
Che significato ha la distopia?
Credo che il significato vada assegnato di volta in volta, testo per testo. C’è distopia e distopia, occorre distinguere per forma, qualità e tendenza. Detto questo, però, la modalità del genere (o sottogenere) distopico si basa su quella che potremmo chiamare una impostazione, ed è una impostazione particolare. Tendenzialmente, la distopia differisce dal modello generale della fiction che offre modelli di comportamento in cui immedesimarsi. Non che non sia possibile immedesimarsi, per dire, in Winston Smith di 1984, oppure nella moglie del medico di Cecità: tuttavia, è evidente che l’intento del testo distopico non è solo quello di indurci alla partecipazione e di tenerci in attesa di come va a finire il personaggio. La distopia vuole che noi solleviamo la testa dalla lettura con un atto di riflessione (simile a quello che accompagna l’allegoria) e risaliamo a monte della vicenda narrata fino al punto in cui la catastrofe era ancora evitabile, che è il punto in cui ci troviamo: dopodiché il racconto del peggio a venire dovrebbe convincerci ad agire in modo tale che gli eventi rappresentati nel libro non debbano verificarsi. La distopia crea un mondo orrendo allo scopo di non farlo realizzare: è un avvertimento, insomma, un genere “esortativo”.
Per questo, nel mio libro, ho tenuto a distinguere le distopie a seconda dell’esito finale. Infatti, se alla fine il pericolo è scampato (come in molte fiction degli ultimi tempi nelle quali il mondo è a rischio di distruzione, sì, ma per trovare salvezza nello “scioglimento”), allora il significato della distopia diminuisce di intensità e il finale positivo finisce per rimandare nel “grosso” della fiction consolatoria e compensativa. Ho tenuto a definire come “rigorosa” la distopia a finale negativo. Per usare sempre come esempio il famoso 1984 di Orwell, il fatto che alla fine Winston venga riconvertito all’ordine («amava il Grande Fratello»…) funziona bene come un colpo sulla testa del lettore: se il personaggio non ce l’ha fatta, allora adesso tocca lottare anche per lui contro tutti i Grandi Fratelli che ci troveremo davanti. E che il “Grande Fratello” sia oggi solo un reality show di bassa lega, non toglie nulla alla sua subdola pericolosità.
Se la distopia è l’immaginazione della Fine con la maiuscola è logico che abbia il problema del finale. A questo proposito, mi sembra che l’attuale voga delle continuazioni non faccia che indebolirla. Un esempio: la Atwood aveva scritto una buona fantasia dell’ultimo uomo (Oryx and Crake, tradotto per l’appunto in Italia con L’ultimo degli uomini) che terminava in sospeso su un probabile conflitto tra i rari sopravvissuti, con carneficina definitiva. Non ha resistito, però, alla tentazione del sequel e ha prodotto ulteriori “puntate” con sovrabbondanza di personaggi, un numero assai alto di ultime donne e ultimi uomini, un vero ripopolamento intensivo! Insomma, intendo affermare che il serial reader non fa bene alla distopia.
Lei definisce la distopia «la forma contemporanea della tragedia»: quali effetti produce l’immaginario negativo?
Si sa che nel moderno la tragedia diventa impossibile per mancanza di eroi sopraordinati. L’ultimo eroe rimasto è il genere umano in quanto tale, sospinto dalla presunzione di essere signore del mondo e di poterlo spremere fino in fondo senza pagarne le conseguenze. La distopia racconta esattamente il fallimento di questo sconsiderato atteggiamento. Nello stesso tempo, la distopia rappresenta il lato negativo del fantastico (e ho riportato nel libro molti esempi di mostri e creature fantastiche partorite dall’incubo). Un’altra questione che mi ha interessato è il rapporto con la fantascienza: in fondo la distopia che racconta il futuro, da questo punto di vista, non è che una variante della fantascienza. Tuttavia, non solo fa meno strada (spesso, come con 1984, quel futuro è ormai abbondantemente alle nostre spalle), ma soprattutto è esattamente il contrario della speranza supertecnologica caratteristica della fantascienza, che si chiama così proprio per la fiducia incondizionata nel progresso scientifico. Anche là dove si immagina l’insediamento su altri pianeti, le cose non sono così semplici, ad esempio su Marte di Philip Dick (Noi marziani) la colonizzazione segna il passo e tutto si guasta. Lo spazio della fantascienza sarebbe infinito, per cui a rigore nulla può andare male, perché ci saranno sempre nuovi mondi a disposizione nel cosmo; invece la distopia ci mostra che tutto può andare male dovunque se continuiamo a farci accompagnare da un desiderio smodato di sfruttamento.
