
Quale funzione svolge il genere letterario del romanzo nel processo che porta alla trasformazione dei «letterati» in «intellettuali»?
In primo luogo bisogna specificare che i romanzieri di fine Ottocento si definivano dei letterati. Non usano mai la parola “intellettuale” e anche il termine “romanziere” gode di pochissima fortuna. È vero che però il ruolo dello scrittore nella società cambia, anche se gli stessi contemporanei spesso non colgono o non accettano in toto il cambiamento. Il letterato, per come si intendeva all’epoca, fa parte di un circolo di “sapienti” che si occupano delle “belle lettere” e che si sono formati pazientemente su un numero prescelto di testi, i cosiddetti classici. Dialoga con i suoi pari, il suo pubblico è ristretto. L’intellettuale invece è un “manipolatore di beni simbolici”, per dirla con Pierre Bourdieu, sociologo francese che si è occupato del mercato letterario francese, e il suo orizzonte è più largo, comprende un pubblico che è composto di semplici lettori-consumatori. Questo passaggio avviene anche e soprattutto grazie al genere nuovo, il romanzo, che esce dal canone definito di testi sul quale si formavano i giovani italiani che potevano avere un’educazione retorica e che si rivolge ad un pubblico nuovo.
Quali elementi caratterizzano il genere letterario del romanzo nel contesto di fine Ottocento e quale diffusione esso conosce nel periodo?
In Italia, tra il 1870 e il 1899, vengono pubblicati circa 2500 romanzi inediti. Tra questi ci sono i classici della nostra letteratura come “Il Piacere” e “I malavoglia” ma anche tanti tentativi più o meno riusciti di giovani autori che non sono mai più stati letti da allora. Sono cifre molto piccole rispetto ad altri mercati come la Francia e la Gran Bretagna ma d’altra parte i romanzi italiani soffrono terribilmente della concorrenza delle opere straniere, soprattutto dell’editoria parigina, in un mercato ristretto già (basti pensare alle percentuali di analfabetismo della popolazione della penisola): molti di questi romanzi vengono pubblicati una sola volta, con una tiratura di poche centinaia di copie. Se poi dobbiamo guardare le “tematiche” di questi romanzi, ci si potrebbe aspettare di trovare molti romanzi “veristi”, dato che proprio in questo scorcio di secolo la corrente verista conosce la sua affermazione. In realtà quello che emerge da questa ricerca quantitativa, è che la maggior parte degli autori italiani scrive, facendo di necessità virtù, romanzi che si potrebbero definire a scopo educativo, e che i contemporanei definivano “idealisti”. Gli autori più premiati da pubblico ed editori sono quelli che raccontano storie edificanti nelle quali la virtù trionfa e il peccato viene punito. D’altra parte i romanzi peccaminosi erano scritti dai francesi.
Un altro elemento caratteristico del romanzo in Italia è l’utilizzo di una lingua “franca”: nella seconda metà dell’Ottocento l’italiano è la lingua madre di una ristretta fascia di popolazione che abitava nei dintorni di Firenze. Per tutti gli altri, era a tutti gli effetti una seconda lingua, una lingua appresa, che si utilizza in particolari contesti. I dialoghi suonano spesso falsi perché nessuno, tranne casi eccezionali, si sarebbe rivolto in italiano ai suoi familiari. A parte qualche raro caso di autori che decidono di scrivere direttamente in francese, non ci sono tentativi per rivoluzionare la decisione manzoniana: la questione della lingua è risolta ma non per questo le cose sono facili.
Perché il romanzo guadagna così tanto spazio nel corso dell’Ottocento?
Il romanzo esisteva anche prima dell’Ottocento. Le lunghe storie in prosa non sono un’invenzione del diciannovesimo secolo. In questa fase però emerge un pubblico che prima non c’era: lettori non letterari che danno vista ad un “mercato di massa”. Sicuramente questo dipende dalla migliore scolarizzazione che coinvolge un numero sempre più crescente di persone. Migliorano anche le tecniche editoriali, che sono le stesse portano all’allargamento della produzione di periodici. L’Ottocento è anche il secolo dei giornali. Non a caso moltissimi romanzi famosi sono stati pubblicati a puntate sui quotidiani. Si può dire che il romanzo prima dell’Ottocento fosse un genere in attesa del suo pubblico.
Cosa significava essere autori di romanzi?
Un elemento che emerge dalla banca dati è che, in Italia, raramente lo scrittore di romanzi scrive solo romanzi: spesso il romanziere è anche poeta, perché sulle opere poetiche dei classici si è formato come scrittore e perché scrivere poesia è un’attività che continua ad avere una valenza simbolica importante. Non è incomune che l’opera prima di un giovane autore sia una raccolta di versi. È vero che lentamente si forma una categoria di scrittori più specializzati, che si dedicano alla prosa narrativa con più costanza e convinzione, ma è comune per gli autori cimentarsi in più generi. Tra tutti, le donne si specializzano più facilmente perché la poesia è un’attività tipicamente maschile. Il romanzo è un genere nuovo: è più facile conquistare spazio.
