
Il secondo sesso, nonostante qualche farraginosità, ha ancora molto da dire a noi donne, a quelle più mature ma anche alle giovani e giovanissime. Perché se è vero che il pregiudizio di un destino biologico e la distinzione di sesso e genere sono ormai acquisiti, molto ci sarebbe ancora da riflettere sulla malafede e sulle “condotte di fuga” così lucidamente analizzate da Beauvoir. Di non minore importanza e attualità è l’altro suo grande saggio, quello sulla vecchiaia. Ancora una volta Beauvoir infrange un tabù, dà voce e restituisce dignità di soggetto a un’ampia fascia di emarginazione sociale, riporta la vecchiaia all’interno della condizione umana. E la storicizza nel quadro di un sistema – quello capitalistico – che, basato sul profitto, si interessa al materiale umano nella misura in cui è redditizio. Per poi scartarlo.
Quale particolarissimo rapporto la legò a Jean-Paul Sartre?
Quella di Sartre e Simone de Beauvoir è uno delle più celebri coppie della cultura novecentesca. Quando si incontrarono, lui aveva ventidue anni, lei due di meno e preparavano gli esami finali dell’Università, entrambi in filosofia. Pagine di un diario di Beauvoir, pubblicato postumo col titolo Cahier de jeunesse 1926-1930, raccontano i primi incontri, l’ansia iniziale per una discreta fama di cui già godeva Sartre in quel tipo di ambiente studentesco, la preparazione degli esami insieme, l’entusiasmo crescente. “È allora che tutto è cominciato”, annota alla data dell’8 luglio 1927, e quell’allora indica il giorno in cui un compagno di facoltà l’aveva accompagnata nella stanza di Sartre alla Cité universitarie per un’intensa seduta di studio. A partire da quel momento, non passa giorno senza che Sartre e Beauvoir si vedano e che lei ne scriva, in un crescendo di intesa, di ammirazione per la sua forza intellettuale, di piacere di abbandonarsi a lui, al suo “modo di essere autoritario, di adottarmi, e di essere di una così severa indulgenza”, di constatazione della straordinaria influenza che lui esercita su di lei. Finché, un paio di anni dopo, Sartre propone di sancire le loro “nozze morganatiche” con un patto di vita comune per due anni a cui avrebbe fatto seguito una separazione di qualche anno, e così via, con l’impegno di “mai diventare estranei l’uno all’altro” e di impedire che “nulla prendesse il sopravvento su questo sodalizio”. Perché, detta col suo linguaggio, il loro amore era “necessario”, gli altri sarebbero stati “contingenti”.
Naturalmente le cose si rivelarono più complicate. Ma, nonostante i molti imprevisti, su questi due punti Sartre e Simone non avrebbero mai cambiato parere: difendere il loro sodalizio e mai rinunciare a “dirsi tutto”. Su questo si è costruita l’immagine (anche sapientemente coltivata dal racconto autobiografico di lei, in continuo aggiornamento) di una coppia granitica, fondata su un rapporto libero, sulla condivisione e la reciprocità, che niente poteva davvero rimettere in discussione e che avrebbe rappresentato un modello alternativo per più di una generazione. Ed è indubbio che sia stato un grande sodalizio, confermando quell’impressione iniziale annotata da lei nel diario di aver trovato “il fratello, l’eguale”, con cui condividere il progetto di una vita dedicata alla scrittura e alla conoscenza del mondo. Pur mantenendo ognuno la propria specificità di ricerca e di scrittura, l’opera di entrambi avrà sempre passato il vaglio della lettura e della discussione con l’altro. Tutta l’opera di Beauvoir è ancorata su alcuni capisaldi della filosofia esistenzialista, a cominciare dal Secondo sesso il cui radicalismo ha come fondamento la negazione dell’idea di una natura, di una qualche essenza, del femminile. Ma senza subordinazione alcuna.
In che modo la scrittura privata di Beauvoir esprime le ambiguità e le contraddizioni di cui si nutriva il rapporto amoroso con Sartre?
