
Questa carenza di cultura teatrale nella scuola, al netto di lodevoli eccezioni, comporta come conseguenza che la drammaturgia sia considerata come un settore, un genere della letteratura (italiana, latina, inglese o altro che sia) e dunque che i testi teatrali siano per lo più analizzati e studiati nella loro dimensione letteraria o linguistica e non nella loro specificità di scritture per la scena. Così capita che Goldoni sia nello stesso capitolo di Parini, che le straordinarie commedie di Machiavelli siano considerate solo per quanto dicono della visione dell’autore sul mondo e la società, che Shakespeare sia considerato il maggiore esponente della letteratura inglese e Schiller uno dei principali interpreti della letteratura romantica. Della letteratura appunto.
Il testo teatrale dovrebbe invece essere avvicinato (pur senza tralasciarne il valore letterario, certo) prevalentemente nella sua dimensione di copione per lo spettacolo. Così era per Shakespeare, per Molière, per Goldoni, persino per i grandi tragici greci. In questo libro cerco di fornire una sorta di cassetta per gli attrezzi per affrontare i testi teatrali in questa prospettiva.
Come si articola la struttura drammatica?
La struttura drammaturgica ha naturalmente forme differenti, perché differenti sono i contesti storici, sociali e culturali in cui si inserisce. Per questo col teatro si possono raccontare storie diverse, multiformi, sempre sorprendenti. È evidentemente che Edipo Re di Sofocle racconta una storia diversa da quella dell’Amleto di Shakespeare o di Casa di bambola di Ibsen. Ma se io racconto la storia del Principe di Danimarca, che si assume l’incarico di vendicare l’uccisione del padre da parte dello zio ma esita e rimanda perché continuamente interroga la propria coscienza e arriva a compiere la sua vendetta in un finale accelerato e convulso, centro davvero il senso di quel testo? Probabilmente no. Perché questa è solo quella che gli studiosi chiamano la fabula o che oggi si usa definire il plot. Non che anche questa non sia significante, ma la fabula, così, la può raccontare anche un contastorie. Quello che dà la specificità al testo teatrale è invece l’intreccio, ossia proprio la struttura drammaturgica con cui questa storia viene modulata. E gli intrecci, ossia le strutture, sono alla fine riconducibili a dei modelli che si sono mantenuti sostanzialmente stabili nel tempo.
Solitamente la struttura prevede una situazione iniziale di stabilità anche se spesso un po’ precaria, poi un evento, un personaggio, un’azione arriva a incrinare questa stabilità rendendo dinamica la situazione e la vicenda. Il protagonista cercherà di sanare la frattura che si è creata nella situazione e questo genererà la sua peripezia, che troverà nel suo percorso uno o più oppositori e talvolta qualche aiutante. Si produrrà un climax drammatico, che crea aspettativa e tensione nei lettori/spettatori, che culminerà in quella che gli studiosi chiamano scena necessaria, e che un tempo si chiamava scena madre, in cui i nodi si sciolgono e si arriva alla conclusione. La forma di questa conclusione dipende dal genere in cui il testo si inserisce. Se si tratta di una tragedia, la conclusione sarà una catastrofe, in cui tutti perdono e nessuno si salva. Se si tratta di una commedia, la conclusione porterà a una definizione felice, solitamente a un matrimonio, con scorno di qualcuno che è portatore di un vizio o una debolezza che viene messa in ridicolo (avarizia, gelosia, arroganza, ecc.). Se il testo è un dramma, probabilmente la conclusione porterà ad un nuovo assestamento, anche se forse ad un livello più basso, con qualcuno che perde, qualcuno che vince, qualcuno che ne esce con qualche sofferenza psicologica o sentimentale.
Provate a calare questa struttura sui testi teatrali (e spesso anche non teatrali, peraltro) e vedrete che nella grande parte dei casi funziona. Ma attenzione: per fortuna l’inventiva dei drammaturghi riesce non di rado a sorprenderci, a uscire dagli schemi, a inventare anche strutture nuove. E ci sono epoche e situazioni in cui programmaticamente questa struttura viene rifiutata, come la drammaturgia delle Avanguardie storiche di inizio Novecento o la recente stagione del teatro post-drammatico.