Salvatore Farina incarna certamente la figura di romanziere di professione: come si svolgeva l’attività di uno scrittore nell’Italia del XIX secolo?
Salvatore Farina è un caso straordinario della letteratura italiana dell’Ottocento. L’ho incontrato durante la mia tesi di laurea e posso dire che probabilmente è la sua sfolgorante carriera che mi ha incuriosito e mi ha spinto ad indagare sulla scrittura come mestiere. Di origine sarda, ma piemontese di adozione, si trasferisce a Milano, con l’intenzione di “fare un portento: vivere di letteratura e di letteratura soltanto”, come scrive nelle sue memorie. Per letteratura si intende principalmente romanzo; ne scrive più o meno uno all’anno, anche se i proventi maggiori e più stabili li ricava dalle attività collaterali, come la direzione della “Rivista Minima”, la curatela di collane, etc. Farina è un vero self made man: non ha un editore di grido a sostenerlo, come altri suoi colleghi molto prolifici, e soprattutto cura personalmente i suoi interessi editoriali. È uno degli autori più ristampati in Italia e inoltre è tradotto in numerosi paesi europei. Ma quello che è più importante è che persegue fino in fondo il suo obiettivo: scrivere per lui è un mestiere, i suoi romanzi “idealisti”, “antiveristi” sono soprattutto fonte di guadagno. Alla fine della carriera, si dedica alla scrittura delle sue memorie: sono un documento interessantissimo, perché permettono di capire come funzionava il sistema editoriale milanese nella seconda metà del XIX secolo. Farina è un’eccezione anche se rappresentativa, di come si poteva muovere uno scrittore di romanzi nella realtà italiana.
Nel libro Lei sostiene che all’interno dei romanzi si possa trovare una sorta di ‘sociologia spontanea’: in che modo gli scrittori di fine Ottocento rappresentano spesso i migliori analisti del loro tempo?
I romanzi dell’Ottocento in genere sono scritti dai borghesi per i borghesi. Il romanziere si pone come un mediatore, che replica la realtà per i suoi lettori. Il dibattito europeo sul realismo è a tutti gli effetti una grande discussione su cosa sia legittimo rappresentare in un romanzo (ad esempio: è legittimo scrivere a proposito degli operai e delle loro difficoltà quotidiane come faceva Emile Zola?), ma non si mette in discussione che il romanzo debba parlare della società contemporanea. I romanzi storici, che hanno lanciato il genere a inizio secolo, non sono molto apprezzati negli ultimi decenni dell’Ottocento: ne vengono pubblicati ancora, ma il vero romanzo, quello che punta a contare qualcosa per critica e mercato, deve parlare del presente. Gli italiani che vogliono cimentarsi con la narrativa hanno un dilemma in più: si rivolgono ad un pubblico abituato alle novità editoriali francesi; quindi per rendere il romanzo italiano appetibile, devono distinguerlo da quello che propone il mercato internazionale. Per questo gli autori italiani disseminano all’interno delle loro storie molti piccoli particolari che ancoravano l’esperienza del lettore potenziale a quella dei personaggi: nei romanzi italiani, anche e soprattutto in quelli “pessimi” e improvvisati, i personaggi leggono Carducci, discutono di Wagner, suonano Chopin, cominciano a fare i “bagni di mare”, si abbonano alle riviste di moda francesi. All’interno dei romanzi, si riversano le contese e i dibattiti della società borghese italiana di fine Ottocento: per esempio il ruolo della donna tra famiglia e società, i cambiamenti dell’istituzione del matrimonio, e altro ancora. Ovviamente non avrebbe senso fare del romanzo uno strumento di analisi basandosi sui pochi volumi che sono entrati a far parte della storia letteraria: bisogna considerare tutto quello che è stato pubblicato, perché spesso il peggiore dei romanzieri è il migliore dei potenziali sociologi. Per questo penso che la banca dati su cui è costruita questa ricerca possa essere molto utile a chi si occupa a vari livelli di studiare la società italiana di fine Ottocento.
Valentina Perozzo ha conseguito il dottorato europeo in storia contemporanea all’Università di Padova ed è insegnante di lettere nelle scuole secondarie di primo grado; si è occupata della formazione e della professionalizzazione del mercato editoriale italiano nella seconda metà dell’Ottocento. Questo libro è tratto dalla sua tesi di dottorato (Il notomista delle anime: sociologia e geografia del romanzo nell’Italia di fine Ottocento 1870 – 1899, Università degli studi di Padova , 2013) ed è legato ad una banca dati che raccoglie i dati sui romanzi italiani di fine Ottocento e i loro autori, disponibile on line al sito: http://www.romanziottocento.altervista.org/.