“Settecento dialogico. Scienza, “militanza”, letteratura” di Alessio Bottone

Dott. Alessio Bottone, Lei è autore del libro Settecento dialogico. Scienza, “militanza”, letteratura, pubblicato dalle Edizioni dell’Orso: quale fortuna ha conosciuto, nella letteratura italiana del XVIII secolo, la forma dialogica?
Settecento dialogico. Scienza, "militanza", letteratura, Alessio BottoneIl dialogo ha avuto una diffusione tutt’altro che trascurabile nel Settecento italiano, nonostante abbia subito la concorrenza di generi di maggior successo, quali la lettera o il saggio, che ad esempio in ambito scientifico si rivelarono più adatti alle esigenze comunicative dei nuovi tempi perché più agili. Tuttavia, nel secolo dei Lumi molti scienziati fecero ricorso alla forma dialogica, soprattutto per volgarizzare le proprie ricerche o quelle altrui e per confutare le teorie espresse dal dibattito contemporaneo o, viceversa, difendersi dalle critiche ricevute. Queste due vocazioni, ben esemplificate dal filone fontenelliano-algarottiano e da quello post-galileiano, caratterizzano però l’intera stagione settecentesca, dal momento che tra i poli della divulgazione e della polemica si colloca la restante produzione, che definisco “militante” e che include scritti di critica letteraria e d’arte, testi sulla lingua e sull’economia, opere di teologia e pedagogia. Ciò va attribuito a un quadro storico-teorico coerente, comune ai vari perimetri disciplinari, che consiste nello statuto acquisito dal genere tra Cinque e Seicento. In estrema sintesi, passando attraverso la teoresi di Sigonio, Tasso, Pallavicino e la prassi galileiana, il dialogo si compromette con il retaggio della retorica, diventando uno strumento atto principalmente all’agonismo e alla didassi. Ne deriva che finanche sul fronte più autenticamente letterario tale dualismo riemerge con un’ultima declinazione, ossia quella dell’antitesi satira-moralismo: è il caso della dialogistica di Gasparo Gozzi, Giuseppe Parini, Saverio Bettinelli, Clementino Vannetti, percorsa dal fil rouge del lucianismo; mentre Verri, Genovesi e, in misura diversa, Alfieri si servono della forma-dialogo dando una dimensione “privata” alla sua facies “militante”, che confina con diarismo, autobiografia e memorialistica. Non sorprenderà infine, a dimostrazione della significativa compattezza di questa tradizione, scoprire che accanto agli scrittori appena citati compare Antonio Conti, che nei suoi Dialoghi filosofici parla di astronomia e di abitabilità dei mondi.

A quali esiti era giunta la forma dialogica nella stagione umanistico-rinascimentale?
L’età umanistico-rinascimentale rappresenta sicuramente il periodo d’oro del dialogo, che riveste un ruolo primario nel sistema dei generi e delle forme letterarie tra XV e XVI secolo. Basti ricordare che scrissero dialoghi Poggio Bracciolini, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti e Giovanni Pontano; che sono dialoghi gli Asolani e le Prose della volgar lingua di Bembo, il Cortegiano di Castiglione, le Sei giornate di Aretino. Ma anche la riflessione teorica sull’argomento raggiunge, in particolare nel Cinquecento, un’ampiezza notevole, specialmente a partire dalla discussione sorta intorno alla Poetica aristotelica. Tre trattati specifici sul dialogo, quelli di Carlo Sigonio, Sperone Speroni e Torquato Tasso, tracciano dunque un percorso che approderà, per mezzo di alcune decisive evoluzioni nel secolo successivo, alle acquisizioni settecentesche. La linea maggiormente “utile”, in tal senso, risulta quella sigoniano-tassiana: da una parte, infatti, lo storico modenese identifica il dialogo con l’imitazione del ragionamento, che si concretizza nella disputa dialettica in utramque partem (l’«intreccio di affermazioni e confutazioni», per dirla con Tasso, che accoglie questo principio); dall’altra, sul piano gnoseologico, egli riconosce che pure la retorica rientra nel suo terreno di competenza, benché la releghi al gradino più basso nella gerarchia delle forme di conoscenza. L’autore della Liberata, invece, dà un rilievo cruciale all’elocuzione, ad artifici e ornamenti in grado di accentuare la «vivacità agonistica» (Mulas) del ragionare, aspetto che all’interno della sua produzione dialogica si riversa in una scrittura fortemente condizionata dalla propria destinazione, tesa fra intenti apologetico-chiarificatori e polemici, come evidenziato da Massimo Rossi. Tutti questi indirizzi avranno poi esito nella svolta secentesca, mediante alcune ricalibrature che si mostreranno determinanti per il delinearsi della tradizione indagata nel libro.