Quali caratteristiche presenta il personaggio teatrale?
Il personaggio è il centro e il motore del testo teatrale. Ma è spesso vittima di un equivoco. Di solito lo si considera alla stregua di una persona reale, con determinati tratti fisici, un comportamento, un carattere, una psicologia e un percorso di vita, tanto che su questa base lo si può analizzare, comprendere, giustificare o condannare come se fosse una persona della vita reale, e addirittura lo si può psicanalizzare, come ha fatto Sigmund Freud con tanti personaggi shakespeariani, a partire da Amleto, o con la Nora di Casa di bambola di Ibsen. E un altro grande psicanalista, Georg Groddeck, analizzando anch’egli Casa di bambola, arriva addirittura a presumere quale sarà il comportamento di Nora dopo la fine del dramma, sostenendo che dopo la scena finale in cui abbandona la casa per ritrovarsi come persona e non più solo come moglie e madre, tornerà sui suoi passi, a causa di una debolezza di carattere che le impedirà questo progetto. Appunto come se Amleto o Nora fossero stesi sul lettino, col lettore a scandagliare la loro psicologia. Ma evidentemente non è così, perché il personaggio è in realtà una costruzione artificiale, è la oggettivazione di un insieme di azioni, comportamenti, parole, passioni, sentimenti che devono essere coerentizzati per definire non una persona ma un fantasma di persona, che può poi essere interpretato da una persona reale come l’attore proprio per la omologia tra il personaggio così caratterizzato e la persona fisica. Solo su questa base può scattare il meccanismo dell’interpretazione, per cui l’attore è legittimato ad assumere su di sé la personalità del personaggio.
Questo in linea generale. Ma poi il personaggio si adegua al clima culturale, alla situazione sociale, alle condizioni dello spettacolo delle epoche e delle culture in cui nasce. Il personaggio della tragedia greca è certamente diverso da quello del dramma borghese ottocentesco, ha una diversa articolazione, una diversa funzione, una diversa modalità di esprimersi e di comportarsi, ha psicologia e carattere diversi. Così come sono lontani l’uno dall’altro un personaggio shakespeariano e un personaggio beckettiano, con tutta evidenza. Occorrerà allora ogni volta analizzare non solo e non tanto la coerenza psicologica di un personaggio, ma la sua modulazione all’interno dei parametri dettati dalle convenzioni dello spettacolo del tempo.
Quali sono i generi teatrali?
Tradizionalmente i generi teatrali sono due, la tragedia e la commedia. Anche se fin dall’inizio sono presenti anche altri generi in qualche modo minori, come il dramma satiresco della Grecia antica o la tragicommedia spagnola del Seicento o la favola pastorale del Cinquecento italiano. Ma i generi tradizionali sono due, la tragedia che tratta di temi alti e di grandi scelleratezze, e la commedia che tratta di temi quotidiani e di piccoli vizi. Nella tragedia sono presenti i valori dei vecchi, dei padri (la tradizione, l’onore, il governo), mentre nella commedia prevalgono i valori dei giovani, soprattutto l’amore, che infatti vince sempre, per cui la commedia finisce spesso con un matrimonio.
