
Eppure nella drammaticità di quello che è successo al nostro paese ed al sistema della danza italiano, potrei dire che almeno due aspetti sono risultati “positivi”. Il primo è quello che ha messo in luce la polvere sotto al tappeto, che nei decenni è divenuta una montagna. I problemi della danza italiana sono apparsi agli occhi di tutti nella loro interezza, con l’impellenza data dal dramma che stiamo ancora attraversando.
Ed anche per noi artisti, operatori, imprese questo momento è servito ad oggettivizzare quello che già sapevamo e viviamo ogni giorno sulla nostra pelle. C’è qualcosa che non funziona nel sistema culturale italiano e bisognerebbe lavorare ad un piano strategico ed integrato che metta a sistema in maniera organica l’esistente, che è tantissimo, ma che non trova una giusta cornice in cui possa essere esposto con dignità.
La pandemia ha acuito i problemi del nostro paese e quindi della danza, fino a renderli intollerabili suscitando non solo frustrazione, ma anche un senso di rivendicazione per quanto non detto, per quanto non fatto dai Governi Italiani per il nostro settore e mi riferisco in particolare alle azioni portate avanti dai lavoratori dello spettacolo che hanno messo a nudo un sistema di tutele inadeguato, svilente, arretrato. Abbiamo perso il lavoro, abbiamo perso la possibilità di esprimerci che per un artista è un bisogno primario. La nostra stessa identità è stata in qualche modo violata dai necessari DPCM che ci hanno permesso oggi di guardare ancora una volta avanti ad un tiepido futuro. Sono passati “solo” due anni eppure sembra di parlare di un passato remoto che quasi non appartiene più alla nostra memoria.
Siamo esplosi in frammenti e grazie al nostro essere artisti e non solo, grazie alla scelte di vita che abbiamo fatto, dagli operatori culturali ai tecnici, questa crisi ci ha fatto ricompattare ancora di più nella consapevolezza, mai riconosciuta se non con parole di convenienza, che siamo la spina dorsale del nostro paese, la sua identità più profonda e che non possiamo cedere mai neanche di fronte ad una pandemia.
A resistere ce l’ha insegnato l’Italia e quindi abbiamo fatto quello che sappiamo fare meglio. Andare avanti. Superare ogni difficoltà e continuare a fare cultura, creando soluzioni alternative e sostenendoci l’uno con l’altro. Creando nuove reti, nuovi confronti, modi nuovi di fare spettacolo, anche dalla cucina di casa o con il cellulare. Lo streaming, la videodanza, la promozione della danza su piattaforma, incontri, convegni.
“Whatever it takes” è una frase che diciamo a noi stessi ogni giorno da decenni. Nulla di nuovo per noi. Abbiamo fatto di più. Abbiamo fatto meglio. Siamo stati bravi e quasi come nulla fosse eccoci qui. Abbiamo ripreso le produzioni, le programmazioni, la promozione, la circuitazione, i festival. Ad insegnare, a provare, ad andare in scena. Ma è proprio questo come se nulla fosse che non funziona. Niente sarà più come prima, abbiamo detto in quei giorni. È vero? Forse non direi che è proprio così.
Ogni crisi ha un senso solo se genera un cambiamento e la drammaticità di questa pandemia che ancora strappa morti ogni giorno, un senso lo deve trovare per forza. Pezzi di un sistema tenuto insieme per molti anni con incuria hanno prodotto un sistema avvitato su sé stesso i cui problemi sono evidenziati nel nostri libro-inchiesta. Solo recentemente si è iniziato a portare avanti una strategia triennale di stabilità e sviluppo con una visone complessiva per il settore dello spettacolo dal vivo e della danza che può e deve essere migliorata, certamente, ma che ha focalizzato l’attenzione di tutti sul fatto che siamo un “sistema produttivo” e solo il riconoscimento dello danza e dello spettacolo dal vivo come sistema produttivo potrà lavorare sull’identità profonda della cultura del nostro paese.
Il secondo elemento “positivo” è che ce l’abbiamo fatta. Il Ministero della Cultura ha sostenuto economicamente sia le imprese che i lavoratori dello spettacolo, così come le Regioni, ognuna in maniera diversa in base al proprio territorio. Si è sviluppato un ampio dibattito nazionale, divenuto massa critica del sistema danza. Ed è proprio questo che abbiamo fatto con l’esperienza di questo libro, che è un documento di un momento storico della danza italiana. “Si cambia danza” ci siamo dette con Raffaella Tramontano, direttore responsabile di Campadidanza Dance Magazine di cui sono editore, nei primissimi giorni del lockdown, perché nel sistema della danza italiana c’è ancora tanto da cambiare.
Il libro raccoglie le numerose voci di operatori e danzatori italiani: quale giudizio esprimono, artisti e operatori, sui problemi del mondo della danza italiana e quali cambiamenti essi ritengono maggiormente necessari e urgenti?
Per rispondere a questa domanda devo per forza “spoilerare” la parte finale del libro. Quando abbiamo deciso con mia sorella Marialuisa Stazio del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Federico II di Napoli, che le interviste giornalistiche fatte dalla redazione di Campadidanza, non potevano essere sufficienti a restituire la misura di quello che stava avvenendo, sono nate le interviste semi-strutturate la cui elaborazione è il cuore di questo volume.
E quindi un pensiero mi ha attraversato: se improvvisamente ognuno di noi che vive in questo sistema-danza e che lo conosce come il proprio vissuto, avesse il potere di risolvere già domani mattina almeno uno dei problemi del mondo della danza, da quale comincerebbe?
Ed è così che nato “il domandone” ovvero la domanda finale, quasi un quiz, che chiudeva le interviste semi-strutturate.
È stato bellissimo leggere le risposte degli artisti ed operatori, amici e colleghi. Risposte profonde, risposte di sistema, a volte inattese e con la giusta ironia.
Ma quello che non mi sarei aspettata e che la maggior parte di noi ha individuato nella formazione della danza in Italia, punto dolentissimo ed a oggi irrisolto anche rispetto ai paesi europei, il punto di inizio per la soluzione dei nostri problemi. Questo mi ha sorpreso perché la formazione della danza a volte è vista da lontano dagli organizzatori, dai produttori. E quindi questa risposta mi ha fatto capire quanto sia profondo l’interesse che abbiamo affinché la danza in Italia migliori, quanto sia disinteressato il nostro contributo di pensiero rispetto ad altri obiettivi che potrebbero avere ricadute immediate sulle attività produttive di ciascuno. Quanto siamo consapevoli del ruolo identitario che abbiamo per il nostro paese e di quanto vogliamo farlo bene. Quindi non pensiamo di risolvere i problemi con provvedimenti di facciata. No, vogliamo farlo proprio sul serio, dall’educazione delle persone, dal rispetto del corpo, dall’educazione nelle scuole, dalla formazione dei giovani e lo vogliamo fare non tanto ripiegando lo sguardo su noi stessi, ma guadando più lontano, al futuro.
Gabriella Stazio è coreografa, danzatrice, insegnante, manager e direttrice artistica di Movimento Danza, centro di formazione accreditato come “Organismo di Promozione Nazionale”. La sua Compagnia Movimento Danza ha svolto tournée in oltre trenta nazioni, con dirette Rai in mondovisione. È inoltre la prima promotrice italiana dell’International Dance Day.