“Sinistre. Un secolo di divisioni” di Paolo Pombeni

Prof. Paolo Pombeni, Lei è autore del libro Sinistre. Un secolo di divisioni edito dal Mulino: a un secolo dalla scissione di Livorno, quale bilancio storiografico si può trarre delle vicende della sinistra italiana?
Sinistre. Un secolo di divisioni, Paolo PombeniNaturalmente è cambiato tutto rispetto ad allora nel panorama delle ideologie politiche e del loro contesto. A Livorno 1921 tutto è avvenuto nel quadro di un dopoguerra traumatico, di una attesa di un nuovo mondo che molti vedevano avanzare sulle ali della rivoluzione dei bolscevichi. Quel contesto non solo si è dimostrato fallace, ma la storia seguente ha costretto le sinistre a declinare in maniera diversa quelli che erano stati i termini dello scontro a Livorno: non si trattava più di decidere se la storia andasse forzata con le spallate rivoluzionarie o assecondata con gradualismo nella sua trasformazione naturale verso il socialismo perché nessuna delle due opzioni si era mostrata praticabile. Progressivamente tutte le varie espressioni della sinistra, tranne frange marginali, hanno convenuto che nessuna rivoluzione provoca la palingenesi, ma hanno continuato a dividersi sulla questione se la storia marci verso il fine teleologico di una qualche forma di socialismo o se la storia non marci per niente, perché ogni epoca produce quel che deriva dai confronti che si svolgono nel suo ambito e dalla creatività delle forze che vi partecipano. Quelli che rimangono ancorati alla visione del sole dell’avvenire si rifugiano nelle utopie, gli altri sono per un riformismo consapevole degli sforzi e dei limiti con cui si deve sempre fare i conti.

Cosa ha significato per la sinistra di classe l’incontro con la sinistra cattolica?
Il principale significato di questo incontro, che avviene prima durante la Resistenza e poi in maniera più compiuta alla Costituente, è stato il superamento di quella percezione ingenua per cui il valore dell’ingresso dei cattolici in politica consisteva solo nella loro capacità di integrare le masse contadine. Dossetti, La Pira, Moro, tanto per citare qualche nome, non erano agitatori contadini, non erano Miglioli, erano il frutto della capacità del mondo cattolico di formare classe dirigente. I vertici del PCI soprattutto si resero conto di questa novità che per loro era ambigua: da un lato si illudevano che questa classe dirigente volendo costruire “un mondo migliore” non potesse che finire di essere “compagno di strada” del comunismo, dall’altro si irritavano scoprendo che quelli volevano essere classe dirigente per conto loro avendo una propria legittimazione popolare e un proprio modo di leggere l’evoluzione della società italiana e della storia. Tuttavia negli uni e negli altri il confronto sulla costruzione di quella “Italia diversa” rispetto al passato dello stato liberale naufragato nel fascismo, fu per molti aspetti generatore di progresso, perché, se vogliamo dirlo con una battuta, entrambi si resero conto che i rispettivi schematismi servivano a poco.

La sfida di Craxi ha rappresentato un episodio di un più lungo duello tra le diverse anime della sinistra: cosa ha significato per la sinistra italiana lo scontro tra riformismo craxiano e massimalismo comunista?
Si è trattato di uno scontro feroce e malaugurato su come si potesse arrivare in Italia ad una diversa direzione del sistema politico italiano. Il PCI si era convinto, un poco per la politica di solidarietà nazionale, un poco per il sostegno che otteneva da parte di molti ambienti del sistema di potere “laico”, di essere ormai arrivato alla sua inclusione nel quadro di governo (inteso in senso ampio). Craxi ritenne che quel ruolo potesse essere del PSI che poteva rappresentare meglio le forze emergenti del ricambio sociale nelle classi dirigenti, intuendo che il monopolio della loro formazione stava per uscire dall’ambito degli steccati storici delle ideologie. Il tema centrale tornava ad essere, come al tempo del centro-sinistra, la “modernizzazione” e come allora si tornò al dilemma: a questo fine si doveva agire ribadendo che era necessario un cambio di paradigma (massimalismo neocomunista) oppure presentandosi come coloro che erano consapevoli di come cambiare il sistema facendo perno sulle sue interne capacità evolutive (riformismo socialista)? Questo scontro ha purtroppo distrutto la forza d’urto della sinistra, perché il PCI ha rovesciato sul PSI il peso di un percorso che aveva anche compromessi e politicismi finendo per annientarlo, mentre costringeva la sinistra ad isterilirsi nella riproposizione di una qualche forma di cambiamento radicale che non era possibile.

