
Un primo aspetto riguarda l’emergere di un denominatore comune, per così dire, della riflessione del silenzio che è condiviso da tutti gli ambiti culturali e religiosi analizzati. Le fonti del mondo antico e tardoantico sono solite analizzare il fenomeno del silenzio principalmente da cinque punti di vista. Si tratta, andando in dettaglio, dei seguenti aspetti:
- Il silenzio esteriore, ovvero il silenzio come lodevole forma di comportamento e virtù e anche come strategia retorica.
- Il silenzio come freno alla diffusione inopportuna di conoscenza, finalizzato alla ritenzione e alla protezione di conoscenze destinate a pochi eletti o segrete.
- Il silenzio cognitivo, inteso come atto di riconoscimento della natura ineffabile del principio supremo, vale a dire dell’incapacità dell’intelletto umano di comprenderlo ed esprimerlo.
- Il silenzio interiore, inteso come la quiete dell’anima nel suo avvicinarsi contemplativo a Dio e come percezione adorante del principio supremo;
- Il silenzio divino, inteso come ipostasi divina, in altre parole come attributo, qualità o grandezza della natura divina.
Nel suo lavoro sul silenzio nel pensiero greco, Salvatore Lilla propone una categorizzazione molto più complessa e dettagliata, che riesce a descrivere in modo ineccepibile la riflessione sul silenzio nelle fonti greche. La categorizzazione qui proposta, articolata in cinque aspetti principali, è più semplice, e si è resa necessaria in quanto essa rappresenta di fatto il denominatore comune tra i diversi ambiti religiosi e culturali analizzati in questo studio.
Un secondo aspetto comune è che i riferimenti al silenzio avvengono solo di rado in modo sistematico. Non ci sono, in altre parole, dei veri e propri trattati sul silenzio. Riflessioni sul e riferimenti al silenzio si trovano dove uno meno se li aspetta, cosa che rende ben più difficile l’individuazione dei passaggi significativi; si tratta molto spesso proverbi saltuari, chiose sapienziali nel contesto di narrazioni più ampie, e ci vuole un occhio esperto oltre che una buona dose di fortuna per trovare il materiale rilevante. Alle volte, ma raramente, emergono dei filoni tematici che, ripetuti, diventano parte della storia della ricezione: un esempio è dato, per citare le fonti del giudaismo, dal silenzio di Aronne di fronte alla morte prematura dei suoi figli (Lev. 10,11-13), che diventa quasi proverbiale nella successiva esegesi rabbinica.
Un terzo aspetto riguarda l’attualità, a tratti sconcertante, di alcune considerazioni sul silenzio che dimostrano, purtroppo, quanto poco si sia imparato dagli antichi. Qui di seguito vorrei riportare qualche esempio da fonti classiche, cristiane e giudaiche:
- Plutarco (Garr. 9, 506C) scrive: coloro infatti che hanno ricevuto un’educazione veramente nobile e regale imparano prima a tacere e poi a parlare. Rimanere in silenzio, dunque, si rivela essere di gran lunga più importante del parlare o del farsi notare ad ogni costo. È meglio pertanto rompere il silenzio e mettersi in primo piano solo quando si possiede la piena facoltà di gestire l’attenzione degli altri in modo consapevole e, soprattutto, costruttivo per sé
- Tra gli autori cristiani, vale la pena di riportare una massima di Clemente Alessandrino (Alex. Paed. 2,53,4) che si potrebbe usare come regola numero uno nei dibattiti politici odierni (nei talk-show come nei social network): è meglio tacere piuttosto che contraddire, aggiungendo il torto all’ignoranza. A ben vedere, queste parole di Clemente ricordano nemmeno troppo da lontano la Bibbia ebraica (Prov. 26,4): Non rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza, per non divenire anche tu simile a lui.
- Una terza riflessione attuale sul silenzio riguarda un midrash (testo giudaico di esegesi biblica) al Libro dell’Ecclesiaste (Qohelet Rabbah 7,9). Un persiano vuole convertirsi e chiede a diversi rabbi di aiutarlo a imparare l’ebraico. Prima di mettersi ad imparare seriamente, il persiano, il cui atteggiamento ricorda molto da vicino le tendenze antiscientifiche di un movimento politico italiano, deve tuttavia essere in grado di mettersi calmo e tacere:
Un persiano andò da Rab e gli disse: “Istruiscimi!”
