“Siria. Il perché di una guerra” di Domitilla Savignoni e Matteo Bressan

Dott.ssa Domitilla Savignoni, Lei è autrice, insieme a Matteo Bressan, del libro Siria. Il perché di una guerra edito da Salerno: quali sono le radici profonde di questa guerra?
Siria. Il perché di una guerra, Domitilla Savignoni, Matteo BressanA lungo la Siria è stata terreno di scontro tra le grandi religioni monoteiste e ha visto consumarsi sul proprio suolo conflitti settari spesso alimentati da “signori della guerra”. La costruzione del Medio Oriente scaturito dagli accordi di Sykes-Pikot, con i curdi senza stato e divisi tra Siria, Turchia, Iraq e Iran e gli arabi amareggiati per l’imposizione di mini-stati, è ancora oggi considerata come la causa del conflitto arabo-israeliano, della guerra civile libanese ma anche della cronica instabilità dell’Iraq e della Siria.

Ci sono motivazioni anche socio-economiche. Pochi conoscevano le complessità sia politiche che sociali della società siriana prima delle rivolte del 2011. La disuguaglianza era cresciuta a tal punto che circa il 50% della ricchezza del paese era concentrato nelle mani del 5% della popolazione. Tasso elevato di disoccupazione e bassi salari, corruzione dilagante e clientelismo determinavano le fortune o sfortune delle giovani generazioni e l’impoverimento della classe media. Inoltre nel 2011 il regime di Assad stava perdendo il consenso di quei contadini che erano stati una delle chiavi di successo del padre Hafez durante gli anni di redistribuzione della terra. Il fallimento del regime nel campo economico, politico e nazionale ha determinato le condizioni per la rivolta. Le proteste divampate a ogni angolo del paese non avevano precedenti e hanno preso di sorpresa lo stesso Assad che ha reagito sia con la forza (repressione e arresti) sia con alcune concessioni come l’abrogazione della legge di emergenza. Ma con il passare dei mesi la rivolta armata anti-Assad ha iniziato a caratterizzarsi su base confessionale. Il giovane presidente ha dilapidato l’eredità paterna. Assad padre per tutta la durata del suo regime (1970-2000) era riuscito a cooptare nella gestione del potere influenti settori della borghesia sunnita, sia delle città sia delle zone rurali, andando oltre la fedeltà familiare, clanica e alawita di cui era espressione. Bashar ha invece conferito le più importanti cariche pubbliche, e rilevanti settori dell’economia, a personale quasi esclusivamente alawita. Queste scelte hanno determinato il risentimento dei sunniti nei confronti della comunità alawita, considerata schierata al fianco del regime. Inoltre le Shabiha, bande di irregolari al servizio del regime e in determinati casi fuori dallo stesso controllo del regime, hanno fomentato le tensioni settarie. Il regime si è servito delle Shabiha per attribuire le violenze ai gruppi armati stranieri operanti in Siria. In questo modo vari gruppi di resistenza armata hanno assunto tratti fondamentalisti, trasformando il risentimento in odio confessionale e dando sempre meno spazio alle voci degli attivisti e dissidenti non violenti. Proprio questi ultimi sono stati, anche a causa della loro frammentazione, le prime vittime dei successi militari dei gruppi di ribelli che avevano trasformato la protesta del 2011 in un jihad anti-Assad. A causa del timore di rafforzare la componente jihadista dell’opposizione anti-Assad, diversi paesi occidentali e in particolare gli Stati Uniti hanno preferito mantenere un atteggiamento prudente nel rifornire di armamenti i gruppi dell’opposizione. Il non intervento e il mancato appoggio alle componenti più laiche e moderate non ha però evitato che i jihadisti prendessero piede, andandosi progressivamente a rafforzare. La militarizzazione della protesta trasformava la rivoluzione da un movimento senza leader organizzato orizzontalmente a una serie di gruppi armati e gerarchizzati. L’indisciplina, l’opportunismo e la criminalità con la quale la rivolta è stata contaminata, prima ancora dell’emersione del jihadismo, hanno offerto al regime la giustificazione dell’escalation di violenza e hanno a poco a poco convinto sia coloro che erano in patria che all’estero che la sopravvivenza del regime fosse il male minore per la Siria e per l’intera regione.

