
Quali principî ispirano la democrazia mazziniana?
La democrazia mazziniana si basa sul superamento dei presupposti fondatori della religione dei diritti ereditata dal modello rivoluzionario francese, fondato su una concezione individualistica e materialistica dell’esperienza umana. Pur apprezzando la Rivoluzione francese come momento di necessario superamento dell’impianto ideologico dell’Ancien Régime, i diritti, per Mazzini, devono sempre essere equilibrati con i doveri. L’equazione democratica della rivoluzione francese mancava delle basi antropologiche che Mazzini riteneva fondamentali per il perfezionamento dell’animo umano, ovvero quella tensione verso l’unità del corpo sociale che non si poteva costruire sulla violenza e la distruzione dei legami con il passato. Per Mazzini, democrazia è essenzialmente eguaglianza etica e spirituale, non livellamento delle condizioni materiali dell’uomo. La proprietà privata è sacra ed è sacro il dovere, poiché senza la tensione etica verso l’altro non è possibile esperire né la libertà né la democrazia, termine che, in fondo, Mazzini non ama molto, preferendogli quello di «governo sociale». Come gli aveva insegnato uno dei suoi punti di riferimento, Pierre Leroux, il repubblicano doveva condannare sia la titanica esaltazione dei valori dell’individuo e del capitale sia l’antropologia politica del socialismo, consistente nell’assolutizzazione dell’altruismo e del noi, col risultato di generare un collettivismo egualitario nemico della dignità spirituale, politica e sociale intrinseche all’essere umano. Le cose umane, in sostanza, vanno sempre pensate in funzione della loro finitudine. L’esaltazione del diritto (dell’io) o, all’opposto, del dovere (del noi), sono sempre negative, poiché l’uomo è un essere finito che aspira all’infinito, il finito assoluto è il male mentre l’indefinito il suo diritto.
Cos’è la repubblica per Mazzini?
La repubblica di Mazzini è essenzialmente un modello di democrazia pura nella quale si concettualizza il popolo come un tutto unitario, custode della volontà generale e detentore della sovranità. Questa concezione è figlia dell’impianto ideologico di Jean-Jacques Rousseau. Bisogna però precisare che sarebbe errato farne derivare un’assoluta illiberalità di Mazzini. Il pensiero mazziniano, infatti, esattamente come quello rousseauiano, si basa sulla separazione dei poteri; non bisogna, infatti, confondere quest’ultimo con la separazione interna al potere legislativo (tra maggioranza e opposizione, per intenderci), che caratterizza storicamente il modello del governo misto (da cui anche il parlamentarismo e la nascita dei partiti politici). La repubblica mazziniana è aliberale ma non illiberale. La distinzione può apparire troppo sottile ma è necessaria. Per Mazzini, infatti, la repubblica non può «ammettere caste politiche [cioè i “partiti”] da sostituirsi alle vecchie caste sparite» ma, allo stesso tempo, essa deve sviluppare la libertà, l’eguaglianza e l’associazione. Questa ambivalenza è giustificata dal fatto che Mazzini sostiene allo stesso tempo l’indivisibilità della volontà generale (attribuita al potere legislativo) e la divisione dei poteri. Per comprendere ciò bisogna capire che, come in Rousseau, Mazzini distingue tra la sovranità nel suo principio e nel suo oggetto. Mentre il principio di sovranità è inalienabile e indivisibile (la volontà o è generale o non lo è affatto), la sovranità come oggetto si deve distinguere in potere legislativo ed esecutivo.
Quale concezione ha Mazzini della religione e del suo rapporto con la politica?
Religione e politica sono in un rapporto molto stretto, ben oltre la contiguità, direi quasi che in certi tratti s’identificano l’una nell’altra. Fede e avvenire, pubblicato da Mazzini nel 1835, è stato considerato la più alta opera spirituale dell’Ottocento dalla critica anglosassone. È in quest’opera, a mio avviso, che vanno riferite le principali intuizioni mazziniane sul ruolo di straordinaria importanza ch’egli attribuisce alla religione: Mazzini vi rivela la sua più grande paura, quella di una caratterizzazione classista ed economicista della sollevazione popolare. L’opuscolo ospita, di conseguenza, un’articolata riflessione basata sull’idea che il sentimento religioso del legame tra il popolo e Dio costituisca il fattore primo di ogni rivoluzione. E nella nuova epoca sociale, nella quale Mazzini riteneva manifestarsi l’età dello spirito, il Dio repubblicano non avrebbe parlato alle coscienze degli individui bensì ai popoli, per cui bisognava rinunciare all’idea tradizionale di un Dio giudice e al servizio dei dilemmi dell’anima, una concezione plasmata a immagine e somgilianza della metafisica della soggettività moderna. L’eccedenza trascendentale del ‘politico’ mazziniano non può essere ridotta alla formula delle religione civile, cara a certe interpretazioni laiciste. È piuttosto frutto della radicata convinzione circa l’idea che tutte le religioni positive sono destinate a estinguersi in un’unica religione umanitaria che tutte le trascende. Anche la vita politica, dunque, deve inserirsi in una più ampia interpretazione della vita come comunione con la natura, con l’umanità e con Dio, poiché solo la religione è dotata di tensione politica: né la scienza né la filosofia sono dotate di quella politicità intrinseca che motiva gli uomini a impegnarsi nella vita e nella polis.
