“Segni, sogni, materie e scrittura dall’Egitto tardoantico all’Europa carolingia” a cura di Antonella Ghignoli, Maria Boccuzzi, Anna Monte e Nina Sietis

Prof.ssa Antonella Ghignoli, Lei ha curato con Maria Boccuzzi, Anna Monte e Nina Sietis l’edizione del libro Segni, sogni, materie e scrittura dall’Egitto tardoantico all’Europa carolingia, pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura: innanzitutto, di cosa si occupa il progetto NOTAE nel cui ambito sono maturati i contributi che compongono il volume?
Segni, sogni, materie e scrittura dall’Egitto tardoantico all’Europa carolingia, Antonella Ghignoli, Maria Boccuzzi, Anna Monte, Nina SietisNOTAE è l’acronimo di NOT A writtEn word but graphic symbols, il titolo di un progetto di ricerca che è stato finanziato con un “Advanced Grant” dallo European Research Council (ERC) all’interno del programma Horizon 2020, il cui sottotitolo è An evidence-based reconstruction of another written world in pragmatic literacy from Late Antiquity to early medieval Europe. Il progetto è ospitato da Sapienza Università di Roma, presso il Dipartimento di “Storia Antropologia Religioni Arte Spettacolo”.

NOTAE studia, per un periodo che va dal V all’VIII secolo, i simboli grafici tracciati di proprio pugno da uomini e donne, alfabetizzati e non, nei testi scritti di natura pratica; in testi, insomma, che in storiografia si definiscono ‘documenti’ e che rappresentano una buona parte delle fonti su cui fare storia del periodo. Nel progetto per ‘simbolo grafico’ si intende un oggetto grafico di cui è evidente, rispetto al testo alfabetico in cui è inserito, l’unità e l’autonomia figurativa (sia esso risultato di un tracciato elementare di poche linee, sia esso risultato di un tracciato complesso e composito, che include altri segni grafici come, per esempio, singole lettere dell’alfabeto). Un simbolo grafico aggiunto all’interno di un testo alfabetico –all’interno di un contesto di per sé coerente, perché composto di ‘segni’ grafici, quali sono, appunto, le lettere dell’alfabeto –  doveva sicuramente comunicare qualcosa: qualcosa di ‘diverso’ rispetto a una parola scritta, o qualcosa di più rispetto a una espressione scritta. Per indicare il nostro oggetto di ricerca si è preferito adottare il termine ‘simbolo’ e non ‘segno’, perché indagando i nostri testi scritti su papiro, pergamena, scaglie di ardesia o tavolette lignee (sono quei i supporti vari di scrittura pratica del periodo in esame) non stiamo osservando un sistema comunicativo attuale, ma stiamo, da storici, cercando di interpretare dei veri e propri ‘avanzi’ (Überreste) del passato; dunque non siamo nelle condizioni di certificare a priori l’esistenza di una «intrinsic prior relationship» tra il nostro signum/oggetto grafico che veicola un messaggio e il messaggio veicolato (condizione che decide, invece, per un signum la natura di sign e non di symbol, secondo Edmund Leach, Culture and Communication. The Logic by which Symbols Are Connected, 1976), e neppure siamo in grado molto spesso di comprendere la sostanza grafica dello stesso signum (la sua composizione di tratti) o il possibile messaggio che si era inteso trasmettere tracciandolo. Questo resta vero anche se le nostre ricerche possono indurci a ipotizzare (come vedremo anche in alcuni contributi del volume) per un determinato signum e in alcuni ambiti d’uso e specifici contesti storici, ora il valore di ‘segno’ ora di ‘simbolo’. Segni e simboli grafici sono stati in genere, quando non ignorati, ritenuti presenze marginali nell’ecdotica dei testi documentari di questo periodo, e di peso quasi irrilevante nell’interpretazione del testo dei documenti anche sul piano paleografico: in quanto segni non alfabetici e dunque non significanti, o perché ghirigori di forme arbitrarie e inconoscibili o perché segni tanto diffusi e di lunga durata, si pensi alla semplice croce come simbolo cristiano, da vederne annullata una potenziale dimensione storica.