Ma il rapporto dialettico tra tragedia e commedia non è solo questione di temi e di contenuti, ma di tono, di ambientazione, di personaggi, di classi sociali di riferimento. La tragedia rappresenta storie in certo senso straordinarie, con tono elevato, in ambientazioni austere e con personaggi di alto lignaggio, mentre la commedia tratta vicende comuni di persone di basso rango, in ambienti quotidiani con tono leggero, comico, talvolta grottesco e non di rado osceno. I due soggetti sociali di riferimento sono dunque da un lato l’aristocrazia e dall’altro il popolo, inteso in senso ampio, fino ai servi. Ma intorno alla metà del Settecento, quando si sta definendo un nuovo assetto sociale, col declino dell’aristocrazia e l’emergere prepotente della borghesia come classe dominante, diviene anche una necessità sociale il problema di superare la dicotomia tra commedia e tragedia, perché la borghesia, che è appunto una classe media, non può riconoscersi né nei valori alti dell’aristocrazia, e quindi nelle forme della tragedia, né nei valori bassi del popolo e dei servi, e dunque nei temi della commedia. Oltre a questo dato di rappresentatività sociale, c’è poi anche un dato ideologico che impedisce alla borghesia di vedersi rappresentata dall’una o dall’altra delle due forme tradizionali. Perché la borghesia, in quel suo stato nascente, è una classe progressiva, ottimistica, e che dunque non può accettare la sconfitta necessaria della tragedia, ma è anche alla ricerca di decoro e di uno status istituzionale, e dunque vuole stare lontana dai toni sguaiati e dai temi ridicoli della commedia. Dall’Ottocento, specie dalla seconda metà del secolo, il genere prevalente diventa allora il dramma, genere intermedio, che rappresenta appunto le istanze e i valori della borghesia, classe media. Poi arrivano le Avanguardie storiche e la rivoluzione teatrale novecentesca e tutti i parametri si disarticolano, i generi spariscono come categoria, si confondono, si annullano. La cultura drammaturgica contemporanea non ragiona più in termini di generi.
Come vengono gestiti il tempo e lo spazio del testo drammaturgico?
Il teatro deve accadere in un tempo e in un luogo che siano definiti e perimetrati. E questo naturalmente deve essere previsto dal testo drammaturgico. La drammaturgia, allora, istituisce il tempo entro cui le vicende devono accadere, ma i perimetri di tempo che essa istituisce sono in realtà due, e diversi. Il tempo della storia rappresentata può occupare periodi brevissimi (qualche ora) o lunghissimi (mesi o anni). La vicenda della Signorina Julie di Strindberg si svolge in qualche ora, quella del Lungo pranzo di Natale di Thornton Wilder in novant’anni. Eppure sono entrambi degli atti unici di breve durata, sia alla lettura che alla rappresentazione. Da un lato quindi c’è il tempo della storia rappresentata, e dall’altro lato c’è il tempo della scrittura drammaturgica, che coincide col precedente solo nei rari casi dei monologhi o di testi in presa diretta, in cui cioè la durata dello spettacolo sia la stessa dell’azione rappresentata, senza soluzioni di continuità. In tutti gli altri casi è necessario che il drammaturgo sottoponga il continuum temporale ad una operazione prima di selezione, eliminando quanto in termini di tempo non è essenziale al suo discorso, e poi di montaggio. Nel testo dunque il tempo è condensato.
Lo stesso meccanismo di artificializzazione è operato dal drammaturgo con lo spazio, perché lo spazio definisce il luogo in cui l’azione teatrale accade, ma anche in questo caso naturalmente non sempre c’è omogeneità tra la struttura del luogo fisico in cui l’azione si sviluppa, ossia la scena, e l’idea di spazio che è inscritta nei testi. Nell’immagine tradizionale di teatro che abbiamo in testa, che è quella codificata dal dramma borghese di fine Ottocento, questa omologia in realtà esiste, perché le azioni si manifestano dentro a uno spazio chiuso, che sul piano reale è la scatola scenica, il palcoscenico, e sul piano della vicenda rappresentata è una stanza, solitamente un salotto. Ma nella storia non sempre è stato così, e anzi questa tipologia è quasi un’eccezione. Non tanto per la struttura dello spazio fisico, la scena, che qui si costituisce come luogo chiuso e fortemente delimitato, ma che in ogni caso anche in altre epoche non può che essere un luogo perimetrato, anche simbolicamente ma comunque definito. La vera differenza è che nelle epoche precedenti la scena è uno spazio assoluto e a partire dal dramma borghese è invece uno spazio contingente, o, per dirla in altro modo, prima la scena è un mondo e poi è invece un frammento di mondo.