Quale critica gli rivolge in tema di teoria rivoluzionaria Gramsci?
Gramsci ritiene che Mazzini sia un autore del tutto estraneo alla tradizione del realismo politico. L’utopismo, l’intellettualismo, l’incapacità di pensare in termini politici il rapporto con le masse contadine sono, per il pensatore sardo, le sue massime colpe. A suo parere, Mazzini è il principale responsabile del Risorgimento come rivoluzione popolare mancata. Il problema è che Gramsci si colloca in una tradizione che, almeno da Machiavelli in poi, concepisce il ‘politico’ come sfera autonoma e distinta dalla morale (laica o religiosa), e considera l’efficacia di un’azione politica solo in funzione dei risultati effettuali. Ebbene, è proprio questa la differenza con Mazzini, per il quale, indipendentemente dal risultato immediato, un’azione politica acquisiva senso e significato solo nella prospettiva della vittoria futura. Gramsci dunque ricusa del tutto l’idealismo romantico mazziniano, incapace di determinare nel qui e nell’ora coscienza politica nelle masse e anche una qualche forma di egemonia culturale, e con il triste risultato di far prevalere l’unica forza politica capace di realizzare l’unica rivoluzione veramente attiva, quella liberal-moderata di Cavour, giacobino sui generis in quanto capace di andare oltre i residui metafisici e speculativi ancora presenti nel romanticismo.
Come concepisce Mazzini la nazionalità?
Il principio di nazionalità è stato uno dei più fraintesi e allo stesso tempo utilizzati a seconda dei tempi. Intanto, va detto che esso non può essere in alcun modo ritenuto un concetto esclusivamente politico o addirittura vincolato a un patto costituzionale. Per Mazzini la nazione democratica è garanzia di cittadinanza per i diritti universali, è luogo di un universalismo concreto che trova nella solidarietà, garantita da una comunità nazionale e nella sovranità democratica, le basi di lancio di uno sguardo autenticamente inter-nazionalista, in quanto maturato a partire dai bisogni concreti e reali degli uomini esistenti in uno spazio-tempo definito. La nazionalità mazziniana, dunque, non è equiparabile al patriottismo costituzionale alla Jurgen Habermas. Essa è legata a una ben precisa storia e tradizione, e anche a un ben preciso sentimento di amore verso di essa, che può portare anche a compiere sacrifici o a fare guerre. È fuor di dubbio che Mazzini criticasse ferocemente il nazionalismo degli Imperi e dei Re. E tuttavia sarebbe sbagliato svuotare il principio di nazionalità mazziniano di quegli elementi nazionalistici rintracciati in quegli autori, come Herder, padre del nazionalismo, che aveva sicuramente studiato e apprezzato. Il punto dunque non è separare nettamente patriottismo da nazionalismo, cercando di definire una perfetta autonomia del principio di nazionalità dalla pericolosa matrice culturale herderiana, perché Mazzini fu un nazionalista e un patriota, ma sempre un difensore della “democrazia”, almeno nella sua particolare accezione (non certo in quella di “democrazia liberale”).
Cosa intende Mazzini quando parla di rivoluzione?
La rivoluzione, per Mazzini, è l’ultimo stadio di un processo di progressiva coscientizzazione del popolo. Il rivoluzionario mazziniano è, allo stesso tempo, riformatore e conservatore. Egli porta con sé una nuova concezione del mondo e allo stesso tempo si fa garante e difende le tradizioni più profonde del popolo. Il rivoluzionario è un apostolo della democrazia e quando si dedica a costruire la nuova società nazionale, egli vuole realizzare una società nella quale si possa riflettere il principio generale di armonia che sovrintende l’universo nelle sue componenti fisiche e morali. Dobbiamo, perciò, concluderne che Mazzini fosse contrario al conflitto? Certo che no. Mazzini ammette determinate forme di conflitto. Come per il Machiavelli repubblicano, anche per lui il conflitto può anzi avere una qualifica positiva, nel momento in cui irrobustisce l’auctoritas della polis. Il polemos, purché non diventi guerra civile, favorisce l’unità del corpo sociale e politico repubblicano. Altra cosa, però, è la ribellione a un tiranno. In quel caso il discorso si sposta sull’uso della forza, che per Mazzini dev’essere proporzionale al grado strettamente necessario affinché il tiranno sia spodestato. Per questo Mazzini prospetta una fase insurrezionale, al termine della quale, però, la rivoluzione nazionale si sarebbe affermata come rivoluzione fondata sull’amore e il consenso.
Marco Adorni è dottore di ricerca in Storia (Uni.Bo) e insegnante di scuola superiore. Ha pubblicato diversi saggi di storia del lavoro e storia sociale, tra cui Voci di vetro (2010), L’ateneo parmense tra l’Unità e gli anni Sessanta del Novecento (2005), Un’autostrada per l’Appennino (2006), La difesa di Sisifo (2014). Con M. Guareschi ha pubblicato il saggio Il capitalismo del futuro anteriore. Il caso Parma (Fedelo’s, 2012). Ha co-curato Prigionieri del fuori. Ordine neoliberale e migrazioni (Bfs, 2018). Collabora con la rivista «La Fionda» e fa parte del suo Consiglio direttivo.