Egli (Rab) gli disse: “Di’ Aleph [una lettera dell’alfabeto ebraico]!”
Egli (il persiano) gli disse: “Chi lo dice che questa è una Aleph?”
Egli (Rab) gli disse: “Di’ Beth! [altra lettera dell’alfabeto ebraico]”
Egli (il persiano) gli disse: “Chi lo dice che questa è una Beth?”
(Rab) alzò la voce con lui e lo mandò via tra gli insulti.
(Allora il persiano) andò da Samuel e gli disse: “Istruiscimi!”
Egli (Samuel) gli disse: “Di’ Aleph!”
Egli (il persiano) gli disse: “Chi lo dice che questa è una Aleph?”
Egli (Samuel) gli disse: “Di’ Beth!”
Egli (il persiano) gli disse: “Chi lo dice che questa è una Beth?”
Allora (Samuel) lo prese per l’orecchio, e (l’altro) gridò e disse: “Il mio orecchio! Il mio orecchio!”
Samuel disse: “Chi lo dice che questo è il tuo orecchio?”
Egli (il persiano) rispose: “Tutto il mondo sa che questo è il mio orecchio!”
Egli (Samuel) disse: “Anche in questo caso. Tutto il mondo sa anche che questa è una Aleph e quella una Beth.”
Immediatamente il persiano tacque e si mise a studiare.
Quale significato assume il silenzio nella tradizione ebraica?
Nelle diverse tradizioni legate all’ebraismo (preferisco sempre usare il plurale, al punto da ritenere che sia addirittura più appropriato parlare di “ebraismi”) il significato del silenzio si può riassumere come segue, tenendo conto dei principali aspetti della riflessione sul silenzio elencati nella risposta alla prima domanda.
Il silenzio esteriore. Dalla Bibbia, passando per Filone e i testi di Qumran per arrivare, con i testi più tardi della letteratura rabbinica, agli inizi del medioevo, il silenzio esteriore viene visto come un comportamento caratteristico dell’uomo saggio, giusto e timorato di Dio. Due aspetti generali risultano essere tipici della riflessione ebraica sul silenzio esteriore. In primo luogo, il silenzio viene visto come una forma prudente di atteggiamento che tiene lontano chi lo pratica dalla trasgressione come pure dalla colpa e dalle punizioni che ne risultano. In secondo luogo, il silenzio viene considerato come la massima forma dell’obbedienza a Dio, come accettazione del piano divino, e come atto di fiducia incondizionata di fronte a Dio.
Una caratteristica tipica dei Rotoli di Qumran è l’inserimento del silenzio esteriore nel codice etico e sociale in vigore all’interno della comunità, dove è richiesta una certa moderazione nel parlare e dove sono previste punizioni per chi non vi si attenga. Vengono qui alla luce degli aspetti che si riveleranno poi tipici delle regole monastiche e ascetiche cristiane.
I testi rabbinici – più ancora di quelli classici, gnostici o cristiani – offrono interessanti prospettive sulle dinamiche sociali che regolano il silenzio, associato di volta in volta a rispetto, autorità e umiltà. Alcune tradizioni testuali consigliano il saggio sul momento opportuno per parlare o tacere, senza tuttavia che siano da postulare necessariamente espliciti riferimenti alla tradizione retorica classica.
Nella letteratura rabbinica, come pure, in modo minore, nell’opera di Filone, il silenzio esteriore viene visto come condizione necessaria all’apprendimento.
Particolare attenzione viene data dai testi rabbinici al ruolo del silenzio nelle discussioni con apostati ed eretici. Due sono gli atteggiamenti consigliati in questo caso: da un lato è necessario ridurre al silenzio gli antagonisti, dall’altro bisogna rispondere loro usando l’arma del silenzio, per non dar loro opportunità di diffondere i loro insegnamenti fallaci. Anche alcuni autori cristiani suggeriscono un atteggiamento molto simile ai destinatari delle loro opere.
