
Questo è, a mio avviso, uno degli effetti dell’ignoranza. Non un’ignoranza intesa come mancanza di titoli di studio o di nozioni, ma come chiusura mentale, incapacità di guardarsi intorno, comprendere, relazionarsi con gli altri, guardare avanti, individuare soluzioni razionali, valutare le conseguenze delle proprie azioni.
I dati Istat evidenziano come oltre il 60% degli italiani non legga: quali a Suo avviso le cause e quali le possibili soluzioni?
Gli italiani studiano poco: tra la popolazione adulta abbiamo la metà dei laureati e un terzo in meno dei diplomati in confronto alle altre nazioni europee o extra-europee paragonabili a noi. E spesso la lettura viene presentata come un’attività para-scolastica, che quindi viene abbandonata quando si esce dal circuito dell’istruzione.
Le origini di questo fenomeno sono remote e i ritardi si recuperano con grande fatica, malgrado i grandi progressi che sono stati registrati nei decenni passati, in particolare nella seconda metà del Novecento. Il nostro è sempre stato un paese di analfabeti: un secolo e mezzo fa, al momento dell’unificazione nazionale, tre quarti degli italiani non sapevano né leggere né scrivere e solo l’1% parlava comunemente italiano in casa. Senza pensare ai paesi anglosassoni, basta vedere che in un paese simile al nostro, come la Francia, non era così.
La soluzione è l’istruzione e lo scambio delle idee: non ce ne sono altre. Ma questo non vuol dire necessariamente promuovere la lettura nelle scuole.
Quali ragioni dare a chi non legge per farlo?
In molti casi chi non legge mi ricorda quei bambini che, messi per la prima volta di fronte a una pietanza che non hanno mai mangiato, dicono “non mi piace”. Quindi è molto importante il modo in cui si propone la lettura. L’esempio, i modelli positivi valgono di più dell’invito esplicito a fare una determinata cosa.
Ma è ovvio che se la lettura è un’attività faticosa – e chi ha scarsi strumenti culturali fa un’enorme fatica a leggere e a comprendere ciò che legge – si finisce con l’abbandonare il libro che si è cominciato a leggere.
È possibile educare alla lettura? Se sì, come?
Il contesto ambientale incide molto. Un bambino che cresce in una casa piena di libri, che vede i propri genitori leggere, acquista una familiarità con la lettura che probabilmente lo porterà a diventare egli stesso un lettore.
I pediatri sostengono con argomentazioni scientifiche che la lettura a voce alta da parte di un adulto e poi un accostamento precoce ai libri, alle parole, alle immagini, sono determinanti per il benessere del bambino.
Questo significa che è importante che la promozione della lettura inizi prima dell’età scolare, per non dare alla lettura una connotazione para-scolastica.
Il rapporto fra lettura e scuola è paradossale: l’istruzione è un presupposto per la diffusione della lettura ma, almeno secondo me, la scuola non è il canale migliore per veicolare la promozione della lettura.
La tecnologia fatta di tablet ed e-book reader insidia il libro cartaceo: quale futuro per i libri?
Non sono molto d’accordo con questa affermazione: il libro elettronico non è alternativo al libro cartaceo. In entrambi i casi si tratta di libri, con le stesse caratteristiche (l’organizzazione del testo in pagine, per esempio). Quindi non vedrei nulla di strano o di negativo in una migrazione dei lettori dal libro cartaceo al libro elettronico e nell’affiancamento di queste due forme di presentazione dei libri. Tra l’altro, i dati ci dicono che l’incremento di lettura di libri in digitale è assai modesto e non assorbe il calo della lettura su carta.
Quindi il fenomeno è ben più grave: è la lettura di libri (elettronici e cartacei) ad avere meno appeal, a scapito di altre forme di lettura e scrittura più frammentata, e a scapito di uno spostamento dalla parola scritta alle immagini.
Nell’ultimo decennio la connessione in mobilità ha riempito il nostro tempo e privilegia forme di comunicazione più veloce e meno impegnativa, come quelle che passano attraverso i social network. Si ha la sensazione di non avere il tempo per dedicarsi a un testo lungo, argomentato, che descriva fin nelle sfumature le diverse situazioni e le ragioni profonde delle cose. Vale per il romanzo e per il saggio scientifico.
Meglio i pochi caratteri di un tweet o due minuti di un video, anche perché guardare è più facile che leggere.
Quali provvedimenti dovrebbe adottare a Suo avviso la politica per favorire la diffusione dei libri e della lettura?
Da tempo si discute sulla necessità di una iniziativa di legge che sostenga la lettura e le attività di promozione della lettura. Infatti, pur nella consapevolezza che la lettura e i libri non si promuovano per legge, ritengo che alcuni provvedimenti normativi potrebbero contribuire a creare le condizioni per far accostare un maggior numero di cittadini alla lettura.
Penso, per esempio, a uno sgravio fiscale per l’acquisto libri: così come posso scaricare dalle tasse il cambio degli infissi alle finestre, l’iscrizione a una palestra o l’acquisto di una lavatrice che inquini meno, non vedo perché non si possa incentivare l’acquisto di libri, ma non solo fra i giovani – come ha fatto il Governo Renzi con la App dedicata ai diciottenni – ma per tutti.
