
di Gianluigi Bonanomi
Mondadori Università
«Cosa è lo sharenting? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, e ripercorrere rapidamente la crescita dell’uso dei social network e delle modalità con cui interagiamo con queste piattaforme. Come sarà ricordata la nostra epoca nel futuro? Difficile dirlo con sicurezza, ma penso che questa potrebbe essere ricordata come l’Era dei social network.
Da quando è nata Internet, e poi negli anni Novanta il World Wide Web, quello dei social network è stato il fenomeno più eclatante avvenuto nella grande Rete. Eclatante prima di tutto per la rapidità con cui si è affermato, ma eclatante soprattutto per l’incredibile livello di coinvolgimento raggiunto con le popolazioni di tutto il mondo. Si calcola che a oggi quasi la metà della popolazione mondiale abbia un account su uno dei principali social network. Per essere più precisi, ho controllato i dati più recenti riportati dal Digital 2020 Report di Hootsuite e We Are Social: dei circa 7,75 miliardi di abitanti del pianeta, 5,19 miliardi hanno il cellulare, 4,54 miliardi usano Internet, e ben 3,80 miliardi, il 49%, sono utenti attivi dei social networks. Considerato che ampie zone geografiche non sono nemmeno ancora raggiunte da Internet, la cifra è davvero impressionante. E il tasso di crescita è anch’esso elevato: ogni giorno sbarca su Internet un milione di nuovi utenti.
Chi si occupa di analisi sociologiche e del comportamento umano in generale ha trovato nel fenomeno social network parecchi spunti interessanti per il suo lavoro. Fenomeni che nel mondo reale sono in genere confinati a ristrette frange della popolazione, a specifici ambienti, e che in genere non hanno ampia risonanza e tendono anzi a sparire rapidamente dai radar, sembrano invece trovare giovamento nei social, dove tutto viene amplificato, ripreso, ripetuto. Ecco quindi che nel tempo sono cresciuti a dismisura sulla Rete fenomeni anche deleteri, che vanno dal cyberbullismo alle fake news, dalle campagne d’odio (hate speech) al revenge porn.
Il tutto su un media, il social network appunto, che era nato con le migliori intenzioni: l’obiettivo era, inizialmente, consentire al singolo individuo di restare più facilmente in contatto con amici e parenti, e di espandere la sua rete di conoscenze per diventare di fatto il membro di una sorta di comunità virtuale che andava oltre i classici ambiti del vicinato, parentado o luogo di lavoro.
In tutto ciò, l’attività principale di una persona su un social network è la condivisione con le altre persone nella sua cerchia di amici di una serie di ‘contenuti’ che lo riguardano, quasi sempre in prima persona: notizie, pensieri, luoghi, eventi e via dicendo. E fin dai primi tempi, la maggior parte dei contenuti condivisi ha assunto una connotazione prevalentemente visuale (prova a chiedere a un adolescente se preferisce Instagram o Facebook…), con i testi spesso relegati a fare da contorno al post, o magari confinati nei commenti. I post sui social sono, insomma, principalmente immagini, serie di immagini (stories) e sempre più spesso brevi video. Tanto che esistono social network, come il già citato Instagram, che basano la struttura stessa del post sul visual, foto o video che sia. I motivi di questa inclinazione verso l’immagine sono tanti, ma è chiaro che ci sono alcune ragioni prevalenti, sia culturali sia tecnologiche: dal punto di vista culturale, c’è soprattutto il fatto che la maggior parte degli utenti viva fin dalla nascita in una società costruita principalmente su media «visuali» (cinema e soprattutto televisione, ma anche fumetti e videogiochi) mentre solo una piccola minoranza, spesso di età media elevata, ha un retroterra esperienziale basato sul testo scritto (libri e giornali); sul fronte tecnologico, invece, un motivo trainante è dato dal fatto che la maggior parte degli utenti (come accennato più sopra) acceda al social tramite smartphone. Ed è ovvio che questo oggetto non invogli certo alla scrittura di lunghi testi, mentre al contrario quasi tutti i modelli recenti hanno un comparto foto/videografico di ottima qualità e di semplicissimo uso, e che grazie ai moderni sistemi operativi risulta ben integrato con la parte hardware che consente di raggiungere Internet. Di fatto, lo smartphone sembra fatto apposta per scattare foto, girare video e pubblicarli immediatamente, per condividerli con la propria cerchia di amici.
La diffusione degli smartphone, come si può dedurre facilmente dai dati che ho citato in apertura, è stata probabilmente il singolo evento che più di tutti ha influenzato e spinto la crescita di Internet e in particolare dei social network. I trend di crescita dei due fenomeni, vendite di smartphone e iscrizioni ai social, in effetti appaiono collegati in modo piuttosto stretto, molto più di quanto non lo siano social network e personal computer. E il fatto che lo smartphone abbia mano a mano raggiunto praticamente la totalità della popolazione adulta, e stia diffondendosi sempre di più verso le fasce di età più giovani, ha messo davvero l’accesso al network alla portata di tutti. E come succede ogni volta che si mette una tecnologia potente a disposizione di chiunque, si va incontro a possibili problemi.