Nel contesto delle discussioni halachiche, i testi in generale consigliano il silenzio – e quindi prudenza – a chi si trovi a detenere l’argomento più debole. In ambito giudiziario, i rabbi identificano il silenzio con ammissione e assenso. In ambito etico, l’identificazione tra silenzio, assenso, e complicità comporta l’imperativo morale di non tacere di fronte al perpetrarsi dell’ingiustizia.
Il silenzio come freno alla diffusione inopportuna di conoscenza. Questo particolare aspetto della riflessione antica e tardoantica sul silenzio non sembra avere nelle varie forme del pensiero ebraico un valore così esplicito come quello attribuitogli nella filosofia o nello gnosticismo. Allusioni a questo tipo di silenzio si trovano prevalentemente nella produzione letteraria di natura mistica o esoterica. È doveroso in questo contesto notare che l’assenza di legami espliciti tra l’ambito del mistero e quello del silenzio nulla toglie all’importanza indiscussa del tema del “mistero” in certe correnti letterarie e teologiche del giudaismo (si pensi per esempio ai testi di Qumran).
Il silenzio cognitivo. Ad esclusione degli autori giudeo-ellenisti, le riflessioni gnoseologiche sull’ineffabilità del principio supremo non sembrano lasciare una grande traccia nei testi ebraici. Nella Bibbia ebraica si trovano alcune sporadiche riflessioni sulla natura improferibile del nome divino, per le quali tuttavia non sembra ragionevole postulare un contatto necessario con la speculazione filosofica greca.
La concezione del sommo principio, quindi di Dio, come una grandezza ineffabile in quanto sostanzialmente incomprensibile all’intelletto umano costituisce un tema centrale della speculazione filosofica e teologica filoniana. In essa convergono in modo evidente da un lato temi e terminologia tipici della tradizione platonica e medioplatonica e dall’altro alcune considerazioni bibliche sulla natura improferibile del nome divino.
L’esistenza di conoscenze ineffabili e il problema, ad essa legato, della possibilità di una loro comprensione e divulgazione sono temi in gran parte marginali negli scritti canonici della letteratura rabbinica; tali tematiche non vengono analizzate sistematicamente ma, al meglio, affiorano in modo saltuario e per lo più inaspettato nelle più disparate tradizioni (narrazioni, parabole, preghiere, visioni mistiche).
Il silenzio interiore I riferimenti a questo tipo di silenzio negli scritti attinenti alle tradizioni ebraiche sono piuttosto sporadici e non risultano da una riflessione sistematica sul tema. La concezione di un silenzio interiore risulta essere estremamente rara nella Bibbia ebraica. Essa ricorre in alcuni Salmi, dove il silenzio dell’orante è visto come forma di lode di Dio. Un’eccezione, in questo contesto, è rappresentata da Filone, che riprende diverse volte la concezione platonica del silenzio interiore come presupposto della contemplazione del sommo principio, che avviene, secondo Filone, in silenzio, senza voce, solo con l’anima. Il silenzio interiore diventa per Filone caratteristica e simbolo di un rapporto intimo e reverenziale tra uomo e Dio. In questo contesto, Filone sviluppa anche l’idea della preghiera silenziosa: la preghiera degna di tale nome non si manifesta in oggetti o sacrifici, ma con canti silenziosi. Nella letteratura ebraica postbiblica si trovano sporadiche allusioni al silenzio interiore: il più delle volte si tratta di brevi commenti ai Salmi; rari sono i riferimenti al silenzio estatico.
Il silenzio divino. Già nella Bibbia ebraica il silenzio divino viene posto in correlazione con le manifestazioni di Dio, anticipate da un grande silenzio a conclusione di un disordine tumultuoso universale.
Il tema del silenzio divino viene affrontato da Filone in alcuni passi, dove esso viene inteso come una caratteristica essenziale del modo di comunicare di Dio. Dio parla senza suoni, e allo stesso modo si esprime il Logos divino, che non usa bocca, lingua, organi del discorso, o voce.
