“Sessualità e marketing cinematografico italiano. Industria, culture visuali, spazio urbano (1948-1978)” di Francesco Di Chiara

Prof. Francesco Di Chiara, Lei è autore del libro Sessualità e marketing cinematografico italiano. Industria, culture visuali, spazio urbano (1948-1978) edito da Rubbettino: che relazione esiste tra pubblicità cinematografiche e sessualità nel periodo da Lei analizzato?
Sessualità e marketing cinematografico italiano. Industria, culture visuali, spazio urbano (1948-1978), Francesco Di ChiaraQuesto libro nasce nel contesto di un progetto più ampio (Comizi d’amore. Il cinema e la questione sessuale in Italia (1948‐1978) – Comizi d’Amore (unimi.it)) dedicato alla relazione tra cinema e sessualità nei primi trent’anni del periodo postbellico. Negli anni che vanno dalla fine degli anni Quaranta alla fine dei Settanta l’Italia è infatti attraversata da trasformazioni radicali, e spesso traumatiche, per quanto riguarda il rapporto dei cittadini con la sfera della sessualità: risultano in questo senso esemplificativi interventi legislativi quali la chiusura delle case chiuse (1958), le normative sul divorzio (1970), la riforma dello stato di famiglia (1975) e la legge sull’aborto (1978). Questo processo si interseca continuamente con una ancor più rapida dinamica di sessualizzazione dei media, caratterizzati da quello che Peppino Ortoleva ha definito un irreversibile processo di caduta dei tabù dell’osceno in seguito al quale l’Italia sarebbe passata, in appena trent’anni, dall’essere uno stato in cui vige una fortissima sorveglianza di matrice clericale, al diventare una delle maggiori produttrici di pornografia. Questo fenomeno riguarda il comparto mediale nel suo complesso e ha uno dei suoi luoghi di emersione più significativi nell’editoria popolare, all’interno della quale dalla diffusione, spesso semiclandestina, di pubblicazioni dedicate al mondo dello spettacolo in cui fanno capolino fotografie sempre più audaci, arriviamo alla nascita di riviste maschili e fumetti erotici che si convertiranno progressivamente all’hardcore. Ma riguarda soprattutto il cinema, che fino alla seconda metà degli anni Settanta, quando le televisioni private inizieranno a proliferare in maniera incontrollata, mantiene una posizione di privilegio nel panorama dei consumi mediali, sia dal punto di vista degli incassi che da quello simbolico. A partire dalla fine degli anni Quaranta, il neorealismo e la commedia postneorealista iniziano infatti a rappresentare con progressiva insistenza, e in modo esplicito, tematiche quali la prostituzione e soprattutto impongono modelli divistici fondati su un nuovo tipo di fisicità, ben rappresentato dalla Silvana Mangano di Riso amaro (Giuseppe De Santis, 1949) e poi da figure come Gina Lollobrigida o Sophia Loren. Tuttavia è solo a partire dal 1960 che questo processo conosce una brusca accelerazione e diventa irreversibile, in coincidenza con l’uscita di La dolce vita (Federico Fellini) e con l’enorme eco mediatica che ha il film fin dall’inizio delle sue riprese. Da quel momento in poi, sia il cinema d’autore che quello destinato al consumo popolare saranno impegnati in una progressiva espansione della sfera del visibile, che procederà con intensità esponenziale fino a quando, nel 1978, non apriranno le prime sale a luci rosse.

