“Senza aprir bocca. Il dizionario dei gesti” di Lilia Angela Cavallo

Dott.ssa Lilia Angela Cavallo, Lei è autrice del libro Senza aprir bocca. Il dizionario dei gesti edito da iacobelli: quale importanza rivestono i gesti nella comunicazione interpersonale?
Senza aprir bocca. Il dizionario dei gesti, Lilia Angela CavalloComunicare è un concetto antico, importante, vitale per tutte e tutti; è già di suo rivolgersi a qualcun* di altr* da noi, uscire da noi e per questo crescere. È un pensiero in cui si rischia di perdersi perché ogni cosa che facciamo in fondo è comunicazione, da quello che indossiamo a cosa ci piace fare, mangiare, guardare, ascoltare: comunichiamo in modo diretto ma anche e soprattutto indirettamente – e questo infondo ci permette di risparmiare tempo da una parte, nel parlare di noi al mondo, e dall’altra forse ce lo toglie, nel cercare di capire l’indiretto di chi ci circonda, ci semplifichiamo e ci complichiamo tutto, ma in qualche modo dobbiamo pur intrattenerci.

I gesti invece hanno la bellezza visiva del movimento: la teatralità di un gesto, di un corpo che muovendosi compone dei segnali e si fa linguaggio. I movimenti sempre uguali di un lavoro manuale possono essere, sono, belli da vedere, mi hanno sempre affascinata, mi sono sempre soffermata su alcune cose semplici e comuni che variano da chi li mette in scena, tagliare il pane, allacciarsi una scarpa, scrivere con un pennarello: sono una danza che coinvolge la singola persona e anche più persone, spesso incoscienti di quella danza. Ma questi gesti non comunicano direttamente qualcosa.

I gesti nella comunicazione interpersonale sono un connubio di queste due cose: una comunicazione visiva a supporto o in sostituzione di una parola, di un intero dialogo, di un’emozione o un sentimento, più o meno nobile; un messaggio che si aggrappa a un qualcosa di tangibile quale una mano in una determinata posizione. E siamo bravissimi e bravissime ad usarla, la comunicazione visiva fatta di gesti. Siamo anzi, ci dicono essere noi incapaci a non usarla, a parlare senza il corpo, senza le mani. In altre parole, loro, i gesti, aiutano noi che parliamo più di quanto non aiutino l’altr* a capire quello che diciamo.

Ciò non vuol dire che essi siano chiari e chiarificatori, ma li usiamo ugualmente, come ugualmente cerchiamo di comunicare sempre. Sono un ulteriore e fondamentale strumento nelle nostre mani (in tutti i sensi).

Il Suo dizionario ne cataloga 329: quali sono, a Suo avviso, i più curiosi?
I gesti che preferisco sono quelli a cui sono attribuiti più significati. Quella mano che posizionata in un certo modo, vista ferma e immobile, ha in sé un quantitativo di gesti potenziali, per poi stupirci lungo i tre assi e fare spostamenti e volteggi tali da dire una cosa sola. Ma al punto di partenza ha in sé quel significato e il suo esatto contrario.

Mi piace molto prendere quei 329 gesti e spostarli nella successione, cambiare l’ordine con cui sono stati raccontati, per creare molteplici storie e flussi di coscienza. Mi piace come si legano uno all’altro. Ancora, mi piace soffermarmi su un solo concetto e vederlo espresso in molte forme come può essere il semplice “Ciao”: ciascun ciao con il suo gesto e la sua sfumatura di significato ma volenteroso di trasmettere quell’unico significato di partenza.

I gesti più curiosi per me sono sicuramente quelli che ci vengono rivolti e, sbigottiti, non conosciamo (e non facciamo); sono curiosi perché rimaniamo sì un po’ spiazzati, ma è bello come in qualche modo riusciamo a capirne il senso, grazie al contesto, all’espressione con cui vengono fatti, a quanto detto prima o dopo: si fanno capire. Rappresentano a pieno la forza del gesto.