Con un corollario interessante: in fondo l’immaginazione è esattamente quella facoltà che ci compensa delle ristrettezze e dei limiti della realtà: in quanto tale è legata a un senso di piacere e, nell’immaginario collettivo in cui siamo immersi, funziona come una sorta di macchina desiderante, al servizio dell’edonismo di massa. Nella distopia, l’immaginario è virato al nero: si potrebbe dire che essa introduce un elemento critico nella rappresentazione del piacere così come nel piacere della rappresentazione.
Quali forme assume il racconto distopico?
Più si diffonde, e più la distopia assume, ovviamente, le forme più varie. Questo ha fatto sì che il mio libro sia diventato in parte una sorta di bibliografia ragionata; e lo stesso aggiornamento ha consistito, in prevalenza, nel recupero dei titoli che prima mi erano sfuggiti. È chiaro che in materia l’esaustività è impossibile. Si possono semmai segnalare delle direzioni preferenziali di evoluzione. A me, però, interessava soprattutto evidenziare alcuni tratti paradossali ‒ che sono poi quelli che mi hanno spinto principalmente ad occuparmi di questo tipo di racconto.
Ne segnalo in particolare due, che forse sono uno solo, perché riguardano il rapporto della storia da un lato con il lettore, dall’altro con l’autore. Dal lato del lettore: come ha fatto il racconto distopico a raggiungerci? Se il personaggio si è trovato sottoposto a un regime di spossessamento terribile, come l’Ingsoc di Orwell o la Gilead delle ancelle della Atwood, come ha potuto trasmettere la sua testimonianza e da quale mondo rimasto libero essa ci giunge? Non a caso, spesso, il testo è accompagnato da finti curatori del futuro ancora più lontano che lo hanno recuperato, il che fa capire che il terrore a un certo punto ha avuto termine. Paradosso ancora maggiore, nel caso delle distopie dell’ultimo uomo: se l’ultimo uomo è tale, chi è il narratore che lo racconta alla terza persona? Non meno paradossale è il racconto in presa diretta (camera eye) di alcune distopie che serve indubbiamente a creare una partecipazione agli eventi catastrofici che si svolgono sotto ai nostri occhi, ma che ha bisogno di ipotizzare dietro l’obiettivo un narratore sostanzialmente estraneo alla situazione di emergenza in cui si trovano i suoi personaggi.
Quali elementi caratterizzano e accomunano i racconti distopici?
La distopia si presta ad alcune doverose distinzioni classificatorie. Prima di tutto va distinta dall’antiutopia. Trattasi piuttosto di antiutopia quando ci viene narrato il fallimento di un progetto utopico che prende una piega negativa. Poi, all’interno della distopia, si separano i due filoni principali, quello dispotico e quello catastrofico. Come ho scritto, nel primo caso il guaio è che tutto continui, nel secondo che tutto finisca. Naturalmente, i due filoni sono appropriati ad epoche diverse: le distopie dispotiche sono tipiche del periodo del comunismo sovietico e del nazismo, anzi, potrebbero proprio ulteriormente dividersi tra antisovietiche e antinaziste, con alcuni casi incerti o relativi ad entrambe le dittature; e con in più un ramo forse minore, ma assai interessante sui rigurgiti antidemocratici in USA, come il Tallone di ferro di London. Mentre scrivo con negli occhi ancora i trumpisti all’assalto del Congresso, mi sono ricordato del titolo di Lewis It can’t happen here (è, pensate!, del 1935) che ‒ messo un Buzz Windrip al posto di Trump ‒ dimostra che invece può benissimo succedere…
Dalla parte delle distopie catastrofiche, c’è davvero l’imbarazzo della scelta: la fine del mondo può venir causata da tutti gli elementi della natura, siano l’acqua, la terra, l’aria, o il fuoco, che si ribellano e si scatenano. Si può arrivare all’estinzione generale, e avremo allora l’ultimo uomo che si aggira nelle città deserte; più modestamente, si può raccontare il reimbarbarimento, la perdita dei limiti e dei controlli sociali e il residuo “umano” che sopravvive in tali situazioni estreme. Oggi, in attesa dei bollettini quotidiani dei conteggi dei contagi dei decessi, se non fosse già sufficiente la realtà, si potrebbero rileggere le distopie “virali” come Scarlet plague di London o il sopra citato Oryx and Crake della Atwood, o anche Cecità di Saramago (dove però l’allegoria prevale sulla patologia). Non dubito che siano in arrivo molti romanzi “virali” ed epidemiologici, ma ormai fuori tempo per essere distopici, perché saranno solo letteratura realista.