Lo scenario siriano appare frammentato in decine di fazioni: i miliziani ribelli, le forze militari di Assad, i fronti islamici più radicali, i curdi e l’autoproclamato stato islamico. Come mai?
L’evoluzione del conflitto siriano, così come l’insorgenza jihadista, si sono sviluppate in fasi differenti. I primi mesi delle proteste, dal 2011 fino a metà del 2012, sono stati caratterizzati dalla repressione del regime nei riguardi delle opposizioni trasformando la rivoluzione siriana in un conflitto sanguinoso. All’interno di questo contesto i gruppi jihadisti hanno trovato un ambiente ideale per legittimare la loro lotta in difesa di civili sunniti, vittime della repressione del regime. Con l’estensione a tutto il territorio siriano del conflitto, la seconda fase è stata caratterizzata da una serie di vittorie dei gruppi ribelli che si sono susseguite fino alla metà del 2013. Le affermazioni e la composizione delle milizie sul campo di battaglia erano però differenti da territorio a territorio. Mentre nella Siria meridionale andavano emergendo le fazioni moderate del Free Syrian Army con legami con Giordania e Arabia Saudita, il nord della Siria si stava trasformando in un ambiente favorevole all’affermazione di gruppi islamisti e jihadisti. La forza dei gruppi jihadisti è aumentata nel 2013 e nel 2014, anni in cui si sono affermate al-Nusra e l’Isis. Con la rottura all’interno della galassia jihadista tra al-Nusra e l’Isis, quest’ultima sigla ha iniziato a scontrarsi con tutti i gruppi. Le conquiste dell’Isis in Siria sono spesso avvenute a discapito dei gruppi ribelli autoctoni che, prima di essere travolti, avevano combattuto per rovesciare il regime di Damasco. La Siria, inoltre, è divenuta progressivamente il campo di battaglia delle potenze regionali dell’area, in particolar modo di Arabia Saudita, Turchia, Qatar da una parte e Iran e Hezbollah dall’altra. La guerra si è connotata di ragioni estranee al confronto tra le forze del regime e le opposizioni locali. La conseguente incapacità da parte dei vari attori regionali nel sostenere le forze di opposizione, attraverso un coordinamento unificato, ha determinato la proliferazione di gruppi ribelli e allo stesso tempo la loro incapacità di rappresentare una concreta minaccia per Assad.

Qual è il bilancio umano e politico della guerra in Siria?
Il bilancio umano è drammatico: dall’inizio della rivolta, nei primi mesi del 2011, si calcola che siano morte piú di 500mila persone e che 1,9 milioni di siriani siano rimasti feriti; piú di 6 milioni sono i cittadini sfollati all’interno della Siria mentre circa 5 milioni sono i profughi fuggiti principalmente in Libano, Turchia, Giordania e Iraq. Più del 50% della popolazione nei momenti più critici aveva abbandonato il paese. L’uso delle armi chimiche contro i civili ha segnato il valicamento di qualsiasi linea rossa. E i responsabili al momento sono impuniti. A distanza di sette anni dall’inizio del conflitto, la Siria è un paese dilaniato in cui ancora alcune zone del territorio sono controllate da una moltitudine di milizie contrapposte, jihadiste e non, con differenti obiettivi. Per tracciare un bilancio politico è ancora presto. Possiamo dire una cosa con certezza: non si parla più della rimozione di Assad dal potere. Questo per due motivi: parte della popolazione preferisce il ritorno dello Stato e dell’esercito rispetto al caos e all’anarchia; inoltre, per tutte le potenze regionali e non impegnate nel conflitto, un regime, per quanto iniquo, è meglio del disordine. Ogni soluzione politica che escluda al momento Assad appare dunque difficile. Il presidente ha consolidato la sua posizione all’interno della Siria e si è inserito nuovamente nel gioco diplomatico come interlocutore legittimo.

Quale futuro a Suo avviso per la Siria?
Per quanto riguarda il futuro della Siria, per alcuni il federalismo appare come l’unico scenario realistico per impedire la divisione della Siria in più entità controllate da gruppi armati con ideologie contrastanti. Le frontiere già tracciate con le zone di de-escalation, potrebbero essere quelle della nuova federazione siriana. D’altra parte, alcuni credono che l’idea del federalismo in una situazione come quella della Siria, o della Libia, sia completamente diversa dalla sua applicazione in uno stato sviluppato come gli Stati Uniti o il Canada. Per una semplice ragione: se si creasse un sistema federale in Siria, sarebbe attuato su linee religiose ed etniche, non sulla base dei valori che dovrebbero sostenere un tale sistema, vale a dire piena cittadinanza e libertà, oltre che mobilità geografica e sociale. Coloro che respingono il federalismo in Siria vedono la Libia come un chiaro esempio di come un tale sistema possa fallire, dando origine a governi multipli, rivali, sostenuti da potenze straniere che prendono decisioni contrastanti.

La Siria sta pagando dal 2011 anche il prezzo della crescente contrapposizione nella regione tra monarchie del Golfo e Iran, non destinata a diminuire d’intensità e che potrebbe trasformarsi, una volta sconfitto l’Isis, in un nuovo campo di battaglia. I due fronti contrapposti vedrebbero da una parte la nuova amministrazione americana di Donald Trump con al fianco Israele e l’Arabia Saudita e, dall’altra, l’Iran e la Russia. La Turchia anche sta facendo i suoi giochi, sistemando i conti con i curdi che si sentono traditi da usa e Russia. La Siria continuerà a rappresentare il centro del mondo per la militanza jihadista per molti anni ancora, con conseguenze che non ricadranno solamente sulla popolazione siriana ma sulla stabilità e la sicurezza dell’intero medio oriente.

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