
di Carlo Greppi
Chiarelettere
«È vero, come ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman nel libro Retrotopia, che negli ultimi anni si tende a «temere il futuro» e a riversare su qualcuno (un po’ a caso o in maniera mirata) l’angoscia che questo genera. In teoria, sosteneva Bauman, «il futuro è la sfera della libertà (in cui tutto può ancora accadere), mentre il passato è la sfera dell’inesorabilità immutabile e inalterabile (in cui tutto ciò che può accadere è già accaduto)». Ma ultimamente è come se futuro e passato si fossero «scambiati i rispettivi punti di vista», in una «retrotopia», appunto, con tratti decisamente preoccupanti: una sorta di inversione dell’utopia, nella quale il futuro sembra un’oscura profezia che si è già realizzata. Il tempo trascorso e «la tradizione», come già era accaduto altre volte, per molte e molti tornano a essere luoghi mitici a cui tendere […].
Tutti noi possiamo, anche riferendoci alla nostra vita quotidiana, essere tentati dal credere irrazionalmente che si stesse meglio in un’epoca precedente. Ma prima di tutto bisognerebbe accordarsi su quali devono essere i parametri sui quali strutturiamo queste nostre convinzioni. Il benessere? La pace? La felicità?
Io, per esempio, ritengo che le società «migliori» siano quelle che, oltre ad avere un benessere il più possibile diffuso (e dunque con l’analfabetismo e la fame spinti ai margini, per esempio), sono in pace e tendono verso la libertà, la giustizia e l’uguaglianza: conquiste che devono riguardare tutti i cittadini e le cittadine e non, come vedremo meglio nei prossimi capitoli, solo alcuni. Il problema è che spesso i luoghi comuni che mitizzano il passato traggono spunto da una prospettiva molto parziale: ricordando come stavo io in una determinata epoca (o come mi è stato riferito che si stava in un’epoca ancora precedente) metto a confronto questa immagine con quello che credo di aver capito dell’oggi, e traggo le mie conclusioni inappellabili. Senza rendermi conto che, così facendo, generalizzo il particolare, anche quando gli studiosi possono dimostrarmi che, secondo parametri specifici, mi sbaglio di grosso.
Come mai molte persone che se ne escono con affermazioni di questo genere non sono in grado di ricredersi? Perché le competenze necessarie a giudicare a proposito di un argomento sono le stesse che servono a conoscerlo. «Caratteristica della competenza è la percezione dei suoi limiti», ha scritto l’ex magistrato Gianrico Carofiglio; «il vero esperto si riconosce dalla capacità di ammettere la sua ignoranza». Anche qua siamo davanti a un famoso paradosso: è l’«effetto Dunning-Kruger». Ecco come lo descrive il semiologo Stefano Bartezzaghi: meno so di un determinato argomento e «meno sono consapevole di non essere titolato a giudicare in merito. Il risultato è che la mia stessa incompetenza mi farà pensare di essere invece competente». In altri termini, chi meno sa più è convinto di sapere. E meno si autocensura.»