Questo processo però non investe solamente il contenuto e la messa in scena dei film, ma anche e soprattutto le campagne promozionali costruite loro intorno affinché possano trovare un pubblico in un mercato ancora ampio, ma al tempo stesso affollato, come quello del periodo postbellico. All’interno del sistema mediale, questo tipo di materiali ha uno statuto particolare, in quanto non presuppone un consumo volontario. Il pubblico è continuamente esposto alle pubblicità cinematografiche, che visiona più o meno distrattamente mentre compie altre azioni: può per esempio soffermarsi su dei manifesti cinematografici che scorge lungo il percorso casa-lavoro, oppure notare delle inserzioni mentre sfoglia quotidiani e riviste. Questo carattere di pervasività e inevitabilità, che è comune alle pubblicità in genere e non solo a quelle cinematografiche, si intreccia al particolare rapporto che il marketing del cinema italiano intrattiene con la sessualità nel periodo postbellico, rispetto alla quale assume alternativamente delle posizioni di avanguardia e di riallineamento in relazione agli altri settori del comparto mediale. Ed è proprio questa posizione di avanguardia a fare sì che in certe fasi storiche questo settore abbia un ruolo di particolare rilievo nel dibattito pubblico sulla sessualità nel cinema, e più in generale sui confini del senso del pudore. Un aspetto significativo riguarda per esempio la distanza che intercorre nell’utilizzo che della sfera sessuale viene effettuato nell’ambito delle pubblicità cinematografiche e di quelle relative ai normali beni di consumo. Due ambiti che, nonostante utilizzino canali comunicativi simili – con l’eccezione del mezzo televisivo, rigidamente contingentato anche per la pubblicità tout court, ma ancora più difficilmente accessibile per quella cinematografica – da questo punto di vista rimangono radicalmente distinti fino agli anni Settanta. Ciò avviene anche per via del fatto che si tratta di circuiti sostanzialmente separati e tra i quali non ci sono forme di osmosi, nonostante condividano gli stessi spazi di affissione o le stesse colonne su riviste e quotidiani. Il mercato del settore pubblicitario in Italia a partire dagli anni Cinquanta conoscerà infatti una rapida evoluzione, emancipandosi progressivamente dal modello dei reparti pubblicitari in-house per legarsi progressivamente a quello delle grandi agenzie di provenienza o di matrice anglosassone, e manterrà almeno fino agli anni Settanta una certa cautela relativamente ai richiami alla sfera sessuale. Un po’ perché, come scrive Alberoni, dovrà vincere la resistenza che le culture dominanti in Italia, quella marxista e cattolica, manifestano nei confronti della cultura del consumo; un po’ per via di un sistema di controllo interno e di codici di autodisciplina concordati ancora nella prima metà dei Sessanta. Quello cinematografico rimarrà invece un marketing imperfetto, estraneo a innovazioni come l’agenzia a servizio integrato o all’indagine di mercato. Nelle case distributrici la campagna viene infatti gestita internamente, in collaborazione con studi grafici specializzati o direttamente con un gruppo ristretto di pittori di altissima qualità, ma spesso senza che venga attuata un’attenta pianificazione delle proposte. Questo dipende anche dal fatto che sono molto pochi i distributori in possesso di un ufficio stampa fortemente strutturato: per esempio le grandi case italiane come Lux, Titanus, Cineriz, le filiali italiane degli studios di Hollywood, soggetti che tutti insieme, negli anni Sessanta, assorbono circa metà del mercato. Ma l’altra metà è frammentata tra soggetti di medie e piccole dimensioni, che hanno minori risorse da dedicare all’elaborazione del marketing dei propri prodotti. In un mercato così affollato, complice anche la difficoltà di elaborare una strategia unitaria da parte delle associazioni di categoria – anche se l’effettiva volontà di far rispettare un codice di autodisciplina pubblicitaria da parte di Anica e Agis, che pure daranno vita a un’apposita commissione, rimane dubbia – il ricorso sistematico a immagine erotiche sempre più suggestive diverrà un mezzo per attirare l’attenzione, anche e soprattutto per prodotti realizzati dalle case minori. Tutti questi elementi, insieme al già menzionato processo di progressiva erotizzazione del mezzo cinematografico negli anni Sessanta, contribuiscono a fare della sessualità un elemento consustanziale della promozione pubblicitaria dei film italiani.

Quale evoluzione caratterizza, nel nostro Paese, il rapporto con la sessualità in pellicole e materiali promozionali?
