
L’intento fondamentale di conoscere «le scuole degli altri» implica un procedimento di tipo culturale e perfino interculturale, il quale richiede una buona dose di sensibilità etnografica. In quanto atto di conoscenza dell’«altro» sul versante educativo, l’educazione comparata serve in ogni caso per meglio conoscere «sé stessi». Vale a dire, l’atto di riflettere sulle modalità culturali che sorreggono «altre» pratiche pedagogiche implica la riflessione e la consapevolezza rispetto alle proprie modalità culturali.
Senza esprimere giudizi di valore, la comparazione ci invita fortemente a mettere in dubbio le proprie certezze e a interrogarci su un terreno prettamente culturale circa le ragioni profonde di certe pratiche sociali, sorrette con ogni probabilità da filosofie politiche all’insegna del collettivismo o dell’individualismo, per esempio, del liberalismo, del comunitarismo, o altre correnti ancora, dalla storia dei sindacati e dei partiti politici.
Confrontandosi con pedagogie diverse, gli insegnanti italiani sono chiamati a riflettere profondamente sul significato pedagogico e culturale delle proprie pratiche: insegnamento diretto vs insegnamento differenziato, personalizzato o adattato, raggruppamento di studenti in forme omogenee o eterogenee, focus su apprendimento vs insegnamento, modalità di motivazione e sanzione a scuola ecc.
Quale importanza rivestono le ricerche relative al «prestito in educazione», ai modelli culturali globali della world polity e alla trasformazione della world culture?
Il contesto sociale e culturale più ampio spiega gli aspetti educativi studiati attraverso comparazioni e studi di caso. Il modo in cui il contesto viene elaborato negli studi più recenti varia con gli approcci adottati. Per esempio nella teoria del sistema mondo (world-system o world culture) il contesto è visto come esito di forze omologanti e pertanto i sistemi scolastici sono descritti come risultati di un modus operandi analogo (Ramirez, 2006). Nelle teorie che invece si rifanno all’autorità politica influenzata da una macroidea (nazionalismo, socialismo, ecc.), gli assetti dei sistemi scolastici riflettono i cambiamenti legati al funzionamento dello Stato e alla sua filosofia politica di riferimento. Altre teorie si focalizzano sulle relazioni che intercorrono tra sistemi scolastici e quei fattori contestuali che li influenzano maggiormente (fattori ambientali, tradizioni culturali, consuetudini educative, ecc.) non necessariamente collegabili all’autorità dello Stato.
Le teorie che prevalgono in questo ambito sono perlopiù di natura sociologica, antropologica e storica, come, ad esempio, quelle della modernità (presentata in questo caso nella sua versione di «modernità molteplice»), della world culture o della dipendenza dal percorso storico di una determinata istituzione o configurazione sistemica. Mentre la world culture mette in luce la convergenza di fattori culturali globali, le teorie antropologiche o socio-storiche sottolineano soprattutto la rilevanza dei fattori locali e la loro capacità di rendere «indigeni» i trend globali. Una delle teorie più caratterizzanti la comparazione educativa è quella del «prestito in educazione», che teorizza in modo critico la possibilità di replicare in modo veloce le buone pratiche o le soluzioni presenti altrove, senza riflettere sull’opportunità o sui fattori culturali sottostanti. Su questo tema il lettore troverà in più parti del libro riferimenti e chiarimenti importanti.
Quale contributo offre l’analisi degli altri sistemi scolastici in relazione ai temi dell’autonomia del docente e dell’autonomia della scuola?
La comparazione di sistemi scolastici e di politiche educative serve per mettere in contesto l’autonomia docente e quella della scuola, i modi di funzionamento, i presupposti pedagogici e gli effetti raggiunti. Non si tratta di offrire un’immagine dall’alto, ma di focalizzarsi su una essenzialmente dal basso, che riflette in che modo il lavoro docente si configura quando l’autonomia è bilanciata da collaborazione collegiale e da compiti professionali che ampliano la professione docente e delineano una scuola-organizzazione-comunità più completa e funzionante.
Ogni innovazione avviene in un determinato contesto storico e culturale; ma spesso l’innovazione trae ispirazione da altre realtà e le soluzioni vanno adeguatamente adattate alla propria realtà.
L’autonomia delle scuole implica una più chiara condivisione di regole comuni e un’autonomia docente temperata da politiche d’istituto, in grado di garantire coerenza ed equità del servizio offerto.