Avviata dalla stessa Beauvoir dopo la morte di Sartre (1980), la pubblicazione postuma di scritti privati testimonia – tra l’altro – della complessità della relazione di coppia. Fin dal già menzionato diario giovanile, che registra la determinazione, immediata, di abbandonarsi a lui “con una fiducia assoluta” – nonostante che lui si dichiari incapace di un amore costante come di vera adesione alla vita perché tutto proiettato verso la scrittura – lo slancio a “far tutt’uno” con lui, e “per sempre”. Ma che offre anche lo spazio a interrogativi, ansie, angosce: come conciliare la reciprocità con il desiderio di possesso? come rimanere se stessi desiderando di far tutt’uno con l’altro? come perdersi nel rapporto amoroso senza perdere tutto? Come stare “abbarbicata” alla felicità – e lui glielo rimprovera, facendola piangere – e insieme essere attratta dalla vita “contingente”, dal richiamo dell’ignoto, dell’avventura, di altri amori possibili, sentendosi soffocare dall’”annessione”, resa accettabile solo dal suo carattere provvisorio?
Più reticente è invece la Corrispondenza Sartre-Beauvoir relativamente alla prima grande crisi del rapporto quando lei si trova a fare i conti con la presenza di un’altra, Olga, una sua studentessa con cui aveva stretto un legame forte e complesso, fatto di reciproca fascinazione, grande tenerezza e attrazione fisica; e che, fedele al patto di trasparenza e condivisione, lei ha fatto conoscere a Sartre. Ne nasce una grande passione e la coppia si trasforma ben presto in un “trio”. Che, iniziato nell’allegria, diventa ben presto una “macchina dolcemente infernale”, come Simone scriverà raccontando la storia nelle sue Memorie. Nelle Lettere l’argomento Olga è trattato con la massima discrezione, per effettivo riguardo nei confronti di lei e per evitare ulteriori, prevedibili, crisi; e non abbiamo diari per quegli anni. Quello che gli scritti privati rivelano invece sono gli sviluppi di questa storia, e come l’allargamento della coppia non si fermi al trio ma arrivi a formare una costellazione. La burrascosa relazione con Sartre infatti prende fine quando Olga diventa la compagna di un giovane ventenne già allievo di Sartre al liceo, Jacques-Laurent Bost. Ma nel frattempo Sartre si è innamorato della sorella minore di Olga, Wanda, senza per questo rinunciare a storie più o meno passionali con altre ex allieve di Simone, la quale, anche lei, intrattiene rapporti più o meno saffici con alcune di loro. Finché, stremata dalla tensione e dalla fatica, somatizza tutto nei suoi polmoni e nella primavera del 1937 finisce in ospedale salvandosi per un pelo dal sanatorio. Poi, a partire dall’anno seguente e per quasi una decina di anni, Bost diventa il suo amante. Clandestino (ma non per Sartre), per rispetto di Olga.
Solo la pubblicazione postuma della Corrispondenza incrociata ha dato la misura di questa storia d’amore, un amore appassionato, un “perfetto accordo di mente, cuore e corpo” che la prende tutta, si installa in lei in un’esplosione di felicità, in un irrefrenabile desiderio di vederlo, toccarlo, stringersi a lui, farlo partecipe di tutto. Che sia un amore contingente non si direbbe proprio. E lei non esita a utilizzare l’aggettivo “necessario”; meno filosoficamente connotato che nel patto con Sartre, ma non meno vero, di quella verità immediata del linguaggio amoroso. Finché la lontananza e possibili fraintendimenti non la inducono alla dichiarazione un po’ imbarazzata che solo con lui lei ha conosciuto “la vita dei sensi” e che i rapporti fisici con Sartre sono, oltre che “molto rari”, improntati soprattutto a tenerezza. E tuttavia, quando Sartre è richiamato in Alsazia, agli inizia della guerra, insieme all’angoscia per l’abbandono emerge nelle lettere anche la gelosia: sotto forma di difficoltà ad accettare l’esclusione, a dividere con altre due donne, in un dosaggio calcolato, i pochi giorni di licenza.
