
Quando si affrontano temi come il testo espanso, affiora subito in controluce una domanda: se e fino a che punto si tratti di un fenomeno inedito, caratteristico dell’epoca contemporanea, o se invece ci troviamo di fronte a un fenomeno che è sempre esistito e che accompagna la pratica letteraria fin dalle origini, pur tenendo conto dei cambiamenti che nei secoli hanno investito lo statuto sociale della letteratura. Non è facile rispondere. Da un lato, basta leggere uno studio importante come Palinsesti, pubblicato da Gérard Genette nel 1982, per rendersi conto che pratiche di espansione testuale, nelle forme più diverse, sono sempre esistite. La letteratura, sembrerebbe, ha sempre avuto questa capacità, o forse questa vocazione, di generare altra letteratura, letteratura “derivativa”, o di essere trasposta in altri linguaggi, in altri contesti, attraverso le molteplici forme di adattamento e/o di riscrittura. Non solo, ma in alcuni periodi storici, l’imitazione, la ripetizione di modelli preesistenti ha costituito la norma, non l’eccezione: come molti prima di me hanno sottolineato, l’idea di originalità come valore è un’acquisizione piuttosto recente, che si afferma pienamente con il romanticismo. Dall’altro, nella cultura popolare o seriale emersa a metà dell’Ottocento con l’avvento del capitalismo moderno, è sempre stato così, e nessuno se ne stupisce: espandere un testo significa capitalizzare sul già noto, sulle aspettative dei lettori, incrementare i ritmi di produzione, poter contare su formule e prodotti già ampiamente collaudati, riducendo così i rischi di investimento (anche se vale la pena di ricordare che talvolta l’operazione può anche fallire). Cosa è cambiato dunque oggi, e perché si sente tanto parlare di molteplicità testuale, di continuazioni, adattamenti, sequel, prequel ecc.? Ancora una volta, non è facile fornire risposte certe. C’e sicuramente un aumento quantitativo di tali pratiche, e una loro maggiore visibilità. Ciò è dovuto a trasformazioni tecnologiche, che hanno inciso profondamente sulla circolazione, ricezione, condivisione dei contenuti, e all’indebolimento se non al crollo delle barriere tra letteratura “alta” e letteratura (o cultura) popolare, che ha portato a un rimescolamento e un’ibridazione di pratiche tra questi due domini un tempo molto più distinti di quanto non siano ora. Comunque, se dietro alle pratiche di espansione c’è senz’altro un “principio del profitto”, il profitto non spiega tutto. Come ho sottolineato nel mio libro, entrano in gioco molte altre variabili, legate ai desideri dei lettori, alla relazione affettiva che si stabilisce con i personaggi e i mondi finzionali (per cui non li si vuole abbandonare), al rapporto di un autore con un patrimonio narrativo e immaginario consolidato o tradizionale; e poi fattori come la memoria, la nostalgia, il piacere che scaturisce dal riconoscimento del già noto, la difficoltà di venire a patti con la fine (di un testo, di una storia, di una configurazione di personaggi e delle loro vite…). Insomma, la “cultura del riciclo”, come spesso oggi viene definita l’esperienza del testo espanso, è un fatto molto complesso che va osservato da diverse prospettive: senza liquidarla in termini apocalittici come morte della creatività, pura ripetizione, trionfo dell’industria culturale nei suoi aspetti più deleteri e di una logica del consumo completamente mercificata a cui la letteratura si piega, ma anche senza esaltarla con un atteggiamento a-critico.
Quali sono le caratteristiche della continuazione testuale?
Anche qui rispondere è tutt’altro che facile, perché le diverse pratiche di “derivazione” testuale non si presentano mai isolate ma immancabilmente intrecciate o ibridate le une con le altre: continuare significa sempre anche riscrivere, contro-narrare, adattare, e così via. Per fare un esempio, rispetto al romanzo La dismissione di Ermanno Rea da cui è tratto, il film di Gianni Amelio La stella che non c’è è insieme un adattamento cinematografico, un adattamento transculturale (la vicenda originariamente ambientata a Napoli viene spostata in Cina, con voluti effetti di spaesamento), e un sequel.