Si tratta di un rapporto che conosce una progressiva intensificazione, ma che emerge nel pubblico dibattito solo in occasione di particolari momenti di rottura, in particolare alla fine degli anni Cinquanta e nel periodo successivo a quel fenomeno che passa sotto la denominazione di “rivoluzione sessuale” e che ha tra i suoi effetti una generalizzata liberalizzazione del nudo femminile. Già a partire dall’immediato dopoguerra la rappresentazione del corpo delle star cinematografiche diviene un elemento cardine di materiali grafici quali manifesti e brochure, in contrapposizione a quanto avveniva nel periodo fascista, quando la promozione era incentrata prevalentemente sul volto della diva. La continua proliferazione di queste immagini, non limitata agli atri delle sale ma estesa nel tessuto urbano delle città italiane e pertanto percepita come particolarmente invasiva, nella seconda metà degli anni Cinquanta produce un’intensificazione dei conflitti tra l’industria cinematografica e alcuni settori dell’opinione pubblica cattolica, in particolare dopo l’abolizione da parte della Corte Costituzionale dell’articolo 113 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza, che imponeva un controllo preliminare della questura sul materiale destinato alle pubbliche affissioni nel 1956, e il concomitante arrivo nel contesto italiano di nuovi modelli femminili di provenienza estera, rappresentanti di una fisicità e sessualità più aggressive, quali Brigitte Bardot e Anita Ekberg. L’azione di questi settori del mondo cattolico si consuma nell’arco di un triennio. Essa coinvolge addirittura il pontefice Pio XII, che interviene pubblicamente a proposito dei manifesti di Miss spogliarello (En effeuillant la marguerite, Marc Allégret, 1956) e Poveri ma belli (Dino Risi, 1957). Ma anche e soprattutto l’associazionismo legato all’ACI, che dà il via a una campagna di denunce e ottiene il sequestro dei materiali promozionali dei due film sopra menzionati e di un terzo, Zarak Khan (Terence Young, 1966), la cui comunicazione pubblicitaria è incentrata su una valorizzazione delle forme di Anita Ekberg. Ai sequestri farà seguito un processo per oscenità ai danni dei responsabili degli uffici stampa delle compagnie distributrici e ad alcuni proprietari di sale cinematografiche che avevano esposto i cartelloni dei film in questione, e che si risolverà con miti condanne. Infine, la reazione alla sessualizzazione dei manifesti coinvolge alcuni esponenti dell’ala più conservatrice della Democrazia Cristiana, quali Luigi Gui e Luigi Migliori, principali estensori nel 1960 di un nuovo provvedimento legislativo che facilita i sequestri dei materiali pubblicitari. L’effetto principale di questa legge sarà un lungo susseguirsi di provvedimenti di sequestro di manifesti e di processi per oscenità, ampiamente documentati nei bollettini del Segretariato per la Moralità dell’Azione Cattolica, in seguito ai quali le magistrature saranno chiamate a rapportare i già vaghi concetti di senso del pudore e pubblica decenza previsti dagli articoli 725 e 528 del codice penale all’ipotetica sensibilità di una persona di età minore di diciotto anni, secondo quanto previsto dalla legge del 1960. Si apre una stagione di forte incertezza normativa, dal momento che il foro competente è quello della città dove avviene il sequestro e procure collocate in regioni diverse emettono sentenze differenti a partire da identici materiali pubblicitari, in ragione della diversa percezione dei limiti del pudore che caratterizza differenti settori della penisola. Ma anche all’interno di uno stesso contesto regionale si registrano difficoltà di interpretazione della normativa tra i diversi gradi di giudizio, proprio in virtù della peculiare richiesta di modellare un concetto di per sé elastico, come quello della pubblica decenza, alla presunta sensibilità media di un minore di anni diciotto. Sarà proprio questa indeterminatezza a fare della legge un deterrente solo parziale: le compagnie distributrici continueranno a far leva sul tema dell’erotismo andando eventualmente incontro a provvedimenti di sequestro che vengono percepiti come incidenti di percorso. Va peraltro sottolineato che i temi giudicati scabrosi sono spesso oggettivamente moderati anche per la larga maggioranza dell’opinione pubblica dell’epoca: per esempio figure femminili o situazioni di intimità tra figure maschili e femminili che possano anche solo suggerire l’eventualità di un amplesso.