Se poi volete l’elemento comune è, direi, l’incapacità del personaggio. Il protagonista, pur rimanendo tale e pur essendo investito del ruolo di outsider, ha più che altro la funzione di sonda per portare a galla il male futuro. È una sorta di “eroe sballottato” dalle vicende che ormai non può più tirare il freno della Storia. Siamo noi lettori che ‒ situati a monte ‒ possiamo ancora farlo e questa è appunto, come dicevo, la vocazione “esortativa” propria della narrazione distopica.
Quali sono, a Suo avviso, i più riusciti esempi di narrativa distopica?
Ho dedicato la seconda parte del mio libro ad analisi ravvicinate di testi che mi sembravano più significativi. Tra questi, ci sono anche i due romanzi che, con le loro suggestioni, avevano avviato il mio interesse e la mia ricerca, cioè Il pianeta irritabile di Volponi e La ratta di Günter Grass. Sono due “distopie d’autore” e sono, non a caso, due distopie “antiantropocentriche”, nelle quali non è questione di salvare il genere umano o di perpetuarne la specie, ma di fare un bilancio radicalmente critico delle inadempienze a carico del “bipede implume” (con un atteggiamento straniante e contraddittorio, perché è chiaro che chi si incarica del verdetto, cioè l’autore, è pur sempre parte dell’umanità). Di questo tipo è anche Vonnegut, un altro autore cui ho dato un certo spazio: è l’autore di una distopia umoristica che si colloca quindi, esattamente e dichiaratamente, dall’altro lato del tragico. E l’umorismo è l’unica posizione di superiorità di fronte all’enormità della catastrofe.
In generale, lasciatemi dire, tengo a difendere e recuperare la letteratura nel senso di una volta, ossia come linguaggio complesso dotato di spessore. Per questo, sono restio a seguire la fiction nella sua evoluzione consumistica, essenzialmente semplificatrice. È vero che, nella prima parte del libro, per forza di cose non faccio altro che riassumere trame, tuttavia sono un convinto avversario di quella “riduzione a riassunto” che oggi affligge sciaguratamente l’approccio al romanzo. Contro la “riassuntite”, diffusa non solo tra gli studenti, non perdo occasione per mettere in mostra la produttività della scrittura nei suoi risvolti e particolarità che una volta si sarebbero dette “formali”. Per questo credo che, nel campo ormai vastissimo delle distopie, vadano privilegiate le distopie problematiche che coinvolgono e mettono in questione anche i livelli testuali e la “fattura” del testo. Se la distopia ha ragione, se è vero che stiamo andando gioiosamente in bocca alla catastrofe, allora anche la sua scrittura deve subire le conseguenze dell’avvertimento, non può restare liscia e scorrevole come se niente fosse. In questo senso, forse la scrittura più distopica del Novecento è quella di Beckett, anche quando i suoi temi non sono propriamente distopici, perché è una scrittura che si toglie ogni supporto scontato, elimina i luoghi comuni fino a boicottare perfino il personaggio e si contraddice in autocritica secondo il progetto di “fallire sempre meglio”. Ma è chiaro che, seguendo questa strada, finiamo a parlare non più di distopia in senso stretto, ma di modernità radicale, avanguardia e sperimentalismo, e il discorso si ricongiunge al terreno dell’alternativa letteraria che ho esplorato con cocciutaggine in vari altri miei libri.
Francesco Muzzioli, docente di Critica letteraria, ha partecipato al dibattito letterario nell’ultimo Novecento e inizio Duemila, intervenendo soprattutto sulle scritture sperimentali d’avanguardia e su temi metodologici e teorici. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni: tra le più recenti, oltre alla nuova edizione di Scritture della catastrofe (2021), Un colpo di pistola nel concerto (2016) e Mario Lunetta, la scrittura all’opposizione (2018). Attualmente cura il blog Critica integrale.