Credo tuttavia che la continuazione abbia alcuni tratti che la caratterizzano e che consentono di isolarla, almeno sul piano teorico. Quello fondamentale sta nel suo essere una forma di espansione testuale fondata in prima istanza sulla temporalità narrativa, sul flusso del tempo. Se, semplificando un po’, possiamo dire che un racconto narra o rappresenta una serie di eventi legati l’uno all’altro da rapporti temporali (e causali), la continuazione si caratterizza per il fatto di espandere il testo-fonte aggiungendo altri eventi, nuovi eventi temporalmente legati a quelli che il testo-fonte narra o rappresenta. L’innestarsi sul tempo della storia narrata, aumentandolo, espandendolo secondo diverse direzioni possibili, costituisce il minimo denominatore comune a qualunque continuazione, e differenzia la continuazione da altre pratiche: la riscrittura, il remake, l’adattamento, il reimpiego di temi e di soggetti. Del resto, il primo significato del verbo continuare è proprio “prolungare o durare nel tempo”.
Questa è dunque la definizione che io propongo, anche se, ripeto, i confini sono mobili, spesso controversi, e di tale labilità bisogna essere sempre consapevoli. La dimensione temporale propria alla continuazione è anche ciò che le conferisce gran parte del suo fascino: il passato, il futuro, l’accaduto, il possibile sono infatti questioni che hanno grande presa sul nostro immaginario perché il tempo, il rapporto con il tempo, è un aspetto cruciale della nostra vita.
Quali forme assume la continuazione?
Le forme che assume la continuazione sono determinate proprio dai modi comuni di pensare o di esperire o di concepire il tempo, e possono essere comprese a partire dai più basilari avverbi temporali di cui molte lingue dispongono e che mettono in relazione diverse sequenze di eventi: prima, dopo, durante, mentre. La forma di continuazione per eccellenza è il sequel, vale a dire la continuazione che prolunga la storia in avanti: orientata sul futuro, racconta quel che accade dopo la fine di una storia, ossia dopo quella che nel testo-fonte è identificata come la conclusione, la cessazione, essa stessa nozione molto problematica, perché un finale può essere considerato arbitrario, affrettato, insoddisfacente, sospeso, e perché ci sono testi costruiti proprio per non finire, o per allontanare la fine quanto più possibile (si pensi solo al roman feuilleton che può prolungarsi per centinaia di puntate).
Questa comunque è la forma base, se vogliamo chiamarla così: la più nota, la più praticata, come dimostrano innumerevoli esempi (cito a caso: Che pasticcio Bridget Jones, Il padrino parte II, Vent’anni dopo, Pemberley. Il seguito di “Orgoglio e pregiudizio”); la forma che ci viene subito in mente non appena sentiamo la parola continuazione, anche se bisogna ricordare che l’ordine di produzione non è sempre parallelo e sovrapponibile all’ordine della cronologia interna (il caso di Guerre stellari è emblematico da questo punto di vista, qualunque appassionato lo sa bene).
Ma Genette ha parlato giustamente di “continuazione analettica” per designare quelle forme, più contraddittorie, per certi versi paradossali perché la freccia del tempo è orientata simultaneamente in due direzioni opposte, che continuano una storia procedendo però all’indietro, risalendo con un movimento controcorrente verso le origini: è appunto il prequel, che racconta quanto è accaduto o potrebbe essere accaduto prima dell’inizio, che ricostruisce una possibile archeologia della storia narrata nel testo-fonte. Anche questa è una forma piuttosto familiare, sebbene forse meno codificata e istituzionalizzata del sequel.
