
Proprio come gli ucraini, gli italiani sono scappati dai bombardamenti (sfollati) e dagli eserciti che si spostavano e combattevano sul suolo italiano (profughi). C’è stata, inoltre, un’altra categoria di popolazione che ha dovuto lasciare la propria casa per colpa della guerra, gli evacuati, cioè coloro ai quali i fascisti o i tedeschi hanno ordinato di andarsene perché dovevano allestire linee di difesa, lungo le coste o all’interno del territorio. Quanti sono stati complessivamente a lasciare casa e averi alla violenza della guerra e alle mani degli sciacalli? Non lo si può sapere con esattezza poiché molti si sono mossi autonomamente, senza passare attraverso gli organi del Regime. Parliamo, comunque, anche allora, in Italia, di centinaia di migliaia. Non mi azzardo a dire qualche milione, perché non ne ho le prove, ma il sospetto sì. Erano soprattutto donne, vecchi e bambini; famiglie frantumate dalla guerra che aveva portato a combattere mariti, fratelli, figli. Esattamente come sta accadendo ora.
Quali fasi segnarono lo sfollamento?
Possiamo individuare tre fasi; non delineate, però, dalla storia politica italiana, date fondamentali come il 25 luglio e l’8 settembre 1943, per esempio, risultano irrilevanti, così come fino al 10-11 luglio 1943, giorno dello sbarco alleato in Sicilia, nessun peso ebbe anche l’andamento delle operazioni militari sui fronti di guerra. Più importante è l’evoluzione (cronologica, geografica e tipologica) dei bombardamenti e ancor più rilevanti sono le teorizzazioni e le conseguenti decisioni del Regime.
Il “problema” dello sfollamento dalle città, per cominciare, non nacque al momento dell’entrata in guerra dell’Italia bensì circa dieci anni prima, nel 1930, quando ministero dell’Interno e ministero della Guerra crearono il “Comitato centrale interministeriale per la protezione antiaerea” (Ccipaa) affidando a esso il compito di porre le basi organizzative per la costituzione di un sistema di difesa dei civili dai bombardamenti. In poco tempo il Ccipaa si rese conto della estrema difficoltà, dovuta a motivi logistici, economici e psicologici, di garantire nelle città (specialmente in quelle più grandi) forme di difesa della popolazione realmente efficaci. Di conseguenza nel 1931 affermò che il provvedimento più sicuro sarebbe stato quello di diminuire la popolazione da proteggere. La propaganda lanciò la parola d’ordine «le città si difendono dalle offese aeree vuotandosi». Su questa linea tra il 1931 e il 1937 il Ccipaa elaborò e inviò ai prefetti una serie di disposizioni da mettere in atto in caso di guerra, disposizioni che negli anni successivi subirono modifiche e integrazioni fino a quando, il 10 giugno 1940, entrarono in vigore.
Ma quella che possiamo chiamare prima fase era già iniziata alla fine del maggio ’40 quando erano state ordinate significative evacuazioni in zone sempre più estese del Piemonte e della Valle d’Aosta lungo il confine francese. Con gli attacchi aerei iniziati nella notte stessa del 10 giugno sui maggiori centri urbani del Nord (e ben presto allargatisi a quelli del Sud) cominciò la fuga dalle città colpite e anche da quelle che venivano considerate, dalla popolazione più che dalle autorità, potenziali bersagli. Si trattò soprattutto di uno spostamento, volontario ma fortemente sollecitato dai poteri locali, verso le campagne e le colline vicine.
Solo dieci giorni più tardi, però, le disposizioni elaborate tra il 1931 e il 1939 si rivelarono del tutto insufficienti e non adatte ad affrontare quelle prime migrazioni (evacuazioni e sfollamenti assieme) che ancora non possiamo considerare “di massa”. Il 20 giugno il ministero dell’Interno ordinò ai prefetti non solo di interrompere del tutto lo sfollamento, ma anche di invertirne il flusso, cioè di spingere gli sfollati a tornare alle loro case. Entrambe le cose non funzionarono.
Nell’autunno del 1942 gli angloamericani sferrarono su tutta la penisola un’offensiva aerea pesantissima e senza tregua. Ha inizio la seconda fase (ottobre ‘42-settembre ‘43), quella dello “sfollamento di massa”, che portò gli italiani anche in luoghi lontani dalle loro città: da parenti o amici; o dove era possibile sistemarsi in alberghi e pensioni precettati dal Regime. Si arrivò anche a dover requisire stanze “inutilizzate” in appartamenti abitati.
