“Ser Ciappelletto” di Giovanni Boccaccio: riassunto e parafrasi

Ser Cepparello da Prato è la prima novella del Decameron, il capolavoro di Giovanni Boccaccio, ed è narrata da Panfilo nel corso della prima giornata. La premessa del narratore, prima di accingersi a raccontare la storia, è che Dio è il creatore di tutte le cose, e obiettivo del racconto è proprio quello di evidenziare uno dei suoi miracoli: “Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l’uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui, il quale di tutte fu facitore le dea principio. Per che, dovendo io al vostro novellare, sì come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in Lui, sì come in cosa impermutabile, si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato.”.

Il ricco mercante Musciatto Franzesi, dovendosi recare in Toscana con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, su richiesta di Papa Bonifacio, desidera sistemare i propri affari in Francia, e in particolare in Borgogna, dove vi sono numerosi suoi creditori da cui deve riscuotere denaro. Si rivolge perciò a Ser Cepparello da Prato, anche detto Ser Ciappelletto.

Questi è un peccatore incallito: ama testimoniare il falso, prova piacere a creare malintesi tra le persone e a suscitare scontri, non si tira mai indietro di fronte a un omicidio ed è irascibile e incline alla bestemmia. Insomma, Ser Ciappelletto è “il piggiore uomo forse che mai nascesse”.

Trovandosi in precarie condizioni economiche, l’uomo accetta volentieri di lavorare per Musciatto Franzesi. Tuttavia, ben presto si ammala e continua a peggiorare, tanto che diventa evidente che si sta avvicinando alla morte. I due fratelli che lo stanno ospitando, usurai fiorentini, si trovano così combattuti e iniziano a discutere sul modo di liberarsi di Ser Ciappelletto, diventato per loro un grosso problema: infatti, da un lato liberarsene così su due piedi dopo averlo accolto nella propria casa sarebbe mal visto dalla gente, dall’altro, conoscendo bene di che genere di uomo perfido si tratti, immaginano che non si sarebbe mai confessato nemmeno in punto di morte e che quindi sarebbe stato privato di una degna sepoltura, mettendo in cattiva luce anche loro che lo avevano avuto in casa.

Ser Ciappelletto, udite queste considerazioni, chiede ai due usurai di andare a chiamare un santo frate per potersi confessare. I due si recano dunque presso un vicino convento a chiamare uno dei frati più conosciuti e rispettati della regione.

Giunto al capezzale del malato, il frate gli domanda quale fosse stata l’ultima volta in cui si era confessato, al che Ser Ciappelletto risponde che di norma era solito confessarsi almeno una volta alla settimana ma, da quando era iniziata la sua malattia, non aveva più purtroppo potuto farlo; prega dunque il religioso di interrogarlo come se non si fosse mai confessato. Il frate lo loda per questa sua assiduità e inizia a porgli domande sui tipi di peccati che possa aver commesso. A ciascuna domanda del frate, Ser Ciappelletto risponde con una menzogna, facendosi passare per l’uomo più probo e mansueto del mondo.

Quando gli viene chiesto se ha peccato di lussuria, Ser Ciappelletto risponde di essere vergine, suscitando così l’ammirazione del frate. Confessa poi come peccati di gola quelli di aver desiderato acqua durante i digiuni o di aver trovato talvolta il cibo più buono di quanto fosse opportuno, e ancora una volta il frate lo consola dicendo che si tratta di peccati di ben lieve entità, anzi, di comportamenti assolutamente normali. In quanto al peccato di avarizia, Ser Ciappelletto dichiara di aver sempre lavorato onestamente, diviso i propri guadagni con i poveri e utilizzato l’eredità ricevuta dal padre per fare cospicue donazioni alla chiesa.

Aggiunge di aver peccato d’ira verso quegli uomini che si mostravano poco timorosi di Dio e che non ne rispettavano i comandamenti. Nega di aver mai compiuto alcun tipo di violenza, di aver detto maldicenze o di aver truffato chicchessia.

Confessa infine alcuni suoi peccati, che consistono nell’aver mentito una volta a sua madre da bambino, nell’aver sputato per sbaglio in chiesa e, in un’occasione, nel non aver rispettato il riposo domenicale.

Naturalmente tutte queste menzogne convincono sempre di più il frate di trovarsi di fronte a un sant’uomo, invece che al più incallito dei peccatori. D’altra parte al religioso risulta inimmaginabile che un uomo così vicino alla morte possa mentire in confessione. Lo assolve quindi da ogni peccato, gli augura di guarire e gli promette che comunque, una volta morto, i frati del suo convento lo avrebbero con piacere seppellito nel proprio monastero.

Per tutta la durata della confessione i due fratelli usurai, nascosti dietro la porta ad origliare, si divertono ad ascoltare le esorbitanti bugie che Ser Ciappelletto propina al confessore, e si stupiscono della sua totale assenza di timore di Dio.

Trascorso poco tempo dalla confessione, Ser Ciappelletto muore e, come promesso dal frate, viene seppellito con tutti gli onori presso il monastero. La cerimonia funebre è seguita da tutti gli abitanti della città; il frate pronuncia un discorso così convincente sui presunti meriti del morto che tutti si convincono di aver di fronte un sant’uomo: “poi che fornito fu l’ufficio, con la maggior calca del mondo da tutti fu andato a baciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono indosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere: e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato”.

L’uomo che in vita era stato “bestemmiatore di Dio e de’ Santi” e che “a chiesa non usava giammai e i sacramenti di quella tutti come vil cosa con abominevoli parole scherniva” finisce così per essere noto a tutti come San Ciappelletto.

Silvia Maina

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