Nei primi quindici anni dalla Liberazione, quindi, le immagini pubblicitarie dei film ottengono un’inedita attenzione, proprio per via del modo in cui impongono, in maniera più insistente dello stesso mezzo cinematografico e della pubblicità tout court coeva, un immaginario incentrato sulla progressiva esibizione del corpo femminile: non è un caso che i sequestri della fine degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta anticipino, seppure di poco, i sequestri di pellicole che si verificheranno a partire dalla riforma della censura cinematografica del 1962 la quale, depotenziando il sistema di controllo delle commissioni ministeriali, finirà per delegare questa funzione alle magistrature. Anche per effetto del maggiore controllo imposto sui materiali promozionali, la posizione di avanguardia delle pubblicità cinematografiche nel processo di sessualizzazione dei media italiani è destinata ad attenuarsi nel corso del decennio, per riemergere prepotentemente alla fine degli anni Sessanta in seguito a una serie di fattori concomitanti: prima di tutto per via dei contenuti degli stessi film reclamizzati, in un periodo in cui il processo di allargamento dei confini del mostrabile, in seguito alla rivoluzione sessuale, conosce un’ulteriore intensificazione. Poi, a causa del sempre maggiore ricorso alle inserzioni su quotidiani e settimanali, che godono di una protezione maggiore dalle ingerenze della magistratura rispetto alle affissioni. Infine, in seguito a una progressiva obsolescenza cui va incontro la stessa Legge Migliori del 1960: le sentenze emesse a partire dal 1965 attestano un mutamento nella sensibilità generale e una maggiore accettazione di quei motivi visivi (e in particolare della parziale nudità femminile) che nella prima metà del decennio erano stati all’origine di svariati provvedimenti di sequestro. Si innesca così un meccanismo all’interno del quale le case di distribuzione sono spinte alla creazione di messaggi sempre più espliciti e all’utilizzo di immagini sempre più spinte, incalzati dalla concorrenza in un panorama mediale all’interno del quale si muovono ormai prodotti quali le già menzionate riviste maschili e i fumetti erotici, ma anche un comparto pubblicitario esterno all’industria cinematografica che fino alla fine del decennio precedente aveva puntato soprattutto al pubblico delle famiglie e aveva manifestato una maggiore cautela rispetto al tema dell’erotismo, ma che inizia progressivamente a fare anch’esso leva sulla sfera della sessualità. Si tratta di un processo di accelerazione che nell’ultimo scorcio degli anni Settanta sfocerà direttamente nel circuito delle sale a luci rosse e nella parallela e progressiva disgregazione del circuito dell’esercizio, incalzato dal concomitante fenomeno dell’esplosione dell’emittenza privata.

Che rapporto intrattiene il marketing cinematografico con le culture visuali dell’epoca?
Si tratta qui di capire quali regimi scopici, ovvero quali tipi di relazioni tra determinati tipi di sguardo culturalmente situati, i media e/o le tecnologie utilizzate, e le immagini stesse, fossero pertinenti nell’ambito della produzione e del consumo di pubblicità cinematografiche tra la fine degli anni Quaranta e quella dei Settanta. Un importante punto di partenza è costituito da un recente studio di Francesco Pitassio relativo alla cultura visuale neorealista, all’interno del quale l’autore prende in esame i materiali promozionali dei film realizzati all’interno di questo fenomeno evidenziandone in particolare due aspetti. Il primo è quello della dimensione fortemente tradizionalista di quel tipo di figurazioni, dal momento che lo stile grafico di matrice pittorica, la tendenza alla riduzione dei contenuti del film a pochi aneddoti di matrice visiva, e i rapporti di genere che emergono dalla lettura di quelle immagini contrastano fortemente con la grafica industriale e pubblicitaria di quello stesso periodo, caratterizzate invece da una forte tendenza all’astrazione, da un’attenzione alla composizione che sovrasta la raffigurazione dei contenuti, dalla preferenza per le immagini fotografiche rispetto a quelle pittoriche. Al contrario, i manifesti cinematografici del periodo rimandano piuttosto all’universo dei media ad ampio consumo popolare, ai rotocalchi e in particolare al fotoromanzo, che proprio in quel periodo conosce una straordinaria diffusione. Il secondo aspetto riguarda invece la coesistenza, all’interno di una stessa cultura visuale, di regimi scopici differenti: quello appena delineato a proposito dei materiali pubblicitari contrasta nettamente con quello che è invece caratteristico del cinema neorealista, fondato sulla preminenza dell’immagine fotografica sulla messa in scena e del fatto bruto sulla narrazione.

