
Come avviene il tatto?
Solo dalla seconda metà del Seicento se ne sono occupati gli anatomisti. Nel secolo successivo sul tatto si sono molto esercitati i filosofi – confrontandolo soprattutto con la vista – mentre i fisiologi hanno cominciato a sperimentarvi nell’Ottocento, in particolare da quando il tedesco Ernst Heinrich Weber, applicando un semplice compasso a due punti della pelle, notò la sua suddivisione in aree più o meno ampie e munite di differente sensibilità. Un mosaico di molteplici e tracciabili “circoli tattili”. Poi furono individuati vari generi di “corpuscoli”, recettori periferici preposti a trasmettere differenti classi di sensazione al sistema nervoso centrale. Per venire al presente, non possono non impressionare le 700, fitte pagine di un manuale su Human Haptic Perception – così fu ribattezzata la modalità a fine Ottocento (dal greco aptomai, toccare) – uscito nel 2008. Com’è ovvio, negli ultimi decenni il tatto ha ricevuto dalla neuroscienza contemporanea, interdisciplinare per vocazione, un trattamento teso a comprenderne sempre più in dettaglio struttura e funzioni.
In una prospettiva scientifica, quale rilevanza assume il tatto?
La prospettiva è oggi in misura crescente tecnoscientifica: ossia Haptics designa una disciplina emergente complessa, che intreccia fra loro numerosi specialismi, fino alla computer science e alla robotica. Le competono fra l’altro lo studio e lo sviluppo di applicazioni all’interagire uomo-macchina, alla medicina di riabilitativa e protesica. Basti pensare alla mano bionica, che non soltanto tocca o afferra oggetti, ma ne percepisce anche forma, consistenza, ruvidità, come se fosse una vera mano.
La mano appare strumento principale del senso del tatto: è realmente così?
Che la mano umana svolga un ruolo tattile essenziale e quasi prioritario – specialmente nel tatto attivo – è osservazione antica. L’occhio può soltanto vedere e l’orecchio udire: già nel V secolo a.C. Anassagora notò invece come la mano si muova e agisca, lavori, dia forma e trasformi, imponga un ordine alla realtà circostante. Innescando il gioco dell’apprendere l’esperienza manuale si affermerebbe perciò come primo stadio del processo conoscitivo. Aristotele definì la mano quello “strumento degli strumenti” che può diventare e operare molte cose diverse. D’allora in poi, sono innumerevoli e continuamente ripetuti gli elogi filosofici, letterari, scientifici della sua estrema versatilità. Presenta un notevole fascino, per le mille voci che l’hanno pronunciato nel corso del tempo, la storia del discorso sulla mano, che ho tentato di passare in rassegna nel terzo capitolo del libro.
Quali sono i vantaggi del bipedismo?
A distanza di oltre mezzo secolo l’uno dall’altro, sia Lamarck sia Darwin capirono che solo le “mani libere” concesse all’uomo dal suo essere bimane (o bipede) avevano contribuito a farne, nel corso di qualche milione di anni, un essere che, seppure inserito nel regno animale, se n’era anche irreversibilmente distanziato. Le congetture su come ciò fosse avvenuto, formulate da quei due grandi costruttori di teorie evoluzionistiche, trovarono conferma solo nel Novecento, quando successive e sempre più estese indagini paleoantropologiche via via assegnarono al novero degli ‘antenati’ di Homo sapiens un numero crescente di specie. Grazie alla postura eretta e all’uso delle mani, gli ominini diventati abilissimi e creativi tool-maker, avevano mutato non solo la propria struttura anatomica (encefalo compreso) ma anche il regime alimentare e le abitudini di vita, rendendosi capaci di una migliore adattabilità.