Nella letteratura rabbinica il silenzio di Dio viene associato principalmente alla distruzione del Tempio: diverse tradizioni rabbiniche, a partire dal Talmud di Gerusalemme descrivono Dio davanti alle rovine del Tempio, mentre tace e osserva il lutto. Le fonti sostengono in modo univoco che questo silenzio non sia da intendersi come un segno di debolezza ma piuttosto come espressione della sua grandezza. In altri contesti, il silenzio divino può essere interpretato come reticenza, come esplicita volontà divina di non intromettersi nelle vicende umane, per lo meno per un certo periodo di tempo. Alternativamente, il silenzio di Dio viene compreso come un segno della sua pazienza e della sua misericordia nei confronti dei peccati di Israele.
Strettamente legato con il silenzio divino è il tema del silenzio (mormorio, sussurro, “voce di un dolce silenzio”) degli esseri angelici: esso è discusso in modo sporadico nei testi canonici della letteratura rabbinica; per una sua trattazione più estesa bisogna fare riferimento a tradizioni sorte e tramandate al di fuori di quelle rabbiniche, alcune delle quali, di carattere mistico ed esoterico, originano almeno a partire dai rotoli di Qumran e si protraggono ben oltre l’inizio del medioevo. Il silenzio degli angeli è un atto di riverenza nei confronti di Dio, è una lode sussurrata, che agli orecchi umani risuona come silenziosa.
In che cosa la riflessione cristiana sul silenzio si diversifica da quella ebraica?
Direi che in generale, rimanendo nei primissimi secoli dopo Cristo, i punti in comune sono più evidenti delle divergenze. Del resto, il Cristianesimo nasce dal Giudaismo e ne prende, se pur rielaborandole in modo significativo, molte tradizioni, convinzioni e prospettive.
Sicuramente un punto in comune degno di nota è l’uso del silenzio come rifiuto categorico di rispondere a provocazioni e a insinuazioni faziose di “eretici” e “miscredenti”: nei Vangeli questo tipo di silenzio si riflette nell’atteggiamento di Gesù davanti al Sinedrio e a Pilato, dove si potrebbe leggere un legame con i dettami rabbinici circa l’atteggiamento da tenere con nemici ed eretici.
Tipica delle fonti cristiane è la concezione del silenzio come un pilastro della vita comunitaria. Nelle comunità cristiane delle origini, come pure nel monachesimo (Pacomio, Basilio, Benedetto), il silenzio, inteso sia come il divieto di proferir parola, sia come il divieto di parlare a qualcuno, può venire usato come una sanzione. Qui si notano alcune somiglianze con alcune regole sviluppate dalla comunità di Qumran.
Solo durante la rielaborazione più tarda di queste tradizioni diventa rilevante l’acquisizione da parte cristiana di prospettive, tematiche e terminologia medio e neoplatoniche, che allontanano, se così si può dire, la riflessione cristiana dalle sue origini ebraiche, dove il medio e neoplatonismo riescono a penetrare in modo decisamente minore.
Quale ruolo gioca, nella visione cristiana del silenzio, il platonismo?
Più ci si allontana, sul piano diacronico, dal Cristianesimo delle origini, più si rafforza l’influsso del platonismo medio e nuovo. I testi degli autori cristiani si riempiono via via di idee e terminologia platoniche che danno luogo a delle riflessioni teologico-filosofiche originali e svincolate dal giudaismo. Per fare un esempio valido, ciò si riflette nel peso teologico dato nelle fonti cristiane al tema dell’ineffabilità della natura divina.
Tra gli scritti cristiani, sono i testi paolini i primi ad affrontare il tema del silenzio come ineffabilità: Cristo possiede un nome che si trova al di sopra di ogni altro nome e che non può essere compreso. Parimenti, i misteri che Paolo intende disvelare non possono essere descritti con l’eccellenza della parola e della sapienza, ma possono soltanto essere capiti attraverso l’intercezione dello Spirito Santo. Nel ruolo indispensabile dello Spirito per la comprensione dell’ineffabile si può ancora cogliere una differenza tra la teologia paolina e le riflessioni gnoseologiche della filosofia, che reagiscono all’ineffabilità con asserzioni di tipo apofatico, vale a dire col silenzio.