Una seconda crisi, ben più grave, si verifica qualche anno dopo, Dolores Vanetti, nell’immediato dopoguerra, quando Sartre al ritorno da un viaggio in America le spiega l’importanza che ha assunto la sua relazione con una donna conosciuta nel corso del viaggio precedente. Questa volta anche lui è consapevole che non si tratta di uno dei tanti “amori contingenti”, e per la prima volta Simone ha posto la “domanda pericolosa”: a chi tenete di più, a lei o a me?, ricevendo una risposta inquietante, una risposta che “rimetteva in discussione tutto l’avvenire”. Questo il racconto nel volume di memorie La forza delle cose.
Quale paradosso incarnò l’autrice del Deuxième sexe?
Il paradosso che mi aveva sempre colpita – e certamente non solo me – era che l’analisi della condizione femminile contenuta nel Deuxième sexe – e più in generale, nell’intera opera di Beauvoir – fosse nata da una donna che di questa condizione dichiarava di non aver mai sofferto e, per di più, realizzata in un momento in cui era felicemente innamorata. Ancora una volta, sono gli scritti intimi e pubblicati postumi – i Diari come la Corrispondnza con Nelson Algren – che mettono questa creazione in una luce diversa. È nel contesto di quel profondo smarrimento a cui ho fatto riferimento sopra creato dal rapporto di Sartre con Dolores (“per la prima volta ebbi paura”) che si collocano l’idea di scrivere la storia della propria formazione e della nascita della vocazione alla scrittura, e insieme l’interrogativo – fino a quel momento eluso e ancora una volta sollecitato da Sartre – su che cosa significasse essere donna: “Guardai ed ebbi una rivelazione”. Il racconto della propria storia personale viene quindi posticipato a uno studio sulla condizione della donna, a cominciare dai miti della femminilità. Diari e lettere offrono ancora una volta la conferma di un appassionante intreccio fra vissuto esistenziale, elaborazione teorica, racconto autobiografico; la conferma, anche, di come l’autobiografia, lungi dal garantire una maggiore verità, sia ancora un’altra costruzione di sé e proponga un modello di vita in armonia con i valori del Secondo sesso.
E se è vero che nell’accingersi al lavoro, Simone era felicemente innamorata – di nuovo innamorata – le cose non andavano poi così lisce. Anche lei negli USA, dove si era recata con un nutrito programma di conferenze nel gennaio del 1947, aveva fatto un incontro importante: lo scrittore Nelson Algren, l’autore del romanzo di successo L’uomo dal braccio d’oro. Più o meno comunista e proletario, viveva a Chicago in un sordido quartiere fra drogati, ladri e prostitute, serate di poker e solitudine. Le lettere ad Algren non solo permettono di seguire la gestazione del Secondo sesso, ma illuminano di una nuova luce questa gestazione, collocandola in pieno nella stupefacente rivelazione della “follia” dell’amore. Un amore mai conosciuto prima – scrive lei – che unisce il senso di completezza con il desiderio del “per sempre” e del “far tutt’uno” e con una fantasia di vita coniugale. Ma lei sa anche che il dono di sé si scontra con un limite invalicabile rappresentato dalla determinazione a difendere le proprie scelte fondanti: la scrittura, con cui ha identificato la sua vita e la sua libertà; e il sodalizio con Sartre, che garantisce quella scelta. E lo dice fin da subito, con la lucidità e il coraggio che la contraddistinguono, sull’aereo che la riporta a Parigi dopo il primo incontro. Poi di nuovo glielo spiega con amore e con fermezza dopo che lui, al termine di due mesi trascorsi insieme, le ha proposto di sposarlo. Lei sa che prima o poi lo perderà. Ma sa anche che il prezzo pagato alla “felicità” comporterebbe un tale sacrificio della propria identità che la felicità stessa sarebbe illusoria.
Ecco smontato il paradosso. Anche a Simone – che dice, e ripeterà, di essere stata personalmente immune dagli svantaggi della condizione femminile – tocca sperimentare gli ostacoli che le donne, quand’anche emancipate, incontrano nel conciliare vita affettiva e libertà; e la necessità di resistere al desiderio, non solo a quello maschile ma anche al proprio quando si capisce che si rischia tutto.
In che modo, in Beauvoir, la vita si fa scrittura?