Il progetto NOTAE si propone, invece, di raccogliere le attestazioni di simboli grafici nella superstite tradizione documentaria greco-latina tardoantica e alto medievale, elaborando tutti i dati importanti per studiarli nel contesto di origine e in quello di trasmissione, in comparazione tra loro in sincronia e in diacronia; sono raccolti dai ‘documenti’ – che vengono esaminati sempre sulle loro riproduzioni se non direttamente sugli originali, e rivedendo le loro edizioni, quando editi – attraverso un protocollo descrittivo appositamente elaborato, inserendoli in una base di dati all’interno di un sistema informatico creato dallo stesso progetto (il NOTAE System) che, quando sarà reso pubblico in rete, permetterà agli studiosi di fare ricerche avanzate. A questo lavoro si accompagna anche un’attività di indagini su aspetti specifici di questo vasto e articolato percorso di ricerca, legati all’impiego dei simboli grafici, pubblicati in articoli su rivista o presentati a congressi. La collana Graphic Symbols, Written Words, che le Edizioni di Storia e Letteratura hanno accolto all’interno della loro serie “Temi e Testi”, nasce per ospitare invece i lavori in forma monografica prodotti dai membri del progetto o comunque promossi da esso.

Il libro con cui abbiamo deciso di inaugurare la collana – Segni, sogni, materie e scrittura dall’Egitto tardoantico all’Europa carolingia – nasce però da una particolare esperienza di NOTAE, quella delle Project NOTAE Lectures. Around a Research Project and Beyond. Si è trattato dei due cicli annuali di conferenze, che abbiamo organizzato nel 2019-2020 e 2020-2021 con lo scopo di invitare studiosi che stessero conducendo ricerche su temi vicini ai nostri obiettivi di studio ma anche su temi collocabili sullo sfondo del nostro progetto, o addirittura oltre il suo ambito d’indagine (di qui, il sottotitolo Around a Research Project and Beyond): importante, per noi, era che venissero presentati problemi analoghi a quelli che affrontavamo nelle nostre indagini, per confrontarci sui metodi e per approfondire, al nostro interno, la riflessione su come studiare i nostri residui grafici e interrogarli come fonti storiche. È stata una esperienza molto importante anche perché testimonia di un periodo travagliato ed eccezionale, quello della crisi internazionale per la pandemia da Covid-19: poco dopo l’avvio del primo ciclo dovemmo organizzare le conferenze in remoto: non fu affatto facile, e senza la generosa disponibilità dei colleghi invitati e di tutti i partecipanti non ce l’avremmo mai fatta.

Ebbene il volume, curato da me e da quattro giovani studiose coinvolte nel progetto NOTAE (ai tre nomi presenti sul frontespizio si deve aggiungere, infatti, quello di Livia Briasco che ha curato l’Indice dei documenti e dei manoscritti e l’Indice dei nomi) raccoglie le versioni scritte di sei conferenze presentate e discusse in occasione delle Project NOTAE Lectures, perfezionate e ampliate dagli studiosi e dalle studiose che le presentarono, per la pubblicazione.

