Senatus consultum ultimum e stato di eccezione. Fenomeni in prospettiva” a cura di Pierangelo Buongiorno

Senatus consultum ultimum e stato di eccezione. Fenomeni in prospettiva, Pierangelo BuongiornoSenatus consultum ultimum e stato di eccezione. Fenomeni in prospettiva
a cura di Pierangelo Buongiorno
Franz Steiner Verlag

«Il senatus consultum ultimum non esiste. O meglio, certamente una tale formulazione non compare nelle fonti. La nozione di senatus consultum ultimum è frutto di una costruzione più tarda, per certi versi di comodo, connessa a quella necessità di classificazione e sistemazione organica in cui gli studiosi comunemente tendono a trovare conforto. Le fonti contengono piuttosto testimonianze di alcune delibere assunte dal senato di Roma fra l’età graccana e gli inizi di quella triumvirale al fine di garantire il mantenimento dell’ordine e la difesa della res publica quando quest’ultima fosse stata percepita come minacciata da momenti di profonda crisi politica interna.

È con gli aggettivi extremum e ultimum che Cesare – nel resoconto dei prodromi del bellum civile che lo vide contrapposto a Pompeo (BC 1.5.3) – si riferisce a tal genere di deliberazioni, assunte dal senato di Roma soltanto nel caso in cui «la città fosse in preda alle fiamme e non ci fosse più speranza per la salvezza comune» (quo nisi paene in ipso urbis incendio atque in desperatione omnium salutis … descensum est). In queste circostanze il senato avrebbe emanato un provvedimento contenente un decretum in base al quale i magistrati e i promagistrati «provvedessero a che la res publica non subisse alcun danno». Su questi provvedimenti la discussione doveva essere piuttosto stringata, o comunque essa non doveva influire sulla costruzione del testo della deliberazione. Si giungeva cioè a questo genere di provvedimenti quale ‘estremo rimedio’ per mettere in salvo la sopravvivenza stessa della res publica e ciò implicava che i magistrati vedessero accresciuti i propri margini di azione, con relativa compressione di strumenti di garanzia quali la provocatio ad populum e l’intercessio tribunizia, senza che il senato intervenisse sul testo della proposta magistratuale.

In BC 1.5.3 si parla dunque di illud extremum atque ultimum senatus consultum con riferimento a una delibera approvata dal senato di Roma contro Cesare il 7 gennaio del 49 a. C. Nel prosieguo del suo resoconto, Cesare non fa mistero di considerare tale provvedimento ‘gravissimo e irrituale’, soprattutto in quanto giunto in risposta a quelli che egli non esita a definire i suoi lenissima postulata. Moderate richieste (ovviamente dalla prospettiva cesariana), che a suo dire avrebbero potuto trovare accoglimento se nel conflitto con la fazione pompeiana fosse emerso un senso di umana moderazione (si qua hominum aequitate res ad otium deduci posset). Nella formulazione extremum atque ultimum vi è dunque tutto il senso della propaganda cesariana, della storia scritta dai vincitori a uso anche (e forse soprattutto) dei vinti, finalizzata cioè all’imposizione di una pacificazione forzata: vi è la denuncia dell’eccesso e dell’irragionevolezza (audacia paucorum) delle deliberazioni assunte contro Cesare e la sua parte da un senato controllato da Pompeo; deliberazioni che ‘inevitabilmente’ condussero alla guerra civile.

Ma nel ricorso ad aggettivi come extremus e, soprattutto, ultimus vi è anche un’altra coloritura: vi è il senso del limite, quasi del confine della legalità, sul quale il senato si trova a operare. Non si può d’altra parte non considerare che ultimus dipenda etimologicamente da uls, avverbio arcaico (contrapposto a cis) che significa appunto ‘oltre’, nel senso peculiare di ciò “oltre cui non c’è più nulla”. Un limite a varcare il quale si era indotti da peculiari contingenze politiche: esse imponevano la deroga (se non la legittimata contravvenzione) a prassi istituzionali consolidatesi nel corso dell’esperienza repubblicana in ragione di un (forse alle volte soltanto) preteso stato di necessità.

Da questo punto di vista i torbidi e le irrazionalità delle battute finali della res publica spinsero all’elaborazione di una terminologia dell’urgenza e della necessità. Non è un caso che, nella primissima età augustea, lo storico Livio (3.4.9) con un palese anacronismo attribuisca a una deliberazione del 464 a. C. la formulazione – standardizzatasi invero nel corso del I secolo a. C. – ne quid res publica detrimenti caperet:

Hernici et male pugnatum et consulem exercitumque obsideri nuntiaverunt, tantumque terrorem incussere patribus ut, quae forma senatus consulti ultimae semper necessitatis habita est, Postumio, alteri consulum, negotium daretur videret ne quid res publica detrimenti caperet.

Che si tratti dell’anticipazione di un modello è abbastanza chiaro già soltanto a un esame del prosieguo della narrazione liviana (3.4.10–11), ove si legge che per operare contro gli Hernici i consoli non ebbero nella circostanza alcun margine di autonomia. Assai più rilevante è però che Livio si esprima nei termini di una forma senatus consulti ultimae … necessitatis (forma che egli definisce addirittura semper … habita nei momenti di crisi).

La prospettiva liviana mostra insomma di recepire, traslandolo al V secolo a. C., il fulcro di un dibattito che si era andato agitando sulla scena romana sino agli anni immediatamente precedenti a quelli in cui lo storico scriveva. Un dibattito senz’altro imperniato sugli effetti del ricorso a strumenti deliberativi in grado di concentrare nelle mani dei magistrati un potere di ampia portata, al di fuori delle dialettiche consuete. Non a caso Corrado Barbagallo, nel suo pionieristico studio in materia, parla di questo genere di senatus consultum come di una «misura eccezionale» adottata dal senato romano.

Gli studiosi si sono soffermati a lungo su quanto le singole delibere senatorie di tale portata siano assimilabili tra loro e su quanto esse fossero davvero in grado di derogare (e con che grado di legittimità) alle prassi istituzionali in applicazione di un preteso modello unitario; d’altra parte la riflessione sulle fonti relative ai senatus consulta ‘ultima’ (o ultimae necessitatis), ha travalicato i campi dell’antichistica e della giusantichistica interessando anche i filosofi sin dalla prima età moderna e poi ancora i giuristi positivi, con particolare riguardo alla costruzione e alle declinazioni dello ‘stato di eccezione’: si è tuttavia ancora ben lungi dall’aver esaurito la discussione.»

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