Penso anche a misure che sostengano le piccole librerie indipendenti, per esempio quelle esistenti nelle periferie urbane o nei comuni con meno di 20.000 abitanti, per garantire un servizio di prossimità, e cioè per consentire ai cittadini di incontrare i libri sul proprio cammino.
Bisognerebbe anche incrementare i bilanci delle biblioteche e istituire finalmente il ruolo del bibliotecario scolastico – un professionista, pienamente docente e pienamente bibliotecario – in modo che sia immaginabile una didattica a contatto con le fonti e con i documenti, un modo diverso di accostarsi al sapere, che non passi solo attraverso la didattica frontale erogata dagli insegnanti. Non è credibile che la scuola dica continuamente che la lettura è importante e poi la confini nel tempo libero, nel pomeriggio o durante le vacanze estive, senza trovare uno spazio e un ruolo per i libri, come vera e propria pratica educativa. La biblioteca scolastica dovrebbe essere uno degli ambienti in cui si articola un edifico scolastico, come le aule, la palestra, il laboratorio informatico, il gabinetto di chimica, e così via.
Insomma, la politica potrebbe, anzi dovrebbe, fare molto di più: servirebbe un disegno organico e unitario, da realizzare gradualmente, se non ci sono le risorse per fare tutto subito.
Quale ruolo possono rivestire le biblioteche all’interno di un ecosistema informativo sempre più dominato dal web?
Vale lo stesso discorso che facevo prima a proposito della rete.
Uno dei problemi del nostro tempo è la perdita di complessità, o meglio la difficoltà nel cogliere la complessità.
Il libro, sia quello di fiction che quello di studio, è uno strumento della complessità e ha bisogno del suo spazio: servono parecchie pagine per narrare una storia, ambientarla, descrivere il carattere dei personaggi, far maturare le situazioni; allo stesso modo, un saggio scientifico deve presentare lo stato delle conoscenze su un determinato problema, descriverne i diversi aspetti, scandagliare le fonti di una ricerca, avanzare una ipotesi e svilupparla, proporre una chiave interpretativa. Il libro ha bisogno anche dei suoi tempi: per leggere un libro occorre lo stesso tempo che si impiegava due secoli fa. Mi rendo conto che tutto ciò può sembrare incompatibile con gli stili di vita contemporanei.
La biblioteca non è solo il luogo dei libri, è anche il servizio in cui ci si forma a questo modo di accostarsi ai saperi e utilizzarli.
Oggi il web ci propone un’alternativa: se vuoi “sapere qualcosa”, ti rivolgi a un motore di ricerca e ottieni, in tempi rapidissimi e in grande quantità, le risposte. Ma si tratta di frammenti di sapere, e spetta a noi avere la capacità di stabilire le relazioni tra questi frammenti, metterli insieme per costruire nuova conoscenza. Il rischio è che ci si abitui a credere che la risposta è in quei frammenti, che non c’è bisogno di altro, che non sia necessario nessuno sforzo o capacità di elaborazione.
Le biblioteche sono la palestra in cui far fare questa ginnastica ai muscoli del nostro cervello.
In che modo le biblioteche possono oggi riaffermare la loro vocazione di conservazione e diffusione della conoscenza?
Accanto a quello che ho appena detto, e che ritengo sia il loro ruolo principale, la domanda mi indice a soffermarmi sul concetto di “conservazione”: oggi siamo appiattiti sulle novità, come se tutto ciò che c’era prima non servisse più o addirittura non esistesse più. Il sapere si produce non solo per sostituzione – il nuovo al posto del vecchio – ma anche per accumulazione, specie in ambito umanistico.
Nella domanda, poi, si fa riferimento anche alla “diffusione”: non dimentichiamo che la biblioteca è un servizio pubblico e gratuito, una infrastruttura del sapere di una comunità, che svolge una funzione fondamentale, perché spesso è l’unico presidio culturale nei territori afflitti da povertà educativa – penso in particolare alle periferie urbane e a tanti piccoli centri -.
Le biblioteche sono oggi chiamate a ripensare sé stesse: quali sono le principali sfide alle quali rispondere?
Semplice, almeno a dirsi.
Per poter esercitare un ruolo incisivo nella società italiana ed uscire dalla condizione di marginalità in cui sono attualmente relegate, le biblioteche debbono essere belle e confortevoli, dotate di personale qualificato, rispettare ampi orari di apertura, essere flessibili nell’accesso, aggiornate nelle loro collezioni, essere intimamente “multimediali” e cioè offrire per un uso combinato forme diverse di documenti; debbono fare sistema con le altre istituzioni culturali e formative. Il tutto allo scopo di stimolare la curiosità e la creatività, insinuare il dubbio, accendere gli interessi.
Cosa manca per avere biblioteche “amichevoli” e “socialmente utili” di questo tipo? Manca una “cultura della biblioteca”, tra gli amministratori e tra i cittadini.