Lei sostiene che la sinistra abbia ormai indirizzato il proprio percorso identitario verso l’arroccamento su posizioni moralistiche: quali i limiti di tale strategia politica?
Il moralismo è un virus contro cui la sinistra dovrebbe sempre immunizzarsi. Spinge a credere che il problema dell’instaurazione di un mondo più giusto dipenda dalla “purificazione” degli uomini. È l’eterno mito del ritorno ad un ipotetico stato di natura, a cui non fu insensibile lo stesso Marx: una sorta di nuovo paradiso terrestre in cui sia bandita la “corruzione” dell’animo umano. Ovviamente quelli che si sono arroccati sul moralismo rifiutano questa interpretazione e sono magari sinceramente convinti (anche se non mancano quelli poco sinceri) che una volta che si fosse estirpato il “peccato” (corruzione, avidità, interesse personale, ecc.) la società risanata sarebbe immediatamente realizzata. Il limite di questa impostazione è duplice. Da un lato pensa che sia possibile cambiare non tanto la natura umana in sé, ma la sua interazione con l’ambiente e con le pulsioni che vengono da questo, il che non è realizzabile. Dall’altro affidano il compito fondamentale di realizzare questa attività di “pulizia” ai tribunali, che sarebbero il luogo dove non tanto si applicano le leggi per gestire la convivenza, ma si decide dove sta il bene e dove sta il male (spesso col presupposto che, essendo di suo la natura umana corrotta, se si scava a fondo il peccato si trova sempre). Con queste premesse in politica non si costruisce nulla, ma si innesca semplicemente una catena infinita e alla fine circolare di epurazioni che in ultimo lasciano tutto com’é.

Quale futuro per la sinistra?
La sinistra deve battere l’utopismo che al momento è il vero oppio degli intellettuali. Deve tornare alle sue radici che sono duplici. Da un lato c’è la grande lezione che le lascia il motto della rivoluzione francese che è l’inizio della politica moderna: libertà, eguaglianza, solidarismo. La sinistra deve saper tenere insieme i tre aspetti specialmente in questo momento quando tutti e tre sono messi in discussione. Deve farlo senza stupidi radicalismi, ma puntando sempre alla realizzabilità di quanto progetta e propone. E qui veniamo all’altro lato: la sinistra deve ritrovare la sua “simpatia” per l’essere umano concreto, che è la lezione che essa deriva dalla rivoluzione culturale cristiana, poi secolarizzata. La sinistra deve sapere mettersi nei panni delle persone reali, condividerne le fatiche, rifiutarsi di mettere sulle loro spalle pesi che essa stessa non saprebbe sopportare, apprezzare la possibilità di fornire occasioni di felicità. Tutto ciò prendendo coscienza e aiutando a prendere coscienza che viviamo in un’epoca di grande transizione storica per cui tutto è a rischio ma potremo passare in un mondo che, impegnandoci, continuerà ad essere “vivibile” per tutti solo se saremo costruttori di futuro.

Paolo Pombeni è professore emerito presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna. Tra le sue pubblicazioni: Giuseppe Dossetti (2013), La questione costituzionale in Italia (2016), Che cosa resta del Sessantotto (2018), La buona politica (2019), tutti editi dal Mulino.

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