A partire dall’ottobre 1943 i problemi legati ai profughi e agli evacuati che, sempre più numerosi, dalle regioni del Sud salivano (i primi volontariamente, i secondi obbligatoriamente) verso Nord, divennero talmente critici e urgenti da portare totalmente in secondo piano quelli relativi allo sfollamento causato dagli attacchi aerei. È da qui e da questo che prende il via la terza fase (ottobre ‘43 – aprile ‘45) che ha caratteristiche molto diverse dalle due precedenti sia per quanto riguarda la tipologia degli spostamenti dei civili sia per ciò che concerne le reazioni, le decisioni e i provvedimenti dello Stato fascista.
Quali direttrici seguirono i movimenti degli italiani?
Chi fuggiva dalle bombe cercava di non allontanarsi troppo, sistemandosi nella periferia della città. Ma presto nelle periferie non si è trovato più posto. Chi aveva la fortuna di avere parenti in zone più tranquille, anche se lontane, li raggiungeva. Un’altra fortuna era quella di possedere una seconda casa in zone di villeggiatura. Io sono forlivese e studiando il caso della mia provincia ho scoperto che moltissimi sfollati sono arrivati sulla costa romagnola o perché avevano una loro proprietà o perché il Regime li ha fatti accogliere nei numerosi alberghi e pensioni che già a quei tempi vi si trovavano. La stessa cosa è accaduta in Versilia. Questo finché i tedeschi non hanno ordinato l’evacuazione di entrambe le fasce costiere. Insomma, gli italiani si sono mossi in parte autonomamente e in parte appoggiandosi alle organizzazioni fasciste. Le direttrici sono le più varie. Di certo nella terza fase, quando sono iniziate le evacuazioni tedesche e nel frattempo gli angloamericani risalivano la penisola, la direzione di spostamento organizzata dai fascisti è il Nord, ma moltissimi dalle coste si sono incamminati lungo le valli, non volevano andare a Nord, volevano rimanere nella loro terra.
Cosa significò per milioni di italiani l’esperienza di dover abbandonare la propria casa?
Questa è un’altra domanda molto attuale. Cosa significa per gli ucraini abbandonare la loro casa, i loro punti di riferimento conosciuti per non rimanere sotto i bombardamenti o tra il fuoco nemico? C’è una differenza tra allora e oggi: per le persone di allora “il mondo era molto più piccolo”, cioè pochissimi conoscevano più dei luoghi in cui vivevano, la maggioranza non avevano mai visto altro nemmeno in televisione (che esisteva, sì, ma era solo in rarissime case), quindi lasciare quei luoghi era veramente lasciare l’unica realtà nota.
La Seconda guerra mondiale è la prima guerra davvero totale perché i civili sono stati coinvolti nella battaglia consapevolmente, non come danno collaterale, cioè si è progettato a tavolino di colpirli con l’intenzione di abbattere il sostegno della popolazione nemica alla scelta bellica del suo governo. Esattamente quello che stiamo cercando di fare anche oggi: uno dei motivi per cui colpiamo duramente l’economia sovietica è di spingendo il popolo russo contro Putin.
Ovviamente non era solo quello lo scopo dei bombardamenti: si voleva anche distruggere fabbriche che producevano per la guerra, aeroporti, porti, snodi ferroviari e tutto ciò che serviva al paese rivale per portare avanti il conflitto. La devastazione che apportavano le bombe non coinvolgeva solo lo spazio fisico, che diventava irriconoscibile, estraneo, ma anche quello psicologico. Erano sia il “fuori” che il “dentro” a essere sconvolti e ciascuno doveva ridisegnare mappe per potersi orientare nella realtà esterna e anche in quella interiore. E se questo necessario tentativo di creare nuovi punti di riferimento non fosse riuscito c’era il rischio di un crollo psicologico.
Le reazioni psicologiche agli attacchi aerei erano, ovviamente, soggettive, ma è possibile individuare l’intrecciarsi molto comune di alcuni elementi. Ovviamente forti e incontrollabili erano paura e angoscia. Due emozioni profondamente diverse, anche se collegate, che Jean Delumeau descrive con parole semplici e particolarmente adatte al nostro tema: «si tratta, in realtà, di due poli intorno ai quali gravitano termini e fatti psichici a un tempo affini e diversi tra loro. Il timore, lo spavento, il terrore appartengono più alla sfera della paura; l’inquietudine, l’ansietà, la depressione a quella dell’angoscia. La prima si riferisce all’ambito di ciò che è conosciuto, la seconda a quello dell’ignoto». Nell’esperienza del bombardamento l’intreccio di tecnologia e destino, prevedibile e non prevedibile, provocava il sommarsi di queste due emozioni, una violenta e paralizzante, l’altra «un sentimento d’insicurezza globale» profondo e duraturo. E mentre la paura si affievoliva con la fine dell’attacco aereo, l’angoscia rimaneva anche dopo, in tutti i momenti della giornata, nell’attesa di un nuovo allarme, e poteva segnare indelebilmente la psiche.