Come si situa la cartellonistica del periodo considerato rispetto a questi assunti? Prima di tutto, prese nel loro insieme, le pubblicità cinematografiche manifestano una forte continuità con lo stile ancora fortemente illustrativo che le caratterizza a partire dalla fine degli anni Quaranta. Fino a quando i manifesti realizzati con tecnica pittorica non cederanno definitivamente il passo a quelli realizzati mediante la composizione fotografica, negli anni Ottanta, lo stile medio rimarrà quello di una pittura accademica che ripropone in maniera aneddotica alcuni contenuti, o alcune scene chiave, del film. In secondo luogo bisogna rilevare che questo approccio dominante non esaurisce l’intero scenario dei regimi scopici attivati: accade spesso che uno stesso film venga reclamizzato commissionando a pittori diversi più manifesti, la cui dimensione visiva viene modulata sulla base di analogie con i consumi mediali di riferimento dei diversi tipi di pubblico che si intende raggiungere. Un esempio possono essere i dipinti fortemente stilizzati, e debitori della cultura pittorica novecentesca, che vengono realizzati da Symeoni (Sandro Simeoni) per La dolce vita o da Manfredo (Manfredo Acerbo) per L’assoluto naturale (Mauro Bolognini, 1969), i quali presentano forti affinità non solo nella dimensione grafica delle immagini dipinte, ma anche in quella tattile suggerita dalla composizione in cui esse sono inserite, con le copertine di collane letterarie che hanno da tempo preso piede presso il pubblico medio-borghese, come gli Oscar Mondadori. Oppure le sperimentazioni effettuate sempre da Symeoni con la serigrafia a partire da Grazie zia (Salvatore Samperi, 1968), che rimandano piuttosto, fin nel lettering, alle copertine degli album pop-rock del decennio, un bene di consumo culturale in rapidissima diffusione. Ma anche prodotti privi di ambizioni autoriali e collocabili più stabilmente nell’ambito del genere erotico fanno spesso riferimento a regimi scopici caratteristici di un pubblico identificato da un’ampia disponibilità economica e da specifici consumi mediali: il manifesto realizzato ancora da Symeoni per Emanuelle Nera (Bitto Albertini, 1975) rimanda per la composizione, per il tratto asciutto, per l’uso delle luci e per la posizione del personaggio ritratto, che rivolge il proprio sguardo verso quello dello spettatore, all’iconografia delle riviste erotiche diffuse tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo. Come «Playmen» e la versione italiana di «Playboy», che avevano dedicato già alcuni servizi fotografici proprio alla protagonista del film Laura Gemser.

Ci sono infine dei generi cinematografici che manifestano interessanti forme di continuità sul piano delle modalità con cui forme di sguardo culturalmente situate articolano un discorso in rapporto ai generi sessuali. Se osserviamo i materiali promozionali della commedia, in particolare nelle sue declinazioni maggiormente rivolte a un pubblico popolare (per esempio il film rivista della metà degli anni Cinquanta, la commedia balneare dei primi anni del decennio successivo, e soprattutto la commedia erotica degli anni Settanta) possiamo individuare una comune strategia di teatralizzazione dello sguardo incentrata sulla valorizzazione del corpo femminile a beneficio di uno sguardo maschile. Nei manifesti realizzati per film come Poveri ma belli, Ferragosto in bikini (Marino Girolami, 1960) o La poliziotta (Steno, 1973) e i relativi seguiti, troviamo infatti una struttura standard nella quale una figura femminile, in genere parzialmente svestita e le cui forme vengono messe in risalto, viene osservata con aria concupiscente degli altri personaggi – di sesso maschile, completamente vestiti e poco prestanti – mentre lancia il proprio sguardo oltre i limiti dell’immagine, per andare a intercettare quello dell’osservatore. Un meccanismo di messa in scena del desiderio che fa leva su un reticolo intermediale che ha origine nell’ambito del varietà (e in alcune pubblicazioni a esso collegate, per esempio la rivista «Follie») e che sopravvive con sorprendente continuità, per andare a interessare anche le copertine del fumetto pornografico.

Che relazione instaurano i manifesti di contenuto erotico con lo spazio urbano e con il modo in cui esso viene esperito dai suoi abitanti?
Con questo tema passiamo dall’aspetto della rappresentazione della sessualità nelle pubblicità cinematografiche, a quello del ruolo che esse hanno nel processo di sessualizzazione della società. Si tratta di capire come delle immagini che circolavano nelle città affisse su muri, ponteggi, cavalletti mobili, vetture tramviarie o cabine telefoniche, contribuissero a condizionare l’esperienza urbana negli anni che vanno dalla ricostruzione alla fine degli anni Settanta. Anche le pubbliche affissioni, infatti, contribuiscono a quella che Lefebvre chiamava “produzione dello spazio”: in primo luogo condizionano l’aspetto materiale delle città, così come viene percepito dallo sguardo, per quanto distratto, di chi affronta quotidianamente il tragitto casa-lavoro, frequenta piazze o altri luoghi di ritrovo, entra ed esce dalle città nel proprio tempo libero. In secondo luogo, le affissioni sono il frutto di contrattazioni che avvengono tra diversi soggetti (tra gli uffici stampa delle case di distribuzione, le concessionarie che vendono loro gli spazi di affissione, le autorità municipali che li hanno messi a disposizione), contrattazioni che vanno a tracciare dei percorsi autonomi e sovrapponibili, nella topografia dello spazio urbano, rispetto a quelli tracciati dalla rete viaria, dal traffico pedonale, dai trasporti