Tutta la scrittura narrativa, e anche saggistica, di Beauvoir è sostanzialmente un’elaborazione delle proprie esperienze di vita, anche laddove le distanze sembrano maggiori come nei testi centrati sulla vita coniugale (Les belles images e La femme rompue). I diari giovanili, in particolare, testimoniano la lotta per «farsi» a partire e contro i dati della sua epoca e della sua classe, la ferma determinazione di «diventare un autore celebre» e di «bruciare in migliaia di cuori» realizzando un’opera romanzesca nutrita della propria storia e capace di emozionare una folla di ignote lettrici. Affidando dunque alla scrittura la possibilità di sentirsi essere, di avere consistenza, di dare senso e di aver presa sull’Altro. È un progetto che passa attraverso una scomposizione di sé in personaggi fittizi su cui proiettare parti di sé rifiutate o censurate, realizzando una galleria di figure femminili – negative per la maggior parte – che prende avvio con la prima raccolta di novelle Lo spirituale un tempo, rifiutata dagli editori e pubblicata tardivamente, dopo che lei è diventata una scrittrice di grande successo. È un progetto che trasforma le crisi e le perdite in creazione letteraria. Come avviene nelle due grandi crisi di cui si è parlato: quella del “trio” produce il primo romanzo che la consacra scrittrice, L’invitata; quella del suo “amore transatlantico” viene elaborata e orchestrata nel romanzo I Mandarini, che le vale il premio Goncourt. Mentre nel grande racconto autobiografico, l’intento narrativo, ancorato alla soggettività – come sono diventata Simone de Beauvoir scrittrice e autrice del Secondo Sesso e de I Mandarini – si carica di un valore sociale: analizzare e mostrare come si costruisce una vita.
Cosa rappresentano per Beauvoir i racconti della morte della madre e degli ultimi anni di vita di Sartre?
Si tratta di due testi molto diversi, anche se si vogliono entrambi testimonianze della fine di un essere amato. Una morte dolcissima si apre sull’inattesa notizia del ricovero della madre: inizio di un dramma, poi un incubo registrato giorno dopo giorno, quando dietro al sospetto di un femore fratturato, emerge la verità nascosta di un tumore all’ultimo stadio. Lo sguardo segue attento e smarrito i segni sul volto e sul corpo della madre, della malattia; guarda e mostra, nel dolore e nella rivolta, un corpo che soffre, un corpo che si offre nella sua miseria allo sguardo altrui. Un inatteso sgomento si dilata in una sofferenza al di là di ogni razionalizzazione, una disperazione mai conosciuta, al senso di colpa, al rimpianto per il tempo perduto, alla rivolta contro il tempo che avanza e porta via.
In questa cronaca si inserisce un vero e proprio ritratto della madre. Molto bello. È il ritratto di una donna vissuta a cavallo tra Otto e Novecento, sostanzialmente infelice perché condannata a vivere contro se stessa, il più concreto e convincente ritratto dei “crimini” che l’ambiente storico-sociale può perpetrare sulla donna. Dei tanti proposti da Beauvoir, è il ritratto più spietato e lucido che riconduce le durezze, gli impedimenti, le castrazioni maturate negli anni a una struttura patriarcale e sociale solidamente ancorata a principi di gerarchia e di divisione dei ruoli, difesa degli stereotipi, mistificazione. All’origine bella, vitale, passionale, generosa, costrizioni e frustrazioni producono nella madre un risentimento mal contenuto, condotte aggressive e dominio sulle figlie – “sola via d’uscita che le si offriva” – nonostante il calore commovente del suo affetto. Il legame sommerso riemerge solo quando tra la madre e la figlia si frappone un corpo in balia alle sofferenze e alla morte, sulla soglia della fine.
L’intero testo è un grido di rivolta contro lo “scandalo” della morte, che non è niente affatto “dolcissima”, come dice consolante l’infermiera; e come ripete nelle ultime parole, rovesciandone il senso, Beauvoir stessa. Che con questo libro conduce un’investigazione sulla morte, al di là dei mormorii rassicuranti di parenti e vicini al capezzale del moribondo, anche al di là del linguaggio disumanizzante dei medici. Al di là, cioè, di ogni luogo comune. Riuscendo, con un’abile orchestrazione, a intrecciare uno scavo nella relazione madre-figlia con una demistificazione della morte, e a fare emergere dallo scambio di battute e l’annotazione di dettagli il contrasto fra culture diverse, nell’ambiente chiuso di una camera d’ospedale.