Al suono dell’allarme iniziava la corsa nei rifugi, privati o pubblici, numericamente insufficienti. Luoghi – cantine, grotte o sotterranei che fossero – bui, spesso soffocanti, in genere sovraffollati, freddi, umidi, e spesso abitati da “animaletti”, topi e pidocchi, ai quali gli uomini finivano per sentirsi somiglianti. A volte, poi, in quelli privati, intere famiglie rimaste senza casa e prive di assistenza, vi si trasferivano in modo permanente, con tutti gli inconvenienti igienici che questo comportava. Nel rifugio ci si incontrava al di là delle differenze sociali e abbandonando, per forza, le regole formali del mondo esterno. Ma non erano solo la forma e le abitudini più elementari a essere travolte. Prima e più in profondità saltava ogni schema di orientamento e di senso spaziale e temporale: il sottosuolo, luogo dei morti, diveniva riparo, luogo di salvezza; il cielo, ambito e simbolo della contemplazione, del sogno, della fantasia e dell’aiuto divino, era il canale attraverso cui giungeva il nemico, la minaccia, la morte; la terra non era più il mondo della casa, del crescere e del costruire, ma il luogo della distruzione. In questa sorta di anomala cavità nello spazio e nel tempo diventava necessario, per la mente umana, creare un qualche nuovo punto di riferimento, un nuovo tipo di comunità con le proprie regole e anche i propri riti. Nel rifugio si piangeva e si pregava, ma anche si nasceva e si amava. Esattamente come ora: abbiamo visto in televisione la piccola Mia nata nella stazione della metropolitana di Kiev e giovani fidanzati baciarsi tra distese di sacchi a pelo.
Che i bombardamenti stessero avvenendo o che se ne temesse l’inizio, per necessità o paura quindi, c’era chi sceglieva di scappare, di cercare un luogo più sicuro in cui salvare se stesso, i propri cari e i pochi oggetti trasportabili, e in cui ricreare una qualche forma di normalità. Ma non era una scelta facile, perché per garantire un futuro a una piccolissima parte del proprio vivere quotidiano si era costretti a rinunciare a tutta l’altra gran parte di esso. Per quanto colpita, infatti, la propria città rimaneva comunque uno spazio più noto di quello esterno, rimaneva un elemento forte, ideale e fisico, della propria identità. Tutto questo era ancor più vero se la propria casa era ancora intatta. Le variabili che esternamente definirono l’esperienza dello sfollamento furono tante e diverse: la distanza più o meno grande dal luogo lasciato; la possibilità o meno di usufruire di un’altra propria casa o di quella di amici e parenti, di utilizzare mezzi di trasporto, di portare con sé parte delle proprie cose, di tenere unita la famiglia; l’atteggiamento della comunità ospitante, che poteva essere di solidarietà o di rifiuto; la necessità o meno di affrontare spostamenti successivi; ecc.
A volte lo spostamento era simile a un trasloco: la famiglia al completo si spostava portandosi dietro tutto ciò che poteva, entrava in contatto con un ambiente nuovo, lo studiava, vi si adattava, vi creava un nuovo nido. Ma più spesso la distruzione già avvenuta o le difficoltà a reperire mezzi di trasporto permettevano di fuggire solo con ciò che si indossava, e altrettanto spesso i nuclei famigliari erano costretti a spezzarsi, a dividersi tra chi sfollava e chi rimaneva a lavorare in città. Oggi vediamo che si dividono tra chi parte e chi rimane a combattere.
Per tutti, comunque, indipendentemente da queste variabili e dalle differenze sociali, lo sfollamento rappresentò un’esperienza durissima di straniamento e di perdita, e un processo di deprivazione dei beni materiali (casa, oggetti personali e familiari), delle abitudini quotidiane, delle relazioni personali, dell’intimità, dei luoghi del proprio spazio noto e delle proprie sicurezze, del proprio passato, del proprio futuro e, quasi sempre, anche della salute fisica.
In che modo lo sfollamento influì sul consenso al regime?
Il fenomeno dello sfollamento ebbe estrema influenza sul consenso al Regime. La creazione, nel 1930, del “Comitato centrale interministeriale per la protezione antiaerea” dimostra che già allora lo Stato fascista era consapevole del grande peso che avrebbe avuto la difesa dei civili dai bombardamenti, in caso di guerra, e, poiché lo sfollamento apparve subito essere la strada migliore, anzi l’unica in tal senso, era chiaro che la sua gestione sarebbe stata una partita importante. Forse a quei tempi le preoccupazioni maggiori erano quelle di salvaguardare la popolazione e di proteggere i lavoratori delle industrie e i produttori di generi alimentari; posso dire con sicurezza che dall’autunno del 1942 a queste si affiancò, divenendo sempre più rilevante, quella per la tenuta dell’adesione al Regime e alla “sua” guerra. Gli sfollati si rivelarono un grave pericolo per la tenuta dello “Spirito pubblico” per due motivi: da un lato essi sviluppavano velocemente un forte astio nei confronti delle autorità centrali (incapaci di proteggere le città) e locali (colpevoli di non dare loro l’aiuto necessario); dall’altro, raccontando cosa accadeva nei centri urbani bombardati, le peripezie che avevano dovuto affrontare nel loro viaggio e le difficoltà in cui si ritrovavano, diffondevano “informazioni” che, di certo, non facevano bene all’immagine che il Regime voleva dare di sé.