Che rilevanza assumono segni e visioni nella letteratura di età costantiniana?
Quella letteratura consacrò definitivamente, si può dire, la figura di diversi importanti segni e simboli cristiani: il monogramma delle lettere greche tau-rho, lo staurogramma, (che per un grande storico del cristianesimo antico, Larry Hurtado, sarebbe da considerarsi la prima rappresentazione visuale della crocefissione, se non proprio del Cristo crocefisso); il monogramma delle prime due iniziali del nome di Cristo, sempre in greco, chi-rho, ossia il cristogramma; e ancora le rappresentazioni del Sol invictus, del Labarum, della stessa croce. Quella letteratura ne ha stabilito il ruolo fondamentale nel linguaggio, anche figurativo, della cultura e del pensiero religioso dell’età successiva. Alcuni di quei segni e simboli circoleranno – e forse circolavano già – anche ai livelli più bassi della pratica documentaria. Di questo se ne occupa con molta sapienza e altrettanto coraggio, considerando la bibliografia sterminata sul tema, Tessa Canella (Sapienza Università di Roma) nel saggio che apre il volume, intitolato Segni, sogni e visioni nella letteratura di età costantiniana, concentrando l’attenzione sul celebre passaggio di Lattanzio, De mortibus persecutorum 44, 3-6 e sul panegirico di Publilio Optaziano Porfirio. Dalle narrazioni delle visioni e dei sogni che Costantino avrebbe avuto alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio del 312 presenti nella letteratura coeva, emerge secondo la studiosa una «polifonia» di simboli, dotati di un notevole grado di ambiguità, attraverso i quali, però, è possibile verificare l’esistenza di un uso consapevole dei segni nella comunicazione di parte imperiale o nell’ideologia politico-religiosa che le opere degli intellettuali di età Costantiniana intendevano trasmettere.

Quali problemi solleva l’interpretazione dei nomina sacra nei manoscritti copti?
Vorrei innanzitutto ricordare, a beneficio dei lettori, che con l’espressione latina nomina sacra si fa tradizionalmente riferimento, nell’ambito delle discipline del testo manoscritto antico in lingua greca e latina, a parole significanti nomi sacri della tradizione religiosa giudaico-cristiana: nomi propri come (traducendoli qui per comodità in italiano) ‘Israele’ o ‘Gesù’, oppure voci nodali cristiane come, sempre tradotti, ‘Spirito’ o ‘Salvatore’. Ma, contestualmente, questa espressione allude anche al fatto che tali parole sacre emergano sempre o quasi, nelle fonti, significativamente scritte in maniera abbreviata per ‘contrazione’, esprimendo cioè solo la prima e l’ultima lettera della parola, talora rafforzate da una lettera intermedia; sul gruppo di due o tre lettere del nomen sacrum contratto veniva poi tracciata una lineola a segnalarne, appunto, la sua contrazione. Tralasciando l’importanza che ha avuto, nella tradizione degli studi paleografici, l’associazione tra questo modo di abbreviare e i nomina sacra, veniamo alla loro presenza nelle testimonianze manoscritte in copto. Questo idioma, com’è noto, fu adottato in Egitto per circa un millennio a partire dal III secolo d. C. dagli autoctoni di fede cristiana (insieme alla lingua greca e, successivamente al secolo VIII, a quella araba) sia come lingua di cultura sia come lingua d’uso, e la sua scrittura avveniva impiegando l’alfabeto greco con aggiunta di alcuni segni propri della più tarda scrittura egizia (il demotico). Ora, la stragrande maggioranza di compendi di nomina sacra presenti nei manoscritti copti rappresenta voci greche, come per esempio la contrazione ⲭⲥ/ ⲭⲣⲥ per ⲭⲣⲓⲥⲧⲟⲥ, che è il nome greco di Cristo, Χριστός. Ma ci sono anche delle eccezioni, vale a dire nomina sacra che abbreviano parole copte. Proprio di queste eccezioni tratta il densissimo, secondo contributo del volume firmato da Agostino Soldati (Sapienza Università di Roma), papirologo ma anche esperto di copto (ha pubblicato insieme all’egittologa Paola Buzi il volume La lingua copta, Hoepli 2021). Soldati affronta in questo contesto il caso di un singolare compendio, ⳪ / ϭⲟⲥ / ⲟⲥ, che è stato finora ritenuto il nomen sacrum di una parola copta, più precisamente del dialetto boḥairico (un dialetto copto parlato nel basso Egitto), significante ‘Signore’. Soldati, invece, con dotte argomentazioni e ben fondate congetture di ordine sia linguistico sia grafico, propone l’ipotesi che il compendio, in quello stesso significato di ‘Signore’, non esprima una parola copta ma, ancora una volta, benché in un prestito arcaico, una voce greca: κύριος.