pubblici. In terzo luogo, queste affissioni sono delle rappresentazioni simboliche e come tali contribuiscono all’idea che i cittadini si formano dei propri spazi, del proprio corpo, della propria identità, e interagiscono con altre rappresentazioni simboliche creando delle vere e proprie reti di significati. Semplificando: un qualunque intervento architettonico condiziona il modo in cui viviamo, percepiamo un determinato spazio e gli diamo un significato. Che cosa succede allora a una società sottoposta a un forte controllo clericale, nella quale si riversano a intensità crescente immagini legate al suo medium di riferimento, le quali per di più presentano con sempre maggiore insistenza immagini legate alla sfera della sessualità? Quali sono le conseguenze nel modo in cui i suoi abitanti percepiscono il proprio corpo, quello altrui, i rapporti di genere, i limiti del visibile? Si tratta innanzitutto di capire quale porzione di questa società fosse interessata dalle proposte che arrivavano dalle pubblicità cinematografiche, quali percorsi di inclusione ed esclusione tracciassero sia i meccanismi regolatori del mercato pubblicitario, sia la dimensione simbolica propria dei contenuti dei messaggi, e anche e soprattutto, quali equilibri di potere (sociale, di genere, ecc.) sottendano queste forme di inclusione ed esclusione. Per indagare questa problematica, è necessario adottare una prospettiva che tenga in considerazione i diversi livelli ai quali viene attuata la promozione cinematografica. Le campagne, infatti, non vengono attuate contemporaneamente su tutto il territorio nazionale, ma privilegiano alcune aree allo scopo di ottimizzare le risorse. Prima di tutto bisogna ricordare che l’esercizio cinematografico, nel periodo qui analizzato, è ancora diviso in tre circuiti: le prime visioni, collocate prevalentemente nelle aree centrali delle città più importanti, le seconde visioni, distribuite nelle aree periferiche delle grandi città o nei medi e piccoli centri, infine le terze visioni, collocate nelle estreme periferie o nelle aree rurali. I film transitano da un circuito all’altro all’interno di un ciclo di sfruttamento che ha una durata addirittura quinquennale, tuttavia lo sforzo promozionale si concentra normalmente nelle due settimane che precedono l’uscita nelle prime visioni. Inoltre, vengono privilegiati i centri urbani da cui si dirama il processo di distribuzione delle pellicole, ovvero le 16 città capozona, che coincidono con alcuni capoluoghi di regione o con capoluoghi di provincia che costituiscono degli snodi strategici, come Padova e Messina. Ne consegue che gli abitanti di città più piccole saranno esposti più tardi a campagne pubblicitarie di larga scala diffuse nel tessuto urbano, oppure non lo saranno affatto e vedranno i materiali pubblicitari solo affissi alle pareti delle sale cinematografiche, quando il film sarà in programmazione nella loro zona. Più complesso è capire come funzionasse la circolazione dei materiali all’interno delle grandi città: quali quartieri fossero maggiormente interessati dalle affissioni (per esempio le aree residenziali, le prime periferie, o le strade di scorrimento), oppure quanti e quali manifesti, e di quali dimensioni, venissero realizzati per promuovere un determinato film in un determinato contesto. L’archivio della casa di distribuzione Cineriz, conservato presso la Biblioteca Chiarini del Centro Sperimentale di Cinematografia, ha un valore straordinario per rispondere a quesiti di questo tipo, per quanto l’indagine sia inevitabilmente ristretta a un’unica società e alla sola area di Roma: il fondo contiene infatti dei fascicoli che riportano le posizioni delle affissioni effettuate per promuovere ogni singolo film, e in certi casi anche una documentazione fotografica utilizzata dalle agenzie per testimoniare l’avvenuta collocazione dei manifesti nelle postazioni richieste. È così possibile sia ricostruire la topografia della diffusione delle immagini promozionali lungo tutto il periodo preso in esame, sia osservare le situazioni urbane in cui venivano inseriti i singoli manifesti. Emergono in particolare due aspetti: innanzitutto, la geografia delle inserzioni conosce una sua evoluzione (a partire dalla metà degli anni Sessanta, per esempio, le strade a scorrimento veloce diventano sempre più importanti, in virtù del processo di motorizzazione della società italiana), ma continuerà ancora a metà degli anni Settanta a escludere alcuni settori del tessuto urbano e di conseguenza gli strati sociali che vi abitano. Per esempio, nonostante il mercato delle prime visioni si allarghi progressivamente verso i quartieri posti nella periferia a sudest della capitale, la promozione cinematografica rimarrà dislocata prevalentemente nel centro città e nei quartieri di pregio a nord-nordovest. Questo processo di esclusione di alcuni settori del pubblico non riguarda soltanto la geografia della diffusione dei materiali, ma anche il referente privilegiato dei messaggi incentrati sulla sessualità. I grappoli di affissioni di largo formato presenti nelle maggiori piazze o nelle strade a scorrimento veloce presentano una forte varietà di approcci a questo tema, diversamente declinato mediante il ricorso all’ironia o al contrario attraverso un atteggiamento apertamente exploitative. Tuttavia, le proposte rimangono prevalentemente confinate nel perimetro di uno sguardo maschile eterosessuale. Abbiamo insomma a che fare con un tipo di comunicazione che, pur crescendo di intensità e pervasività, fatica a individuare mezzi per dialogare con altri tipi di pubblico rispetto a quello che percepisce come maggioritario.