Che relazione esiste, nella drammaturgia, tra testo e contesto?
Innanzi tutto c’è un problema di contenuti. È normale e quasi intuitivo che il lettore si renda conto che un testo che appartiene a un passato più o meno lontano, quando molto diversi dagli attuali erano i parametri sia sociali che culturali, presenti delle difformità rispetto alle modalità di percezione di oggi. Intanto perché sono molto diverse le situazioni sociali e psicologiche rappresentate, diversi sono il modo di comportarsi dei personaggi e le loro motivazioni, diversi i gesti e il linguaggio. Ma non è solo questo. Occorre anche rapportare il testo alle condizioni, alle convenzioni, alle particolarità e alle contingenze della società dello spettacolo in cui si inserisce. E questo è un poco più complicato, perché quanto è dovuto alle particolari convenzioni dello spettacolo della cultura che ha prodotto quel testo lo si deve rintracciare spesso nelle pieghe del testo.
Faccio solo un esempio, apparentemente banale. Amleto, il personaggio-mito del teatro moderno. Magro, malinconico, un po’ emaciato, vestito di nero e con un teschio in mano. Peccato solo che questa immagine sia sbagliata, almeno per un dato, che però è essenziale e che fa crollare tutto l’impianto iconografico. Perché Amleto in realtà è grasso! Elemento fortemente disturbante, ma oggettivo, dato che Shakespeare scrive letteralmente fat, quando la madre Gertrude parla del duello con Laerte nel finale. Shakespeare non usa tuttavia fat per caratterizzare in qualche maniera il personaggio, ma solo perché l’attore della sua compagnia che avrebbe dovuto sostenere il ruolo, Richard Burbage, era grasso, o almeno così appariva all’autore. E poiché Shakespeare non pubblica a priori i suoi testi teatrali, questa annotazione del copione di quello spettacolo particolare interpretato da Burbage è rimasta come una sorta di fossile nel testo che ci è stato tramandato. E infatti raramente sulle scene abbiamo visto un Amleto grasso, e quella battuta che sarebbe in conflitto con l’iconografia tradizionale viene solitamente modificata.
Questo per dire che occorre attenzione nell’attribuire l’autorialità di un testo solo al drammaturgo, dato che il testo teatrale è spesso frutto della dialettica tra le intenzioni e la volontà del drammaturgo e le condizioni dello spettacolo (intervento degli attori, convenzioni che determinano quello che si può dire e fare in certe epoche, struttura dello spazio teatrale che condiziona la modalità di enunciazione, ecc.). Del resto, proprio a proposito di Shakespeare, Eugenio Montale si diceva convinto che in realtà fosse “una cooperativa”, perché il testo era il risultato dell’intervento di varie creatività. Vale per Shakespeare, ma vale per moltissimi altri autori, quasi tutti i più grandi della storia della drammaturgia.
Luigi Allegri è Professore Onorario di Storia del teatro all’Università di Parma. Ha insegnato alla Sorbona di Parigi, all’Istituto Nazionale del Teatro di Città del Messico e all’Istitut del Teatre di Barcellona. È stato Presidente della Société Internazionale pour l’étude du Théâtre Médiéval e della Consulta Universitaria Teatrale. Dal 1994 al 1998 è stato Assessore alla Cultura del Comune di Parma. Ha pubblicato tra l’altro Teatro e spettacolo nel Medioevo, Laterza 1988; La drammaturgia da Diderot a Beckett, Laterza 1993; L’arte e il mestiere. L’attore teatrale dall’antichità ad oggi, Carocci 2005; L’artificio e l’emozione. L’attore nel teatro del Novecento, Laterza 2009; Prima lezione sul teatro, Laterza 2012; Invito a teatro. Manuale minimo dello spettatore, Laterza 2018; Scritture per la scena. Leggere i testi teatrali, Laterza 2021. Ha curato Storia del teatro. Le idee e le forme dello spettacolo dall’antichità ad oggi, Carocci 2017.