strumenti di lavoro. Soprattutto è un lavoro organizzato per fasi, cicli, obiettivi e misurato sui risultati, presupponendo profondi cambiamenti di approccio in tutta l’azienda. È dunque un cambiamento complesso che impatta fortemente la cultura, la mentalità aziendale e quella della singola persona: solo se ben strutturato può portare benefici all’impresa nel suo complesso, al singolo lavoratore e anche alla società intesa nel suo senso più ampio.

Cosa non è Smart Working?
Non è la pura remotizzazione del lavoro determinata dalla tecnologia. Dunque, non lo è la gran parte di quanto abbiamo visto accadere in questi mesi, e che invece alcuni hanno salutato sic et simpliciter come l’avvento della nuova era smart. E non è per niente smart l’utopia di un lavoro da remoto “sempre e per sempre”, da alcuni prefigurato: il “lavoro agile” autentico non richiede affatto la “morte dell’ufficio”, ma la sua riprogettazione nell’ambito di una nuova cultura dell’organizzazione.

Quali sono virtù e limiti dello Smart Working?
La letteratura internazionale già da tempo studia il fenomeno in contesti dove si è più sviluppato. La grande virtù del lavoro agile è quella di permettere una migliore gestione dei tempi diminuendo quelli necessari per gli spostamenti ed aumentando (almeno sulla carta) il “tempo per sé” e il tempo dedicato alla famiglia. La diminuzione del pendolarismo comporta anche meno costi e un impatto positivo sull’inquinamento. Il limite più grosso è legato al rischio che il lavoro debordi, sfondando il confine con la vita privata. Accanto a questo le ricerche segnalano che più si lavora da remoto e più aumenta il rischio di solitudine, senso di isolamento, difficoltà a sentirsi parte di una squadra.

Su quali presupposti è pensabile una “rivoluzione” del lavoro e con quali rischi?
Prima di parlare di rivoluzione occorre ricordare che prima della pandemia erano solo 570mila i lavoratori in Smart Working. C’erano quindi quelle iniziali “minoranze creative” che sempre ispirano le rivoluzioni, ma fino a prima del “lavoro agile emergenziale” lo Smart Working è evidentemente rimasto una faccenda di nicchia.

Coloro che insistono nel dire che invece negli ultimi due drammatici anni si sarebbe compiuta una rivoluzione peccano di un certo determinismo. Ciò che riteniamo possa invece accadere non è una “rivoluzione”, bensì una “trasformazione”, che richiederà molto tempo, molta capacità progettuale, volontà di cambiamento ed una sottostante, solida cultura desiderosa di realizzarla.

L’uso del termine Smart Working per definire una soluzione emergenziale di remotizzazione forzosa al domicilio, è il primo fondamentale errore compiuto dal pensiero mainstream, che ha favorito la confusione tra una misura di ordine pubblico sanitario ed economico – e che ancora oggi funziona come “vaccino organizzativo” – e il preteso avvenuto compimento di una definitiva trasformazione.

Cosa stabiliscono le norme attuali e quali regole sono dunque auspicabili?
Di “lavoro agile” si è iniziato a parlare con crescente frequenza dopo la pubblicazione della Legge n. 81 del 22 maggio 2017, il cosiddetto Jobs Act. Nell’art. 18 della legge si precisa quanto segue: “Le disposizioni del presente capo, allo scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, promuovono il lavoro agile quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

È interessante notare come la legge italiana abbia deciso di introdurre la norma relativa al “lavoro agile” indicando gli obiettivi di incremento di produttività e miglioramento della conciliazione vita-lavoro che vedremo essere due tra i principali vantaggi, quantomeno teorici, collegati all’implementazione dello SW. Definiti gli obiettivi, stabilita la necessità di un accordo individuale (pur senza impedire quello collettivo) ed indicati i requisiti di flessibilità oraria e spaziale, la legge tratta poi il tema fondamentale della sicurezza sia fisica che informatica (i dati aziendali) e negli articoli successivi il tema della forma dell’accordo, del diritto di recesso, del trattamento economico, dell’assicurazione obbligatoria e di altri diritti che potrebbero essere riconosciuti al lavoratore.

Ci pare dunque un quadro molto chiaro e comprensivo, che non necessita ulteriori norme di legge. Occorre anzi evitare gli eccessi di una giuridificazione dello strumento, come ha segnalato Pietro Ichino: ovvero di un’eccessiva ingessatura burocratica, che sarebbe contraria allo spirito dello strumento, per sua natura flessibile e figlio di accordi volontari e di una grande autonomia.

Il volume contiene la descrizione di alcune buone pratiche: quali, tra quelle analizzate, ritiene più significative?
Difficile individuarne qualcuno più meritevole di altre: sono tutte aziende che tendenzialmente già prima della pandemia si erano preoccupate di intervenire sull’organizzazione del lavoro, spesso nell’ambito di una più generale attenzione al “benessere organizzativo”. Gli undici casi che abbiamo voluto proporre al lettore sono esemplificazioni di una trasformazione che è innanzitutto culturale: prova ne è che l’organizzazione del lavoro non è l’unico intervento rilevante, ma spesso si affianca ad esempio allo sviluppo di piani di welfare aziendale solidi, oppure anche a pratiche partecipative. Siamo insomma di fronte a casi di interesse a 360 gradi, che speriamo possano fare da apripista per una più ampia “rivoluzione” organizzativa. Ce n’è bisogno.

Luca Pesenti è professore associato di Sociologia all’Università Cattolica di Milano, dove insegna Organizzazione e Capitale Umano. Nello stesso Ateneo è direttore scientifico dell’Executive Master Terzo settore e Impresa Sociale (EMTeSIS) di ALTIS e membro del Centro di Ricerca WWELL (Welfare Work Enterprise Life Long Learning). Svolge attività di ricerca e consulenza per organizzazioni nonprofit, azien­de e pubbliche amministrazioni. Tra le più recenti pubblicazioni: Protagonisti della rappresentanza (con I. Pais – G. Rovati, 2018), Il Welfare in azienda (Vita e Pensiero, II edizione 2019), Welfare Aziendale: e adesso? (con G. Scansani, Vita e Pensiero, 2020).

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