Quali funzioni intratestuali svolgono i simboli cristiani nei papiri documentari di epoca bizantina e araba?
Questo è un aspetto affrontato nel contributo di Yasmine Amory (Ghent University) – Usi intratestuali dei simboli cristiani nei papiri documentari di epoca bizantina e araba – indagando un determinato campione di papiri documentari. In storia, infatti, e nella storia fatta direttamente sulle fonti, non si possono fare generalizzazioni senza prima aver analizzato casi in un’area circoscritta, di cui al ricercatore siano ben chiari e valutati storicamente tutti i limiti e i condizionamenti imposti dalla trasmissione di quelle fonti: è uno dei fondamentali principi della critica storica. Amory ha condotto la sua analisi sui papiri trasmessi da archivi originari, ovvero all’interno di ‘raccolte’ documentarie originarie, create da personaggi che quei documenti avevano ricevuto o tenevano in copia perché avevano spedito: sono ciò che resta, insomma, della gestione corrente dei loro affari fondata sulla registrazione scritta; archivi, che gli scavi (e il deserto che permette al papiro di conservarsi) ci hanno restituito come tali. Sono archivi molto celebri tra gli studiosi dell’Egitto tardoantico: quello di Dioscoro, di Phoibammon, di Senouthios e di Papas, i primi due provengono da Afrodite, il terzo e il quarto rispettivamente da Ermopolite e Apollonopolis, e coprono complessivamente gli anni tra il 506 d. C a il 670 d. C, includendo quindi lo snodo cruciale costituito dal 641 d. C., l’anno in cui inizia la dominazione araba e dunque l’inizio della islamizzazione della regione (si tratta di località del basso e dell’alto Egitto). Su questo corpus, la studiosa ha condotto analisi sulla frequenza e la disposizione nel testo di contratti, ma anche in quello di petizioni (e lettere più comuni), dei più importanti simboli cristiani: la croce in varie forme; il cristogramma (ma tenendo presente che lo stesso monogramma, chi-rho, era stato e poteva ancora essere impiegato come abbreviazione di una parola secolarissima, Χ(ει)ρ(όγραφον), ‘chirografo’, un tipo di documento); lo staurogramma, ma anche la cosiddetta croce ansata di tradizione copta; e, accanto a questi, il gruppo composto dalla serie delle tre lettere greche χμγ, chi-mi-gamma, scritte una di seguito all’altra sulla linea (talora anche in legatura), il sui significato continua a sfuggire nonostante le numerose diverse ipotesi di interpretazione, ma vi è concordia nel ritenere il χμγ, come unità visuale, un ‘simbolo’ grafico cristiano. Il valore di uno studio come questo non è tanto nelle conclusioni che si possono trarre – e che la studiosa in effetti trae – quanto piuttosto nella ricognizione in sé, e nell’esercizio delle congetture, presentate per spiegare frequenze e disposizioni. È così che si preparano, nella comunità degli studiosi, e si saggiano strumenti concettuali, che possono servire per interpretare la massa complessiva di dati sulla lunga durata (questo è uno degli obiettivi del progetto NOTAE). Dal campione esaminato da Amory si può comunque osservare la tendenza alla trasformazione di questi simboli religiosi cristiani in segni diacritici.

Significativi esempi di simboli grafici, cristiani e non, sono offerti anche nel contributo di Sophie Kovarik (Universität Wien), dedicato all’evoluzione della sottoscrizione dei notai dell’Egitto tardoantico – The Evolution of the Notarial Signature in Late Antique Egypt –, che la studiosa ripercorre a partire dai papiri provenienti da località della provincia romana di Arcadia (medio Egitto) tra V e VII secolo: tra i «Non-written elements», come Kovarik li definisce qui, della sottoscrizione notarile (tecnicamente, completio) si trovano cristogrammi, staurogrammi e croci, nonché grafismi interpretabili come segni personali dei notai, monogrammi del loro proprio nome e note tachigrafiche. Oltre alla sua trattazione sapiente, Kovarik dona al nostro volume, come appendice al suo saggio, anche l’edizione critica di 14 frammenti papiracei inediti, conservati presso la Österreichische Nationalbibliothek, provenienti dall’Arsinoite e dall’Eracleopolite, databili tra il V e il VI-VII secolo, recanti sottoscrizioni notarili: dei 14 inediti il volume offre le riproduzioni in un inserto a colori.