Diverso è il caso della Cerimonia degli adii. Questa volta il racconto, che copre gli ultimi dieci anni della vita di Sartre, non dice un ritrovamento sulla soglia di una perdita, bensì una rottura, quella del binomio indissolubile Sartre-Beauvoir. All’opposto del racconto della morte della madre, questo dilata gli spazi, mette in scena più personaggi e incorpora la Storia; moltiplica i luoghi, i percorsi, le tematiche, ricostruendo un impressionante quadro della radicalità dei conflitti sociali e politici in Francia e della radicalità delle posizioni politiche di Sartre. Perché lui occupa di nuovo la scena politica, francese e non solo, sempre in prima fila nella difesa dei diritti, in una costante esposizione pubblica. Nonostante il manifestarsi e l’avanzare di un decadimento fisico
La strategia narrativa è sicura e impone un certo ritmo al racconto, un ritmo che passa dalla dilatazione dei tempi nella storia dei primi due anni, 1970 – 1971, a una loro restrizione in quello degli ultimi anni, quando l’aggravarsi della malattia e della cecità costringono Sartre ad abbandonare gli impegni presi sia con le pubblicazioni che con i gruppi dell’estrema sinistra. Ed è strategica anche la scelta di integrare nella stessa pubblicazione le conversazioni registrate con lui nell’estate del 1974, realizzando così un volume doppio: in una parte (del 1974) Sartre vi parla interrogato da Simone; nell’altra (del 1980) è oggetto del racconto di lei. L’ordine di presentazione è rovesciato: il Sartre assente, quello visto dallo sguardo di Simone, introduce al Sartre di cui è sollecitata e a cui è data la parola, quando l’unicità del punto di vista e la ferrea progressione cronologica si sciolgono nella fluidità della conversazione.
Fedele al patto di verità e trasparenza, nella scrittura autobiografica come nel rapporto con Sartre, Beauvoir non ci risparmia nessun dettaglio dell’inesorabile procedere di un decadimento fisico che tuttavia non intacca l’intelletto né la voglia di vivere. Con ritmo ossessivo, il racconto reiterato dei sintomi mese per mese registra con puntigliosa precisione l’“irreversibile degrado”; fino al quadro dell’ultima ospedalizzazione e del corpo piagato. Dice anche, in un crescendo, la preoccupazione, il panico, l’angoscia, le lacrime, la spossatezza, lo smarrimento, la compassione, la disperazione per la progressiva perdita del compagno di una vita. Simone si riconferma nel suo ruolo di testimone militante, di cronista coscienziosa, di ricercatrice che utilizza le fonti, per render conto della fine di lui. Con un obbiettivo che è anche politico: nel senso di stabilire una relazione tra l’aggravarsi delle condizioni di salute di Sartre e la sua scelta di quegli interlocutori che lo avrebbe portato di fatto a consegnarsi totalmente a due giovani dirigenti della Gauche prolétarienne, Philippe Gavi e Pierre Victor, fino alla rottura con Les Temps Modermes.
Sandra Teroni ha insegnato letteratura francese nelle Università di Pisa, Firenze e Cagliari. Tra i suoi libri: L’idea e la forma. L’approdo di Sartre alla scrittura letteraria (Marsilio 1988), Julien Benda. La passione della democrazia (Bulzoni 1993), Pour la défense de la culture. Les textes du Congrès international des écrivains Paris 1935 (con W. Klein, EUD 2005), Da una modernità all’altra. Tra Baudelaire e Sartre (Marsilio 2017). Ha diretto per Laterza una Storia del romanzo francese del Novecento (2008). Ha collaborato all’edizione del Théâtre Complet di Sartre nella Bibliothèque de la Pléiade (Gallimard). Per la sezione di “Psicoanalisi e Letteratura” dell’IAAP ha organizzato gli incontri poi raccolti nei volumi L’ascolto del testo I e II, La voce della poesia, Al femminile (Nicomp).