Il motivo del silenzio come ineffabilità è un tema caro anche ai padri greci, che attingono a piene mani da tradizioni precedenti platoniche, neoplatoniche come pure orfiche e pitagoriche. Questo tema si riflette in modo particolarmente evidente nel pensiero teologico e filosofico di Clemente Alessandrino, Origene, Basilio Magno, Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, e altri. Rispetto alla riflessione paolina, il livello di astrazione gnoseologica e filosofica di questi autori equivale quasi a quello dei principali esponenti del pensiero neoplatonico; per contro, il ruolo rivelatore dello Spirito Santo sembra perdere di forza. Tipica di questi autori, infine, è l’idea – peraltro attestata in alcuni autori neoplatonici (Porfirio, Proclo) – del silenzio come unico vero modo di onorare la grandezza di Dio.
Quanto riescono a penetrare medio e neoplatonismo nella riflessione rabbinica sul silenzio?
Pensiero, tradizioni e terminologia neoplatonica non riescono a penetrare in modo significativo nella riflessione rabbinica sul silenzio, per lo meno non in modo così incisivo come negli autori cristiani. Questo può essere in parte dovuto a questioni linguistiche (quanto erano bravi in greco i rabbi, in particolare quelli babilonesi?), in parte legato a sfere di influenza culturale (più di quella greca, nel Talmud Babilonese si riflette l’influsso delle culture persiana e mesopotamica). Qua e là si colgono alcuni sporadici accenni, che però non dovrebbero fare dedurre una dipendenza diretta. A titolo di esempio si vedano le considerazioni fatte nella risposta alla seconda domanda di questa intervista relativamente al silenzio cognitivo.
Quali interrelazioni, anche conflittuali, tra antichità classica, cristianesimo, gnosticismo e giudaismo è possibile rinvenire nella riflessione antica sul silenzio?
Da quanto ho potuto vedere, non ci sono, per quanto riguarda la riflessione sul silenzio, delle interrelazioni di tipo conflittuale tra antichità classica, cristianesimo, gnosticismo e giudaismo. Piuttosto, si riscontrano riflessioni su temi comuni, sviluppati via via con accenti e focus differenti a seconda delle singole esigenze filosofiche o dottrinali.
Nella risposta alla prima domanda ho accennato al fatto che la riflessione sul silenzio ha un denominatore comune a tutti gli ambiti filosofici e religiosi studiati, che tocca cinque punti di vista sul fenomeno del silenzio: Il silenzio esteriore, il silenzio come freno alla diffusione inopportuna di conoscenza, il silenzio cognitivo, inteso come atto di riconoscimento della natura ineffabile del principio supremo, il silenzio interiore e il silenzio divino. Io ritengo che aver portato alla luce questo sostrato comune a tradizioni culturali, linguistiche e religiose differenti e per certi aspetti opposte sia già di per sé un buon risultato di ricerca. Cercare ciò che accomuna, al posto di ciò che divide, dovrebbe essere, se non un imperativo morale, almeno una tendenza generale di approccio all’altro che renderebbe questo mondo senza dubbio un luogo più vivibile.
Francesco Zanella è docente privato di studi ebraici all’università di Amburgo. Lavora come ricercatore in studi ebraici all’università di Bonn. Ha pubblicato monografie e articoli relativi alla lessicografia dell’ebraico antico, alla letteratura qumranica e a quella rabbinica. In generale si occupa della storia delle idee in età tardoantica. Tra le sue pubblicazioni: Silenzio dell’uomo e silenzio di Dio. Il motivo del silenzio nella tradizione classica, ebraica e cristiana (Paideia 2022); Vergeltungsvorstellungen in der tannaitische Literatur (Mohr Siebeck 2019); The Lexical Field of the Substantives of Gift in Ancient Hebrew (Brill 2010). Per la casa editrice Paideia è curatore dell’edizione italiana del Dizionario teologico degli Scritti di Qumran.