Quali sono i gesti più diffusi e comuni internazionalmente?
“I gesti. Origini e diffusione” di Desmond Morris è uno dei testi che mi ha accompagnata nella ricerca. Come dice il titolo, il suo lavoro vuole capire, analizzare e riportare quanto sia diffuso e distribuito un gesto e da dove parte, qual è la sua origine presunta. È interessante perché la sua è una vera e propria indagine sul campo, con interviste tra la gente, per strada: si mostra il gesto, si chiede come questo venga interpretato, cosa si coglie, cosa vuol dire per quella persona-campione. Una ricerca durata 3 anni, 25 Paesi toccati in cui si parlavano 15 lingue diverse, 40 località visitate. Sembrano pochissime, ma è già un lavoro enorme se pensiamo che non abbiamo uno studio “unico” che riporti sui gesti tutto quello che si conosce invece per le parole (o per la stragrande maggioranza di esse). Morris vuole arrivare a una “geografia gestuale” teorizzata e non solo conosciuta da un sapere collettivo approssimativo. La curiosità che ha spinto invece me nella raccolta dei gesti in questo “dizionario” è il tentativo di volerli catalogare e fissare: avere un punto di partenza da cui proseguire, come fossero schede in un raccoglitore ad anelli sempre aggiornabile. A quel punto ogni gesto può essere preso come capitolo a sé, spiegato nell’origine e nei molteplici significati, non solo nel principale e più diffuso, perché sarebbe bello vedere come cambia il suo significato spostandosi in più regioni, nazioni, continenti e così via, come i livelli da superare di una prova, arrivando a scoprire il gesto più universale di tutti, quello più intuitivo, più spontaneo, più diffuso.

Ragionandoci ora, credo che i gesti di saluto siano quelli più diffusi e comuni internazionalmente: tutti e tutte ci salutiamo in qualsiasi parte del mondo e il modo con cui l’altr* lo fa grossomodo può essere riconducibile a come lo faccio anche io. I gesti che invece si calano nella vita quotidiana, quelli che sono quindi meno astratti, si strutturano molto diversamente da popolo a popolo, come se cercassero di trovare la loro personale originalità. E questo possiamo attribuirlo alle differenze culturali, tornando quindi alla “geografia gestuale” di cui prima.

Come variano da cultura a cultura i gesti?
“Il linguaggio dei gesti” di Theodore Brun è invece molto adatto per comprendere come si possa fraintendere un gesto se ci troviamo in un contesto diverso dal nostro. Fuori-casa, tutto quello che sappiamo e che spontaneamente mettiamo in atto, magari cercando di facilitare una comunicazione già difficile di per sé poiché in una lingua non nostra, deve essere filtrato o addirittura messo in discussione. Se diamo per scontato che un nostro gesto valga ovunque mantenendosi saldo nel suo significato, allora non siamo aperti alla conoscenza dell’altr*, pecchiamo di superbia, conscia o inconscia che sia.

La ricerca di un gesto universale che dicevo pocanzi, non è detto che porti a qualcosa (non è detto che lo scopo di quella ricerca sia arrivare a quel risultato). Sarebbe impensabile appiattire l’enorme differenza culturale che ci caratterizza come popoli per estrapolare un gesto comune, universale, simbolo di concetto comunemente compreso. Infatti quello che è spontaneo ed elementare per noi può non esserlo per altri e altre proprio perché abbiamo diversi modi di essere “elementari e spontanei”. Si cerca nel fare dei bambini e delle bambine appena nate un linguaggio che possa essere spontaneo ed elementare, poiché privo di retaggi culturali, ma al tempo stesso comunicando con adulti attorno a loro non sono completamente libere e liberi di raggiungerlo.

Quindi il variare del gesto da cultura a cultura è sia il variare del significante che del significato, mantenendo costante o uno o l’altro. Esempio pratico: se per noi la famosa mano chiusa “a cucchiaio” e dondolante sul posto, simbolo della gestualità italiana o meglio ancora, dell’italianità, serve ad indicare una domanda tipo “Che vuoi? Ma che stai dicendo?” e, più in generale rappresenta il disaccordo netto e scocciato con l’interlocutore o interlocutrice, invece in Libano è usata per dire: “Aspetta”. Aspetta? Ci pare possibile che con quella mano in quel modo possiamo dire a qualcun* di attendere! Ma pensiamo anche a loro, libanesi, che guardano noi parlare e interrogarci su qualsiasi cosa ma dicendo praticamente all’altr* di aspettare.

Come quindi i gesti variano da cultura a cultura? Variano bene, sorprendentemente, tanto da meritare approfondimenti e libri dedicati a loro; tanto da volerli prendere come punto di partenza per confrontare culture ed evoluzioni culturali, usanze, esperienze dei popoli, della lingua parlata e quindi di quella gestuale.

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