Infine, ci sono forme di continuazione più difficili da afferrare, da censire e da concettualizzare, in cui l’espansione segue vettori temporali paralleli o laterali rispetto alla storia narrata nel testo-fonte, in cui vengono colmate lacune (tutto ciò che nel testo-fonte è dato come accaduto ma in maniera implicita, ossia senza essere menzionato o rappresentato, per esempio) o esplorati percorsi alternativi. È legittimo classificarle come continuazioni? Io credo di sì, perché anche in questi casi il testo viene espanso moltiplicando gli eventi, dunque aggiungendo tempo raccontato, che mi pare essere il principio fondamentale della continuazione.
Quali elementi caratterizzano il sequel ed il prequel?
Il sequel e il prequel sono speculari: se uno va verso il futuro, l’altro va verso il passato. Non è un caso che nel suo bellissimo film a cui ho già accennato, Il padrino parte II, Coppola li abbia messi insieme, costruendo un’appassionante struttura intercalata, in cui la freccia del tempo va di volta in volta in avanti e all’indietro rispetto alla sequenza temporale narrata ne Il padrino (diventato poi Il padrino parte I, perché la continuazione trasforma lo statuto del testo-fonte, direi che è anzi uno dei suoi effetti più clamorosi).
Il sequel è senza dubbio una forma più libera, almeno in linea di principio, perché il futuro si presenta come qualcosa di aperto. In realtà, però, non è proprio così. Condurre i personaggi finzionali avanti nel tempo solleva infatti una serie di problemi molto spinosi, come ho cercato di mostrare. Il tempo consuma, deteriora, devasta, mentre noi stabiliamo forti rapporti affettivi con una certa immagine dei personaggi che si fissa dentro di noi, a cui rimaniamo per così dire attaccati. Sottoporre i personaggi all’azione del tempo, insomma, è un’operazione difficile e pericolosa: o si fa in modo che i personaggi non mutino, non si deteriorino, giocando con il tempo, o introducendo un falso tempo, un tempo della ripetizione e non dell’evoluzione (è – secondo Umberto Eco – quanto accade con i supereroi, che non crescono, non invecchiano, pur saltando da un’avventura all’altra); oppure si rischia di disintegrare proprio quell’immagine – una specie di eterna giovinezza simbolica – a cui lettori o spettatori sono così legati. L’accenno ai supereroi, inoltre, suggerisce quanto sia difficile distinguere il sequel dalla serie, da ciò che potremmo definire “continuazione programmata”. Questo è uno degli aspetti che ho cercato di mettere a fuoco nel libro.
Se il sequel riapre quanto sembrava concluso, e contesta il diritto del racconto a terminare, il prequel mette in questione l’inizio. Narrare quel che è accaduto prima, infatti, significa chiedersi: perché cominciare proprio da lì? L’inizio, la causa prima come detonatore assoluto, non esiste se non nelle storie della creazione del mondo. Di conseguenza, precedentemente a una serie di eventi, ci sono sempre altri eventi, o possono sempre essere immaginati altri eventi, e qualunque incipit narrativo può essere considerato del tutto arbitrario. Diversamente dal sequel, però, il prequel ha una fine già scritta (nel senso che se il prequel non arrivasse più o meno dove il testo-fonte comincia, non sarebbe più un prequel). E questo costituisce un vincolo notevole. Le funzioni di un prequel sono innumerevoli, e rispondono a domande quali curiosità, gusto ludico per la narrazione e l’affabulazione, un senso del passato come luogo in cui sono custoditi segreti (si tratta di un topos classico, molto frequente nei generi narrativi). Io ho trovato particolarmente interessante la sua funzione ermeneutica: il passato non è semplicemente un ricettacolo di segreti ma qualcosa che può spiegare il presente; il “prima” può fornire chiavi per capire quanto è accaduto “dopo”, rispondendo alla domanda: perché?
Cos’è il paraquel?
