
Per quale approccio alla materialità delle cose passa uno sviluppo realmente sostenibile?
«Ciò che per il bruco è la fine del mondo, il mondo lo chiama farfalla». Penso che questa affermazione di Lao Tzu, riportata anche nel libro, sia il giusto incipit per rispondere a questa domanda. Ritengo infatti che l’esistenza altro non sia che un passaggio da uno stato a un altro, come possiamo vedere giornalmente da tutto ciò che ci circonda, e ogni fine rappresenti un nuovo inizio. Il nostro problema è che non ci rendiamo conto degli strumenti della metamorfosi, ossia che tutto ciò che facciamo ha delle conseguenze sulla trasformazione del mondo. Dietro ogni cosa realizzata c’è dell’altro, c’è un resto, cioè quella parte, non visibile per noi, che, la natura ci manda indietro. Tendiamo a non preoccuparci, durante lo svolgimento di un progetto, della parte che non ci serve nell’immediato e che, quindi, altro non diventa se non scarto (dal francese dechet, cioè caduto, quindi uno scarto è qualcosa che cade quando si costruisce qualcosa). Dopo anni di disattenzione, oggi gli scarti sono ovunque, in qualsiasi settore, dal digitale alla finanza, passando dal sociale. Personalmente, ritengo che un primo passo verso uno sviluppo sostenibile passi proprio dal rendersi conto che lo scarto esiste e in quanto tale va sfruttato e non abbandonato anche perché, comunque, ha avuto un costo. Per esempio: la carta che tutti noi usiamo può essere riciclata per almeno sei volte. È importante saperlo. Un secondo passo, secondo me, ha a che fare con un cambio di prospettiva: dovremmo pensare che tutto è resto, già nel tempo presente, creando un legame tra il passato e il futuro. Quindi, il problema non va risolto a valle utilizzando, acquistando o consumando continuamente nuovi prodotti “sostenibili” ma va risolto a monte portando al limite il periodo di vita di ciò che produciamo e consumiamo. Come riportato nel mio libro, alcuni esempi di nuovi prodotti derivanti da scarti possono essere: riciclo di bottiglie di vetro da cui viene prodotta la lana di vetro, riciclo dei gusci delle uova che grazie alla loro composizione chimica possono dare vita a materiali utili nel mondo dell’edilizia e dell’architettura; riciclo quasi infinito dell’acciaio. Potremmo dire che per fare un ulteriore passo verso uno sviluppo sostenibile dovremmo dedicarci a una nuova forma di ‘bricolage’. Da bricoleur, ossia colui che progetta con quel che ha a disposizione, in quanto le risorse non sono illimitate e quindi non vanno sprecate, potremmo affrontare la sfida dello sviluppo sostenibile. Un altro aspetto fondamentale per il nostro obiettivo è dato dall’introduzione della tracciabilità, intesa come la possibilità di individuare, a partire dalle materie prime che lo compongono, le varie fasi di preparazione e commercializzazione di un prodotto, e rintracciabilità, cioè la conoscenza di ogni singolo processo in dati informatici che, quindi, ci consente di conoscere ed individuare, in qualsiasi momento, anche a ritroso nel tempo, i dettagli di ogni singola fase di trasformazione di un prodotto. L’introduzione di questi due fattori permetterebbe un lento ma inesorabile progresso etico e consapevole.
In che modo il materialismo da Lei invocato può dare slancio e progettualità al nostro futuro?
Ritengo che una nuova forma di materialismo passi attraverso la creazione di abitudini, piccoli gesti individuali che stimolano e diventano gesto collettivo. L’essere umano, infatti, si comporta secondo l’immagine che ha di sé stesso e, quindi, per cambiare le proprie abitudini deve modificare l’immagine che ha di sé attraverso nuovi modi di pensare, agire, progettare sviluppando una nuova cultura materiale. Una cultura materiale responsabile. Una volta che qualcosa entra nella nostra cultura materiale responsabile non più un prodotto/oggetto qualunque da consumare e abbandonare ma diventa qualcosa di rappresentativo. Quindi, in quanto tale, viene investito di una sacralità laica che rappresenta i valori e la visione del mondo che mettiamo nei nostri rituali, negli oggetti, in tutto ciò che ci circonda, cioè un valore positivo da salvaguardare, di cui prendersi cura e tramandare, come se questo fosse un artefatto, un cimelio vintage, un qualcosa che non vediamo più come qualcosa di passato, da gettare ma come qualcosa da conservare, per renderlo duraturo nel tempo. Ogni artefatto è da considerarsi unico e così la mia concezione di materialismo dovrebbe percepire ogni materialità come unica. Ogni materiale, dovrebbe essere considerato come qualcosa che contiene una storia al suo interno, anche grazie alla tracciabilità, in modo da non essere considerato scarto o resto. Basterebbe, quindi, riappropriarci del significato originario di artefatto, che non ha nulla di artificiale ma che, invece, è legato al suo essere il frutto di un artificio, quindi fatto con arte e, quindi, non escluso dalla natura. Il materialismo che traccio mira sfumare i confini tra artificiale e naturale, materiale e immateriale, tra digitale e fisico, generando un fecondo equilibrio tra uomo e habitat.
Ingrid Paoletti è Professoressa di Tecnologia dell’Architettura presso il Politecnico di Milano. Dottore di ricerca in Building Technology, è stata ricercatore associato presso il Massachusetts Institute of Technology. Ha fondato il gruppo di ricerca Material Balance che si occupa di tecnologie e materiali innovativi per lo sviluppo di una cultura materiale responsabile. È vicepresidente di Fondazione Politecnico e Delegato del Rettore per le relazioni Internazionali per Expo2021 Dubai.