Come si è articolato l’uso del papiro come supporto scrittorio nell’Occidente altomedievale?
Per fornire una risposta plausibile si deve partire dalle attestazioni dirette e indirette della presenza del papiro nell’Occidente per ottenere una mappatura: è ciò che ha fatto Dario Internullo (Università di Roma Tre) nel suo contributo Il papiro, la pergamena e le origini della memoria archivistica dell’Europa occidentale (secoli VI-XI), nell’ambito di un’indagine che è per diversi aspetti esemplare, oltre ad essere una indagine difficile da condurre visto che il tema ha una certa importanza nella tradizione storiografica. Attestazioni dirette dell’impiego del papiro sono naturalmente gli stessi documenti latini su papiro, datati tra il V all’XI secolo, conservati in archivi o biblioteche in Italia, Francia e Spagna (sono circa 110). Mentre tra le attestazioni indirette si possono annoverare i documenti latini su pergamena che sono esplicitamente definiti, all’interno del loro stesso testo, come copie di originali che erano su papiro (si tratta di una cinquantina di casi circa).  Ritrovamenti relativamente recenti (del 2006) permettono di aggiungere a questi almeno un paio di casi molto particolari di attestazioni dell’uso del papiro, provenienti da Irlanda e Belgio: nella località belga di Tongres, per esempio, è stato ritrovato nel 2006, all’interno di un magazzino contenente reperti di scavo di età romana, un piccolo codice di papiro lasciato senza scrittura, databile al secolo X secondo i risultati dell’analisi al radiocarbonio. Ma il problema dell’uso del papiro nell’Occidente medievale ne implica un altro altrettando difficile da spiegare: quello del suo abbandono e del passaggio all’uso della pergamena. In fondo, se ci pensiamo bene, la pergamena come materiale rappresenta, nell’immaginario collettivo, la metonimia della stessa produzione di cultura scritta del Medioevo, libraria o documentaria (si pensi all’idea di codice manoscritto o a quella di diploma regio). In questo saggio, di respiro davvero ampio, Internullo tenta di rappresentare e di spiegare questo passaggio nelle pratiche documentarie dell’Occidente post romano, attraverso una geografia ragionata su base storico-critica delle evidenze documentarie e delle testimonianze indirette. È una transizione che si compie gradualmente tra i secoli VIII e IX, in tempi diversi a seconda delle regioni. Essa ha determinato il panorama della tradizione documentaria occidentale, ha allestito il tavolo di lavoro degli storici medievisti disponendovi le uniche ‘carte’ che essi possono studiare come fonti; in altre parole, ha fortemente condizionato il complesso delle fonti documentarie a loro disposizione. Queste fonti sono esclusivamente trasmesse, peraltro, all’interno di complessi documentari conservati negli archivi di enti ecclesiastici altomedievali; proprio nel momento del passaggio alla pergamena, quei complessi documentari appaiono acquisire una certa stabilità e anche una certa consistenza,  che Internullo invita a leggere in maniera più profonda e accorta, vale a dire come sintomo della contrazione economica conosciuta nell’alto medioevo dall’antica parte occidentale del tardo stato romano, considerando le ragioni storico-economiche e i vasti mutamenti su scala mediterranea, all’origine dell’abbandono della fragile materia scrittoria papiracea.