Non è un caso che nella produzione discorsiva dedicata al fenomeno della sessualizzazione dei manifesti si trovino di frequente delle posizioni antagoniste, volte non solo a invocare un maggiore controllo sulla produzione e la circolazione di questo materiale, come nel caso delle associazioni di matrice cattolica di cui abbiamo già parlato, ma anche a riappropriarsi dello spazio urbano per intavolare una discussione in merito ai rapporti di genere e alle modalità di rappresentazione della sessualità. Risulta da questo punto di vista molto interessante la pratica, testimoniata da riviste come «effe» e diffusa presso alcuni circoli femministi, per esempio a Roma e a Padova, che consisteva nel dotare le militanti di stickers con su scritte frasi come «questo manifesto offende e sfrutta la donna» da applicare sopra immagini (in primo luogo cartelloni cinematografici) considerate sessiste. Una forma di protesta che aveva l’obiettivo aprire una discussione in merito al perimetro egemonico in cui era costretta la rappresentazione della sessualità propria non solo, ma soprattutto, delle pubblicità cinematografiche.

Come viene rappresentata la cartellonistica nel cinema del periodo?
I manifesti cinematografici sono un elemento che, a volte in modo più discreto, a volte in forme più sostanziali, fa di frequente la sua apparizione all’interno del cinema del periodo qui preso in esame. Ho deciso di concentrare la mia analisi su di un numero limitato di casi di studio all’interno dei quali, fosse anche in una sola sequenza, il tema della sessualità nelle pubblicità cinematografiche viene discorsivizzato in forma più o meno esplicita. Il punto di partenza quasi obbligatorio è la celebre sequenza del furto della bici in Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948). Il protagonista Antonio Ricci, che ha appena preso servizio come attacchino comunale, è impegnato a lisciare con po’ di compiacimento un manifesto che riproduce le fattezze di Rita Hayworth in Gilda (George Cukor, 1946): sarà proprio l’attenzione riservata al corpo della diva a distrarlo dalle attività del ladro e dei suoi complici, così che quando si accorgerà del furto sarà ormai troppo tardi. In questa sequenza, De Sica e Zavattini esprimono un evidente giudizio sul fascino illusorio esercitato dallo stardom hollywoodiano sulle classi popolari. Tuttavia, essa testimonia anche dell’effetto dirompente esercitato dalla campagna pubblicitaria di Gilda che per prima, come ricorda Gian Piero Brunetta, fu costruita intorno alle forme dell’attrice e anticipò quella tendenza a un passaggio dal divismo del volto a uno del corpo che avrebbe caratterizzato il cinema italiano del dopoguerra.