Fra gli utenti di social network, ce ne sono alcuni che sono più esposti di altri ai rischi concreti dati dall’utilizzo di queste tecnologie. Parlo in particolare dei bambini, dei minori in genere. Pur essendo praticamente tutti dei cosiddetti «nativi digitali» (espressione che ormai si usa nel mondo anglosassone dal lontano 2001), la loro familiarità con lo smartphone e le applicazioni è, per quasi tutti, decisamente superficiale: sono molto bravi a usare smartphone, tablet e relative app, perché sono cresciuti in mezzo ai paradigmi dell’interfaccia utente «touch», ma non hanno idea di come funzionino e di cosa si possa nascondere dietro il programma. Di più, soprattutto nella nostra civiltà occidentale, che pare farsi un vanto del crescere i bambini ‘isolandoli’ il più a lungo possibile dalla realtà esterna, ci troviamo una popolazione infantile che non ha la più pallida idea di come interagire con persone all’esterno della loro ristrettissima e ipercontrollata cerchia, composta da familiari, parenti, compagni di scuola e pochissimi adulti di riferimento, spesso solo gli insegnanti. Con il risultato che si evita di spiegare al ragazzo che inizia a frequentare i social che persone ci siano là fuori, per non ‘traumatizzarlo’.
Ecco perché, appunto, i ragazzi sono esposti a rischi di ogni tipo: dai fenomeni di bullismo al contatto con pedofili. Si tratta di rischi che i ragazzi stessi potrebbero facilmente evitare o almeno tenere sotto controllo, se solo avessero una guida che gli spiegasse quali sono i pericoli. Questa ruolo di guida, idealmente, dovrebbe essere sostenuto – almeno inizialmente – dai genitori. Ma qui arriviamo al punto dolente: la maggior parte dei genitori, infatti, ne sa ancora meno dei figli. Tanto che anch’essi ignorano la maggior parte dei problemi e dei rischi della Rete, e dei social in particolare. Fino al punto da mettere in atto, in prima persona, comportamenti potenzialmente pericolosi senza assolutamente rendersene conto e in perfetta buona fede.
A volte, questi comportamenti a rischio possono coinvolgere i ragazzi stessi. Postare foto dei figli con indicazioni precise di dove vanno a scuola, di quando vanno in piscina, di quando sono soli in casa, per esempio, sono alcune di queste attività rischiose. Questo perché nel caso un malintenzionato prendesse di mira il ragazzo, grazie ai post dei genitori avrebbe probabilmente a disposizione informazioni sufficienti per perseguire i suoi scopi. E anche se i post fossero visibili a un pubblico ristretto di amici e parenti, quindi teoricamente in assenza di rischi esterni, rimane comunque il fatto che si sta violando la privacy del minore, e di questo fatto i genitori potrebbero un giorno essere chiamati a rendere conto.
Gli anglofoni hanno coniato un termine per raggruppare tutto ciò che riguarda i comportamenti dei genitori sui social: la parola è sharenting, che è una crasi di «sharing», ovvero condividere, e «parenting», ovvero essere genitori. Il termine è stato usato inizialmente dal «Wall Street Journal», in una forma ancora più lunga ed esplicita: oversharenting, a indicare la brutta abitudine di molti genitori a postare sui social media molto, anzi troppo materiale riguardante i loro figli. Sul perché lo facciano si sono scatenati sociologi ed esperti di tutto il mondo, con teorie interessanti e studi approfonditi. Mi piace pensare che il motivo principale sia che i genitori siano così orgogliosi dei propri figli da pubblicarne le gesta epiche e le piccole conquiste quotidiane. E che sia perché, soprattutto per le mamme e papà, i figli rappresentino il centro dell’attenzione, il fulcro delle loro vite, e quindi ‘automaticamente’ diventino l’argomento principale dei loro post proprio perché, come detto, essere sul social network vuol dire condividere con la propria cerchia di amici e parenti le grandi e piccole cose che ci succedono.
Tuttavia, secondo studiosi come lo psichiatra Elias Aboujaoude, questo impulso a condividere i dettagli della vita dei figli può facilmente degenerare da pessima abitudine più o meno innocente in quella che viene diagnosticata come «competition attention»: un bisogno di attenzione che si esprime appunto con l’esposizione del minore. Parlo quindi di qualcosa che sembra un’abitudine e invece nasconde una nevrosi.
Mano a mano, il termine «sharenting» – soprattutto qui in Italia – ha cominciato a essere usato per indicare l’attività di condividere sui social come genitori, in quanto genitori. Quindi, la parola sharenting, oltre a indicare quella specifica brutta abitudine, comincia a essere impropriamente usata con un significato allargato, tale da riassumere un po’ tutte le attività che coinvolgono il genitore nel suo rapporto con il figlio tramite i social. O nei suoi rapporti con i social che finiscono per coinvolgere i figli. O nei rapporti fra figli e social nei quali sarebbe meglio che venissero coinvolti i genitori…
Nei prossimi capitoli, esaminerò i vari aspetti dello sharenting e di tutte le attività collegate ai ragazzi e ai genitori nel mondo dei social network. Si scoprirà quali sono le problematiche in ballo, partendo da fatti concreti presi dalla cronaca; esaminerò il background psicologico che sottende alle attività sul social network, sia a quelle svolte dai genitori sia a quelle svolte dai ragazzi, e se ne vedranno più in dettaglio le possibili conseguenze.
Mi occuperò poi di argomenti importanti quali la privacy (che non è un concetto astratto, ci sono leggi specifiche sull’argomento), la sicurezza, il cyberbullismo, il furto d’identità, il «child grooming». Tratterò poi delle conseguenze legali che alcune azioni possono comportare e, per finire, darò una serie di consigli utili per imparare a gestire in modo corretto il proprio rapporto con i social e per guidare i ragazzi a un rapporto responsabile con queste piattaforme.»