All’interno di tale triste fenomeno, un peso particolare ebbe lo sfollamento dei bambini: come si articolò?
Lo sfollamento dei bambini fu totalmente affidato alla Gioventù italiana del Littorio e coinvolse migliaia di fanciulli, maschi e femmine, dai 6 ai 14 anni. La Gil doveva prendersi cura dei bambini non abbienti che i genitori decidevano volontariamente di affidare a essa per allontanarli dai luoghi colpiti da offese belliche nemiche. Il suo compito era di trasferirli nelle proprie colonie o in altre strutture, pubbliche o private (queste ultime appositamente requisite dai prefetti), o anche di affidarli a famiglie; doveva, poi, mantenerli, assisterli e vigilarli. Dai documenti centrali emerge chiaramente che la Gil aveva e sfruttò appieno le capacità organizzative e gestionali necessarie al compito assegnatole. Nonostante la sua efficienza e le strutture a disposizione, si trovò, però, a scontrarsi costantemente con due gravi problemi: la carenza di posti in cui collocare i fanciulli e la difficoltà – dovuta a una reale penuria sul mercato – di reperire i letti, i materassi, le lenzuola e le coperte necessari per rendere effettivamente utilizzabili tutti i spazi disponibili. Dando una veloce occhiata alle cifre risulta assai rilevante il numero dei bambini fatti sfollare e assistiti nelle colonie del centro e del nord della penisola italiana, e davvero sorprendente è la quantità di essi che furono ospitati da famiglie. Furono, infatti, moltissimi gli italiani che si resero disponibili ad accogliere nelle loro case ragazzini che non conoscevano. Probabilmente non fu sempre solo il buon cuore a spingerli a questo, ma anche le 10 lire giornaliere che la Gil erogava per ogni bambino accolto e la possibilità – nei casi in cui si trattò di famiglie contadine o mezzadrili – di avere braccia in più per i lavori agricoli.
Quando e come si poté fare ritorno alle proprie case?
Beh, la dico “come l’ho scritta” nelle ultime righe del libro: «la fine del conflitto in Italia non pose termine al problema degli spostamenti di popolazione causati dalla guerra, ma ne avviò una quarta fase ancora tutta da studiare: quella del ritorno a casa». Aggiungo che non sarà facile studiare questa fase perché la nostra penisola è stata liberata in momenti diversi, quindi: non tutti i profughi sono tornati nello stesso momento; gli evacuati che sono andati a Nord hanno dovuto attendere la fine della guerra, quelli che hanno trovato rifugio nelle valli sono discesi sulle coste man mano che la situazione si normalizzava. Molti sfollati dalle città non avevano più una casa alla quale far ritorno. Inoltre, a causa delle distruzioni apportate a ponti e strade dai tedeschi in ritirata e dai bombardamenti americani per rallentare questa ritirata, il viaggio era tutt’altro che semplice, per tanti fu una vera e propria odissea che durò giorni, settimane, a volte anche mesi. C’era, poi, chi non aveva le possibilità economiche per mettersi in viaggio. Per fare un esempio, nell’ottobre del 1945 – sei mesi dopo, quindi, la fine della guerra – molti sfollati provenienti da altre regioni si trovavano ancora nel territorio della provincia di Forlì. Insomma, credo che i “quando” e i “come” siano davvero tanti, forse ogni sfollato, profugo ed evacuato ha i propri.
Elena Cortesi si è laureata in Storia Contemporanea all’università di Bologna, ha ottenuto il Dottorato di ricerca all’Università di Roma Tre, poi una borsa di Postdottorato e un Assegno di ricerca all’Università di Bologna. Negli anni successivi ha svolto attività seminariale presso quest’ultima università come Cultore della materia, attività che attualmente accosta all’insegnamento nelle scuole medie superiori della propria città. Tra le monografie: Reti dentro la guerra. Corrispondenza postale e strategie di sopravvivenza (1940-1945); L’Odissea degli Sfollati. Il Forlivese, il Riminese e il Cesenate di fronte allo sfollamento di massa (1940-1945: la provincia di Forlì in guerra).