Alcuni film usciti tra la fine degli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta mettono invece in scena quei conflitti relativi alla censura dei manifesti che precedono e seguono il varo della Legge Migliori. Il moralista (Giorgio Bianchi, 1959) è costruito sulla satira di un membro di un’associazione di salvaguardia della moralità costruito sul modello dell’avvocato Agostino Greggi, che all’epoca aveva acquisito una notevole visibilità organizzando le proteste del Fronte della famiglia contro la sessualizzazione dei manifesti cinematografici. Non a caso il protagonista interpretato da Alberto Sordi, per il quale l’attività di moralizzatore si scoprirà essere solo una copertura, viene presentato proprio nell’atto di censurare una pubblicità e di istruire un gruppo di militanti su come raccogliere più firme al fine di sollecitare norme più severe per il controllo dei cartelloni. Ma il film del periodo che affronta in modo probabilmente più incisivo il tema dei cartelloni pubblicitari, pur non essendo incentrato sulla cartellonistica cinematografica in senso stretto, è probabilmente Le tentazioni del dottor Antonio, l’episodio diretto da Federico Fellini nel film collettivo Boccaccio 70 (1962): vi troviamo un grigio censore, interpretato da Peppino De Filippo, che viene turbato fino alla follia quando viene installato di fronte alla sua abitazione un gigantesco cartellone pubblicitario nel quale Anita Ekberg, ritratta in una posa lasciva, invita l’osservatore a bere più latte. Questo film compie una doppia operazione: da un lato, attraverso il corpo di Ekberg che diviene esso stesso il prodotto reclamizzato nel cartellone pubblicitario che la ritrae, mette metaforicamente in scena quella convertibilità tra corpo femminile e bene di consumo che si appresta a diventare un tòpos del cinema italiano degli anni Sessanta e in particolare della commedia all’italiana, dove la bellezza femminile diviene uno status symbol allo stesso titolo degli elettrodomestici o dell’automobile. In questo modo, l’episodio evidenzia quella funzione anticipatrice della cartellonistica, rispetto alle dinamiche di sessualizzazione del comparto mediale e allo stesso mezzo cinematografico, che abbiamo già evidenziato in precedenza. Dall’altro lato, in linea con quello che sarà, alla fine del decennio, il principale esito della liberazione sessuale, Le tentazioni del dottor Antonio identifica liberazione dell’eros ed esibizione del corpo femminile, marginalizzando o escludendo altre forme di desiderio: l’immagine del corpo di Ekberg diviene simbolo di uno slancio vitale universale, accettato con entusiasmo da tutti i personaggi salvo un ristretto gruppo di grotteschi censori, mentre il manifesto viene identificato quale canale principale per la sua diffusione, secondo una dinamica che si produrrà effettivamente nelle città italiane lungo gli anni Sessanta e il decennio successivo, a dispetto di provvedimenti restrittivi come la Legge Migliori.

Il primo episodio di un film diretto da Alberto Sordi e scritto da Rodolfo Sonego, Il comune senso del pudore (1976), ci presenta infine l’approdo di questo processo di sessualizzazione. Esso racconta delle peregrinazioni di una coppia di bassa estrazione sociale che, dopo aver smesso di frequentare le sale da ormai quattro anni, decide di festeggiare il proprio anniversario di nozze condendosi un pomeriggio al cinema. I due sono però completamente ignari del livello di sessualizzazione ormai raggiunto dal mezzo, e l’effetto comico viene spesso raggiunto per via della loro incapacità di leggere correttamente gli espliciti rimandi alla sessualità presenti nei film che si accingono a vedere, e quindi di adeguare le proprie aspettative di visione. Il viaggio dei coniugi attraverso il centro e la periferia di Roma alla vana ricerca di innocuo intrattenimento è costantemente puntellata dalla presenza di manifesti cinematografici, spesso fittizi, che assorbono completamente il paesaggio urbano trasformandolo in corridoi tappezzati da immagini esplicite e titoli allusivi, creando così uno spazio rispetto al quale i due si sentono completamente estranei. Quello che il film mette in scena è una duplice frattura che si consuma nel mercato cinematografico nazionale. Innanzitutto quel processo di esclusione di alcuni settori di pubblico dal circuito promozionale cui abbiamo accennato precedentemente, ma anche e soprattutto un deterioramento nel rapporto tra il cinema italiano e alcune componenti del suo pubblico, in un momento in cui la target audience sembrano essere esclusivamente i giovani spettatori di sesso maschile, e la domanda, spesso disattesa, di intrattenimento privo di connotazioni sessuali anche da parte di settori di pubblico non di area cattolica. Una difficoltà a rinegoziare le proprie proposte da parte di un cinema italiano che ha investito eccessivamente sull’erotismo, e che si troverà spiazzato rispetto a due fenomeni che caratterizzano l’ultimo scorcio degli anni Settanta, ovvero l’esplosione dell’emittenza privata e del circuito a luci rosse.

Francesco Di Chiara è Professore associato presso l’Università degli Studi eCampus di Novedrate (CO), dove insegna Storia del cinema, Teoria e prassi dei mezzi audiovisivi e Storia del cinema italiano. È membro della redazione delle riviste «Cinéma & Cie. International Film Studies Journal» e «L’avventura. International Journal of Italian Film and Media Landscapes». Di Chiara inoltre ha diretto l’unità di ricerca dell’Università eCampus nell’ambito del progetto PRIN 2015 “Comizi d’amore. Il cinema e la questione sessuale in Italia (1948-1978)”, coordinato dall’Università degli Studi di Milano (P.I.: Tomaso Subini).

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