Quali sono i più significativi esempi di annotazioni in scrittura tachigrafica presenti sui manoscritti latini altomedievali?
Li possiamo osservare nell’ultimo contributo del volume, Stenographische Markierungen in lateinischen Handschriften, di Martin Hellmann (Dietrich Bonhoffer Gymnasium Wetheim). Della tachigrafia latina antica e tardoantica – del sistema di segni stenografici che serviva per registrare velocemente testi recitati – non abbiamo pressoché nulla: attestazioni indirette nella letteratura, certo, ma sparute attestazioni dirette, che consistono in poche parole o qualche linea di testo registrata in segni tachigrafici, che i romani chiamavano notae e i greci invece denominavano σημεῖα. I segni dell’antica tachigrafia latina riemergeranno numerosi, denominati notae Tironis o notae Senecae (le ‘note tironiane’), grazie principalmente ai dotti carolingi, da costoro recuperate da precedenti antigrafi cui è difficile risalire, e reimmesse nella trasmissione dei testi nel corso del secolo IX, attraverso un’operazione di copia sostanzialmente condotta negli scriptoria monastici di area franca. Notae sono presenti anche in manoscritti latini anteriori (celebri sono quelli conservati nella Biblioteca capitolare di Verona), ma è con il revival carolingio che esse conosceranno una diffusione come sistema di segni insegnato, appreso e impiegato dall’élite ecclesiastica carolingia come loro mezzo esclusivo di comunicazione scritta, come scrittura di studio, come scrittura specializzata nei commenti ai classici latini, e per la stessa ragione conoscerà la sua rarefazione e, sostanzialmente la sua fine, nel giro di poco più di un secolo. Le notae trascritte da copisti, revisori di testi e lettori dotti ecclesiastici sui margini delle carte dei manoscritti o all’interno dello specchio di scrittura esprimono particelle, avverbi, parole. Non è quasi mai facile comprendere la ragione della loro presenza, come ha occasione di affermare anche in questo contributo Hellmann (ed è da credergli, trattandosi di uno dei massimi esperti di Tironiana). Nella serie di casi esposti e discussi nel suo contributo, appare evidente che attraverso le notae si intese molto spesso marcare un particolare punto del testo (forse per la copia, per il controllo o per la lettura e lo studio). In altri, sembra invece di poter individuare la funzione di metterne in rilievo, per una qualche ragione, il contenuto di un passo. In altri casi ancora, è difficile immaginarne la motivazione, come in quelli in cui sul margine della carta compaiono scritte in notae una parola o la sequenza esatta di parole che vediamo scritte in minuscola nel testo contenuto in quella carta alla stessa altezza. Nel saggio Hellmann discute anche di particolari esempi osservabili sul manoscritto Lyon, Bibliothèque municipale 602, databile al secolo VII, scritto in Borgogna, contenente il testo del Dialogus contra Pelagianos di Girolamo: le notae che vi sono regisutrate possono ragionevolmente essere attribuite a un periodo non molto posteriore all’origine del codice, benché manchino punti di riferimento certi per la datazione; esse mostrano una similitudine, quanto alle forme dei segni, non tanto con il sistema delle notae Tironis che sarebbe stato ‘riscoperto’ e impiegato, e proprio in quella stessa area di origine del codice, dai dotti palatini carolingi, quanto piuttosto con il sistema di segni tachigrafici, su base sillabica, che appare attestato nei manoscritti di provenienza italiana dei secoli VII-VIII (per esempio, proprio in quelli conservati a Verona). Anche nel caso di questo contributo, abbiamo ricevuto in dono dall’autore un’appendice preziosa: la serie delle annotazioni in notae presenti proprio su questo codice lionese, interpretate e trascritte, corredata dalla trascrizione dei passi latini in scrittura ‘normale’ del testo, in corrispondenza dei quali, e in funzione dei quali, le annotazioni tachigrafiche furono registrate.

Antonella Ghignoli è professoressa ordinaria di Paleografia presso Sapienza Università di Roma. Autrice di più di 150 titoli tra monografie e saggi si è occupata di scrittura e documentazione del pieno medioevo; di cultura scritta della civiltà comunale italiana; di scrittura, libri e biblioteche del Cinquecento; di libri di famiglia; di metodologia della ricerca paleografica e diplomatistica; di ecdotica dei testi documentari medievali. È tornata a occuparsi di scrittura e documentazione tra tarda antichità e alto medioevo con il progetto ERC NOTAE, di cui è Principal Investigator.

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