In effetti, la condivisione di regole operative comuni – «come gestiamo il comportamento degli alunni in questa scuola?», per esempio – può rappresentare un chiaro ed efficace strumento per gli insegnanti, così da disporre di un sistema coerente di azioni, anziché operare in un clima frammentato e su base ad hoc. Anche gli studenti e le loro famiglie sarebbero particolarmente aiutati dalla presenza di una chiara infrastruttura di indicazioni operative sul modello delle policies vive, dei modus operandi, e non solo di un’offerta formativa (PTOF) intesa perlopiù in modalità contenutistica/curricolare. In ambito comportamentale, per restare a questo esempio, il caso italiano si presenta alquanto frammentato perché può accadere che in alcuni istituti secondari ci siano disposizioni diverse da quelle previste in altri istituti, senza che le une e le altre siano inquadrate in una cornice d’insieme, anche a livello nazionale, ben chiara e comunicata. Mancano in effetti le policies nazionali su aspetti pedagogici, che possano veicolare nuove conoscenze e servire l’aggiornamento didattico dei nostri docenti. In altre parole, c’è bisogno di documenti o “libri” (bianco o verde) divulgativo ma redatto da esperti, che suggeriscano, per esempio, come si debba valutare in modalità formativa.
In che modo le leadership d’istituto possono incidere sulla necessaria coerenza delle pratiche didattiche?
È emblematico che in organizzazioni frammentate e poco coese, perfino gli insegnanti efficaci non siano in grado di esplicitare ai loro colleghi, ai genitori e a sé stessi per quale motivo nelle loro ore di lezione gli studenti apprendono con più facilità o un comportamento più lineare.
Con le parole di una docente di matematica, comunicate ai geni- tori in una situazione di gravi problemi comportamentali in una seconda superiore: «Non saprei dire per quale motivo gli studenti si comportano bene nelle mie ore e quindi non potrei fornire alcun suggerimento ai miei colleghi». In casi simili, la riposta tipica dei singoli docenti è quella di invitare i genitori a gestire «da casa» una dimensione che però attiene specificatamente al contesto scolastico.
Le funzioni strumentali d’istituto rappresentano in teoria una possibilità per coagulare attorno al dirigente un gruppo esperto di insegnanti per attuare una reale «politica d’istituto» e offrire supporto ai colleghi.
Tale dispositivo sconta però dei limiti nel modo in cui tali funzioni possono essere variamente definite in ciascuna scuola, nell’instabilità del personale e nell’assenza di incentivi o possibilità di riconoscimento per la carriera. In pratica, l’assenza di una vera e propria carriera dei docenti, la difficoltà a formarli adeguatamente (si pensi all’instabile panorama della formazione iniziale per i docenti delle secondarie degli ultimi vent’anni) e di valutarli (eventualmente selezionarli con criteri anche di adeguatezza pedagogica per il mestiere) sono dei fattori che indeboliscono il funzionamento della scuola come organizzazione in grado di autovalutarsi e di migliorare.
Nei sistemi perlopiù accentrati, come quelli francese e italiano, la coesione organizzativa è difficilmente garantita. Spetta agli organi collegiali la decisione del curricolo d’istituto e le linee di azione comuni (le politiche d’istituto). Spesso però il collegio non concorda modi trasversali di agire al fine di preservare la più ampia autonomia didattica del singolo docente, con la manifestazione di una miriade di soluzioni didattiche. La leadership d’istituto può soltanto svolgere un ruolo perlopiù persuasivo o di orientamento e quindi risulta piuttosto debole rispetto all’autonomia del docente.
Nei sistemi accentrati e a livello di scuola secondaria, pratiche di coerenza rispetto alla valutazione e alla gestione del comportamento sarebbero auspicabili, perché si tratta di due sfere oltremodo rilevanti sia per caratterizzare il clima di apprendimento, sia per il successo scolastico.
Nell’attuale assetto istituzionale, la leadership italiana può soltanto far leva sulla possibilità di rafforzare la formazione continua dei docenti, al fine di traghettarli verso una logica maggiormente collaborativa e di congruenza su politiche comuni che risultano per il miglioramento della scuola italiana: come valutare per sostenere l’apprendimento, come gestire il comportamento, come mettere al centro l’apprendimento, la motivazione e l’interesse e la valutazione sommativa.
Monica E. Mincu insegna Educazione comparata e Storia dei sistemi scolastici europei presso l’Università di Torino