“Segui il tuo demone. Quattro precetti più uno” di Ivano Dionigi

Prof. Ivano Dionigi, il Suo nuovo libro, edito da Laterza, si intitola Segui il tuo demone. Quattro precetti più uno. Nel titolo riecheggia l’invito che Max Weber rivolse ai giovani alla fine della della prima guerra mondiale, a seguire «il demone che tiene i fili» della propria vita. Sulle macerie di una pandemia che ci ha costretto a ripensare le nostre apparenti certezze, come può tradursi oggi questo invito?
Segui il tuo demone. Quattro precetti più uno, Ivano DionigiCi sono momenti storici particolari, come quello che stiamo vivendo, nei quali vengono meno bussole e rassicurazioni, e si acuiscono difficoltà e smarrimenti. Infatti da un lato assistiamo all’eclissi delle grandi ideologie e visioni liberale, socialista, cristiana, e dall’altro all’affanno delle istituzioni e dei tradizionali punti di riferimento quali scuola, famiglia, chiesa, partiti. Senza dire dell’afasia e dell’impotenza della nostra Europa, che solo recentemente pare risvegliata dall’istinto di sopravvivenza. Ora al dissesto ambientale e alla tragedia immigratoria si è aggiunta l’apocalissi sanitaria della pandemia. In questa situazione che fare? Io credo che sia fondamentale e urgente appellarsi alla responsabilità individuale. È lo stesso invito che ha fatto un secolo fa il grande Max Weber in risposta agli studenti dell’Università di Monaco, i quali gli chiedevano cosa fare dopo le macerie della Grande Guerra: “Noi ci metteremo al nostro lavoro ed adempiremo al ‘compito quotidiano’ – nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile, quando ognuno abbia trovato e segua il demone che tiene i fili della sua vita».

Cosa implica la nozione del demone (δαίμων) classico?
Nozione complessa, quella del demone, “equivoca e quasi inafferrabile”, come è stato detto, per la sua duplice appartenenza alle sfere religiosa e filosofica, e per la sua duplice dimensione esterna e interna all’uomo, già a partire da Omero e dal pensiero pitagorico. Da divinità e potenza del mondo invisibile passa a significare l’essere intermedio tra Dio e l’uomo, l’entità soprannaturale e sconosciuta, la nostra divinità tutelare, fino a identificarsi con l’anima, la sorte, il destino; e da ultimo diviene il divino che è in noi, il consigliere invisibile e il compagno inseparabile, la voce interiore. Un concetto che progressivamente slitta dal piano mistico e religioso a quello umano, senza tuttavia recidere completamente il filo che lega terra e cielo, visibile e invisibile, dentro e fuori. Proprio l’idea del demone sarà alla base stessa dell’idea di “felicità” che i Greci chiamavano eudaimonía: quello stato nel quale siamo assistiti da un “buon (eu) demone (dáimon)”, una sorta di angelo custode.

L’immagine del demone è legata nella classicità in particolare al nome di Socrate: quel demone personale che, leggiamo nell’Apologia di Socrate, simile a una voce interiore, lo accompagna per tutta la vita, investendolo di una missione speciale, e gli detta anche la decisione finale; quel demone che lo ispira e costringe ora a tacere e ora a parlare, perché “tacere equivarrebbe a disobbedirgli”. Ma già Eraclito, per primo, aveva sentenziato: «Demone a ciascuno è il suo modo di essere» (êthos anthrópo dáimon): ponendo un netto discrimine tra essere e apparire.

I quattro precetti sono quelli immortali della saggezza classica: obbedire al tempo (parere tempori), seguire il demone (deum sequi), conoscere se stessi (se noscere), non eccedere in nulla (nihil nimis): cosa significano oggi?
Credo che questi precetti di oltre venticinque secoli fa siano sorprendentemente attuali e giovino anche a noi. Anzitutto riscoprire la dimensione del tempo, spiazzata e divorata da quella dello spazio, per cui non abbiamo più né memoria del passato, e quindi nessuna riconoscenza per i trapassati, né progetto per il futuro, e quindi nessuna attenzione per i nascituri. La sequela del demone personale s’impone come dovere di ognuno, come attesa e premessa di riallacciare i fili della politica, nostra condizione naturale. La conoscenza di sé, sempre più difficile e rimossa, rimane, come diceva Socrate, l’unica ragione per vivere una vita degna del nome di uomini. Adottare la misura ed evitare gli eccessi è forse il messaggio più lontano dalla tendenza e dalla volontà dell’uomo di oggi il quale intende delegittimare ogni limite: non più essere quello che deve ma diventare quello che vuole; l’uomo come compito, così come l’intendeva Nietzsche. Tutti questi precetti rispondevano a due valori propri della classicità: il culto del notum e del finitum e la condanna del novum e dell’infinitum.

Sfidare e infrangere il finis, il modus, il finitum della natura è un’esperienza rovinosa: il volo di Icaro accostatosi troppo al sole, l’andata all’Ade senza ritorno di Orfeo, il viaggio di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole che, anziché divieti, sono protezioni che salvaguardano l’uomo. Bisogna attendere Bacone, il fondatore della scienza moderna, per concepire quelle Colonne non più come una difesa ma come una barriera da infrangere. Non a caso nel frontespizio della Instauratio Magna egli rappresenta un veliero che oltrepassa le Colonne d’Ercole e nel basamento riporterà i versetti del profeta: “molti varcheranno la soglia e la conoscenza aumenterà” (Daniele 12, 4 multi pertransibunt et augebitur scientia).