Sotto la sigla paraquel ho raggruppato le continuazioni parallele (i due termini, almeno nell’uso che io ne faccio, sono sinonimi). Si tratta, come ho già detto, della forma più difficile da afferrare e da classificare, sia perché non ancora codificata, concettualizzata, sia perché non corrisponde a un format industriale già istituzionalizzato (come è invece il caso del sequel e del prequel), sia, infine, perché molto differenziata al suo interno, articolata in tante pratiche diverse, al punto da spingere a chiedersi se quella sigla comune sia legittima e soprattutto utile.
La definizione che ne ho fornito è ancora una volta centrata sulla temporalità narrativa. Due tratti caratterizzano il paraquel: il fatto di narrare eventi simultanei a quelli narrati nel testo-fonte, nella storia-madre, e l’allontanarsi dalle soglie del racconto (l’inizio e la fine) per lavorare invece sul centro o mezzo, ossia sul tempo che si estende tra le soglie, dopo l’inizio e prima della fine. La proliferazione, la dilatazione, l’aggiunta di eventi, si innesta lì. Questo centro o corpo del racconto è il luogo per eccellenza della dinamica narrativa. Se ci poniamo nella prospettiva della produzione, è il luogo del movimento, delle peripezie, degli equivoci, delle complicazioni. Se ci poniamo nella prospettiva della ricezione, vi vedremo invece il luogo dell’attesa, del suspense, della curiosità, delle previsioni, delle aspettative confermate o disattese. In un caso come nell’altro, è lì che si catalizza il desiderio. È insomma lo spazio dilatorio del racconto, per riprendere una celebre definizione di Roland Barthes.
Il paraquel o continuazione parallela, dunque, interviene su questo spazio (che è poi un tempo) dilatorio, operando in vari modi. Raccontando la stessa vicenda da diversi punti di vista, raccontando cosa faceva il personaggio X mentre il personaggio Y…, conferendo un ruolo più attivo e più importante a personaggi in origine minori, oppure – e questo è senz’altro il punto più controverso – raccontando eventi che nel testo-fonte sarebbero potuti accadere ma che non sono accaduti, imprimendo dunque alla storia una svolta diversa rispetto al suo andamento originario. Vale la pena di notare che tali pratiche possono essere isolate solo in linea di principio, poiché nei fatti si presentano insieme, e questa è un’altra ragione per raccoglierle sotto una sigla comune.
Il paraquel è oggi una forma di continuazione molto diffusa, imparentata per molti versi con ciò che va sotto il nome di spin-off, sebbene più ampia, e praticata soprattutto nell’ambito della fan fiction, ambito molto interessante da studiare, dove vengono prodotti continuamente migliaia di testi, a getto continuo, se così posso dire. L’ho analizzata a partire da un corpus ben definito, che ho già citato all’inizio, le riscritture del fortunatissimo romanzo di Jane Austen Orgoglio e pregiudizio, e ho cercato di vederla all’opera sia in testi letterariamente più ambiziosi, come Longbourn House di Jo Baker (non a caso pubblicato in Italia dall’editore Einaudi), sia appunto nella fan fiction, che è invece un tipo di produzione popolare e seriale. Qui il paraquel solleva molte questioni di grande interesse. Come si regola la distanza da, e la prossimità con, il testo-fonte, ossia la dialettica tra differenza e ripetizione? Come raccontare sempre la stessa storia, facendone tuttavia un’altrastoria? Perché tanta fascinazione per gli sviluppi alternativi (cosa sarebbe successo se fosse accaduto questo invece di quello, se x al posto di y…), soprattutto quando quelle alternative, pressoché infinite, conducono sempre alla stessa conclusione, come succede nelle variazioni di Orgoglio e pregiudizio, dove la vicenda si conclude comunque, nel novantanove per cento dei casi, con il matrimonio tra Darcy ed Elizabeth Bennet? Che tipo di tensione o di suspense genera nei lettori sapere dove la storia approderà e invece essere incerti su come giungerà a quell’esito già noto, poiché si tratta di una vera e propria convenzione raramente violata? Queste sono alcune delle domande a cui ho tentato di rispondere nel mio libro.