In che modo il quadro fenomenologico settecentesco si discosta dall’archetipo galileiano?
Va innanzitutto rimarcato che il modello dialogico galileiano aggiunge un quarto ramo all’albero della tradizione di questo genere, classicamente tripartito e radicato negli archetipi fissati da Platone, Cicerone e Luciano. Sino al periodo umanistico-rinascimentale essi continuano a gettare la loro ombra, mentre Galilei e i Massimi sistemi segnano una vera e propria svolta, che ha un implicito valore anche sul piano teorico, a tal punto che l’ultima teoria moderna del dialogo, quella di Sforza Pallavicino, ne costituisce quasi un’appendice. Come hanno svelato i fondamentali studi di Andrea Battistini, questa svolta risiede in sostanza nel connubio tra scienza e retorica, che fa del dialogo il contenitore di un sapere sperimentale, afferente al dominio della demonstratio, e allo stesso tempo un’arma di persuasione, accostabile al codice del discorso epidittico. Per dirla con parole diverse, nei Massimi sistemi i tre interlocutori conducono ragionamenti di tipo matematico-scientifico, ma l’orchestrazione d’insieme è orientata a una manipolazione funzionale al trionfo di una voce sull’altra. Ecco, l’apertura ai contenuti delle scienze si risolverà nel XVIII secolo nella moltiplicazione delle materie affrontate dai dialogisti, che però continuano a mettere in campo soluzioni morfologiche affini sul piano argomentativo. La differenza principale sta invece nella cosiddetta semplificazione del modello galileiano: per Altieri Biagi esso perderebbe la sua originaria “virulenza” negli epigoni settecenteschi, e ciò in effetti avviene, ma per ragioni connaturate alla storia del genere. Esaminando da vicino la produzione scientifica, ci si accorge infatti che se i dialoghi alla maniera di Galilei tendono a semplificarsi dal punto di vista enunciativo, quelli alla maniera di Fontenelle (da Algarotti in poi) si contaminano con la “virulenza” dell’archetipo secentesco. E nella stessa zona di mezzo si posizionano moltissimi scritti che spesso non hanno alcun legame con quest’ultimo. Del resto, le sottili oscillazioni tra satira e moralismo della più pura letteratura dialogica confermano l’autonomia della fenomenologia in questione, che al contempo non può darsi senza Galilei.

Quali pratiche culturali costituirono il fondamento della stagione settecentesca?
Per capirlo bisogna ripartire ancora da Galilei. Come accennato, la sua idea di dialogo viene riletta e messa a sistema da Pallavicino, il quale individua in esso una sintesi tra le istanze del discorso poetico e di quello scientifico, in quanto capace di unire il diletto all’insegnamento, che rimane l’obiettivo prioritario. Così assumono un’importanza essenziale gli arnesi della retorica, intesi non solo come accorgimenti stilistici esemplati sul dettame oraziano del miscere utile dulci, ma come strumenti per uno sfruttamento utilitaristico della finzione disputativa. Ebbene, questa interpretazione – che nella sua concezione del dialogo quale meccanismo volto alla disgiunzione del vero e del falso finisce, ironia della sorte, per sostituire la dimostrazione scientifica con l’ortodossia controriformistica – perviene alla cultura del Settecento mediante le esperienze e le prassi educative, di impronta gesuitica, che riguardano le élites politico-intellettuali del secolo. In primo luogo perché Pallavicino rientra fra gli autori canonici della manualistica in uso presso i collegi, in cui si forma la maggior parte dei dialogisti studiati; in secondo luogo perché appunto la retorica, epidittica in ispecie, ricopre un ruolo centrale sia nell’economia della didattica sia nei protocolli performativi. Gli studenti, difatti, erano protagonisti di gare oratorie (disputationes) nelle quali sperimentare le tecniche apprese in aula. E tali esercizi confluivano nelle rappresentazioni drammatiche di fine anno, che a loro volta ambivano a saggiarne le competenze retoriche, ma nell’alveo di una visione del teatro che unisse pedagogia e persuasione, per tornare alle due anime della tradizione dialogica del XVIII secolo.

Quali sono le ragioni del declino nel quale il genere è incorso tra Otto e Novecento?
Quello del declino della forma dialogica tra Otto e Novecento, ma anche oltre volendo, è un tema soltanto sfiorato nel libro. Tuttavia, mi sembra che la storia e la fenomenologia settecentesche contengano in sé i segnali della crisi che andrà palesandosi nei secoli successivi. D’altronde il dialogo già durante il XVIII secolo comincia a essere oscurato dai maggiori generi concorrenti, dalla lettera al pamphlet o al teatro, e le ragioni andranno ricercate proprio nelle caratteristiche distintive di questa stagione. La stessa fondamentale omogeneità delle sue manifestazioni è un indizio eloquente, e il fatto che essa risalga in primis al peso della retorica spiega pure le profonde differenze con la coeva tradizione francese, ad esempio, che vive uno stato di salute migliore. Appunto il dialogo letterario e filosofico, che in Francia rappresenta uno dei vertici della produzione illuministica, da noi resta minoritario: il primo in virtù di una sorta di osmosi con la prosa argomentativa di trattati, dissertazioni e opuscoli; il secondo per una presenza statisticamente irrilevante. Non a caso Leopardi con le Operette morali non guarderà alla tradizione italiana a lui più vicina, ma ai philosophes e indietro fino a Platone, mentre saranno proprio i filosofi (da Michelstaedter a Masullo) a riappropriarsi di questo genere nel Novecento. Oggi i dialoghi hanno ormai pressoché abbandonato gli scaffali delle librerie e scoprire nel Settecento le origini di questo fenomeno di lunga durata non può che aggiungere interesse all’esplorazione di una storia sinora mai ricostruita.

Alessio Bottone si è laureato in Filologia Moderna all’Università di Napoli Federico II e ha conseguito il dottorato di ricerca in Studi Letterari, Linguistici e Storici all’Università di Salerno in cotutela con l’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera. I suoi principali interessi di studio riguardano la cultura del Settecento e la didattica della letteratura, campo nel quale ha svolto attività di ricerca come assegnista presso l’ateneo salernitano. Ha pubblicato articoli su varie riviste accademiche, tra cui «Critica letteraria», «Misure critiche» e «Italiano LinguaDue».

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