La classicità è «la forza antagonista del presente» capace di appassionarci perché «diversa e lontana da noi» in grado di valere dunque «come resistenza culturale e antidoto etico per i nostri giorni»: in che modo il passato può parlare alla nostra società così complessa? 
La classicità, oltre che fondamento identitario, è anche forza antagonista del presente. Forti del patrimonio della tradizione (e delle tradizioni), i classici contrastano con i conformismi del presente e con le mode dell’ora (modo, “adesso”), e ci preservano dall’essere “uomini del momento” (Chateaubriand) o “servitori della moda” (Nietzsche). La loro attualità consiste nella loro radicale inattualità: ci interessano perché sono diversi e lontani da noi; perché valgono come resistenza culturale e antidoto etico per i nostri giorni segnati dal morbo della semplificazione e del videoanalfabetismo. Così finiscono per acquistare un ruolo sorprendente: anziché simbolo della conservazione e strumento di difesa del potere, i classici si rivelano simbolo della rivoluzione e strumento di difesa dal potere:

Alla sapienza classica e ai saperi dell’antichità noi siamo debitori in primo luogo per l’eredità linguistica e per i lasciti culturali specifici Noi parliamo la lingua di Omero e di Platone quando riflettiamo su pasrola e ragione (lógos), vita (bíos), tempo (chrónos), mondo (kósmos), costume (êthos), politica (pólis), sapienza (sophía), tecnica (téchne), anima (psyché), sofferenza (páthos), scuola (scholé), mito (mŷthos), storia (historía). Parliamo la lingua di Cicerone e di Seneca quando amministriamo o parliamo di cittadinanza (civitas), Stato (res publica), impegno politico (negotium), vita ritirata (otium), religione (religio, pietas, cultus), valori morali (fides, virtus, prudentia, iustitia, fortitudo, clementia, dignitas).

In secondo luogo noi dobbiamo ai classici l’educazione a un pensiero critico e plurale: un pensiero che passa al vaglio ogni affermazione e notizia, che iscrive i problemi locali nei problemi del mondo, che sa confrontarsi con le categorie e i punti di vista dell’altro: in una parola, i classici conoscono l’ars interrogandi. Questo è possibile perché il mondo classico è abitato non da un pensiero unico e limitante bensì dalla pluralità di concezioni rivali del mondo. Si può ben dire che la classicità è il mondo dei libri, non del Libro, delle scritture, non della Scrittura.

Questa costanza e questo interesse per i classici non si spiegano solamente come evasione e rifugio, come reazione alla cultura dell’effimero dei nostri giorni, come fascino e nostalgia del diverso e dell’inattuale, come recupero del notum che appare improvvisamente e paradossalmente più catturante del novum. C’è altro. È lo stupore per chi, ponendo le domande penultime e ultime, ha osato dare del tu alla vita; è la necessità di affiancare alla téchne risolutrice di Prometeo il logos interrogante di Socrate; è la volontà di rispondere alla domanda di Agostino Tu quis es? con parole non solo di dottrina e di saggezza ma anche di salvezza. La chiamerei ansia di verità.

Lei propone di ricominciare dalla scuola e dai giovani: in che modo la scuola e l’università sono chiamati a non abdicare al loro fondamentale ruolo?
Scuola e Università sono gli ultimi avamposti civili del Paese: infatti sono l’unico ambito pubblico dove si apprendono i fondamentali del sapere; dove si formano cittadini e non impiegati, come diceva Nietzsche; dove avviene l’incontro quotidiano e reale tra coetanei e tra adulti e giovani.

Sono le due realtà e istituzioni che si muovono nell’orizzonte dei fini, del tempo, del futuro: oltre i mezzi, lo spazio, il presente. Sarà bene ricordare che “scuola” deriva da scholé, parola che indica il complesso delle attività che il cittadino riservava a se stesso, alla propria formazione, che i Greci chiamavano paidéia e che volevano non specialistica e unidimensionale, bensì completa e integrale: enkýklios, “circolare”, e quindi completa e perfetta, come il cerchio. Altroché i saperi orizzontali!

Penso a una scuola aperta h 24, che consentirebbe di allargare il ventaglio delle discipline, agevolare o addirittura sostituire i compiti di casa, introdurre attività formative e creative come il teatro e lo sport, favorire il confronto col mondo delle professioni, riconoscere ai ragazzi momenti di autonomia responsabile. Una scuola restituita agli studenti non solo creerebbe più opportunità di crescita personale, ma sarebbe anche garanzia di giustizia e anche di protezione sociale, soprattutto nei territori svantaggiati del Sud.

Sono loro, i giovani, “il bene più prezioso della città”, come li definiva Erasmo; sono loro che fanno l’unità, la bellezza e la speranza di questo Paese provvidenzialmente ricco di talenti e maledettamente incurante di essi. Se noi professori (dal latino profiteri, “professare) vogliamo essere all’altezza del nostro nome dobbiamo svolgere una triplice professione, già propria del magistero dei classici: affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare le coscienze (monere).

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