“Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico. Dal Vicino Oriente alla Grecia di età arcaica e classica” di Giorgio Camassa

Prof. Giorgio Camassa, Lei è autore del libro Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico. Dal Vicino Oriente alla Grecia di età arcaica e classica, edito da L’Erma di Bretschneider: come si articolò il processo di fissazione per iscritto delle leggi nel mondo antico?
Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico. Dal Vicino Oriente alla Grecia di età arcaica e classica, Giorgio CamassaÈ difficile generalizzare. Le generalizzazioni, pur necessarie, a volte non chiariscono in modo adeguato i processi storici su cui si esercita la nostra riflessione. I ‘codici’ del Vicino Oriente antico (conviene mettere il termine fra apici in quanto si tratta di qualcosa di diverso dal codice comunemente inteso, che mira a prevedere tutte le fattispecie possibili) sembrano un esempio di diritto descrittivo piuttosto che prescrittivo o positivo: il re si compiace di abbinare il proprio nome a un monumento di sapienza giuridica — dando così ulteriore lustro alla propria persona, al potere di cui egli è il saggio detentore — e non sappiamo sino a che punto quel monumento trovasse applicazione pratica nella vita quotidiana. Basti pensare al ‘codice’ di Hammurapi, su cui peraltro la discussione continua. Balzano agli occhi le differenze rispetto al mondo greco, in cui la fissazione di norme ben precise deriva dalla necessità di affrontare i conflitti che lacerano le comunità poleiche a partire dall’età arcaica: quelle norme vengono indubbiamente applicate. Sul mondo ellenico ritorneremo in seguito. Proverò invece a rispondere alla domanda postami con un esempio concreto.

Il ‘codice’ di Ur-Namma risale al 2100 a.C. ed è sinora il primo a noi noto per la Mesopotamia antica. Per quale motivo fu messo per iscritto? Ur-Namma ha edificato un impero che include tanto Sumer quanto Akkad. Ebbene, il fatto che egli fosse l’energico e vittorioso fondatore di un nuovo impero centralizzato in cui erano incorporate città-stato originariamente indipendenti, con le loro tradizioni giuridiche, può aver fornito — come ha ricordato Klaas Veenhof — uno stimolo aggiuntivo a che le regole fossero messe per iscritto. Questa la cornice esterna. Se procediamo a una ricognizione dei materiali di cui si compone il nostro monumento di dottrina giuridica, avremo modo di constatare che le regole contenute nel ‘codice’ sono riconducibili almeno in parte a sentenze regie o comunque fatte proprie dal re, che venivano affidate alla scrittura e serbate negli archivi reali. Attraverso la scrittura il sovrano intendeva presumibilmente assicurare validità durevole alle decisioni e ai verdetti esemplari che, una volta riuniti in una raccolta, contribuivano a riaffermare il ‘buon ordine’ da lui incarnato.

Una ricostruzione non dissimile si può proporre con riguardo all’insieme dei ‘codici’ della Mesopotamia antica. La giurisprudenza, osservava Jean-Louis Ska, forma la materia prima dei ‘codici’; questa materia prima, dopo esser passata nelle mani degli scribi che l’hanno appunto messa per iscritto, è entrata infine negli archivi dei sovrani, a testimoniare la loro volontà di far opera di giustizia organica e durevole.

Quali caratteristiche presenta la scrittura della Legge nel Pentateuco?
Nel Pentateuco sono contenuti almeno tre ‘codici’: il ‘codice’ dell’alleanza, il ‘codice’ deuteronomico, il ‘codice’ di santità (rispettivamente nell’Esodo, nel Deuteronomio, nel Levitico). Il ‘codice’ dell’alleanza (Esodo 21, 1-23, 19 con la premessa di 20, 22-26 e la conclusione segnata da 23, 20-33), o una sua Urform, fu redatto probabilmente negli anni a cavallo fra l’VIII e il VII secolo, quando il «movimento per l’unicità di YHWH» poté approfittare di un’occasione inattesa: l’espansione dell’amministrazione burocratica e la conseguente diffusione dell’alfabetismo avevano reso per la prima volta il testo scritto più affidabile della sola tradizione orale. Il nucleo più antico del ‘codice’ deuteronomico, che occupa i capitoli 12-26 dell’attuale Deuteronomio, sembra il portato della situazione determinatasi a partire dalla seconda metà del VII secolo — un terminus post quem è rappresentato dal patto di fedeltà/trattato di vassallaggio imposto da Ešarhaddon nel 672, le cui formule furono riprese e trasformate nel Deuteronomio con un atto di teologia politica sovversiva (al re assiro veniva sostituito YHWH). Possiamo circoscrivere ancor meglio il momento in cui fu redatto il secondo ‘codice’ del Pentateuco: il ‘codice’ deuteronomico, nelle sue parti più antiche, è da ricollegare alla riforma di Giosia che investì profondamente il regno di Israele verso il 622. Leggi che rinviano a quelle medio-assire, leggi che ripensano il ‘codice’ dell’alleanza, costituiscono la nuova Legge (la Legge attraverso cui, nel racconto biblico, sarà garantito a Israele l’accesso alla Terra Promessa). Attorno a questo nucleo si disposero successivamente le parti narrative all’inizio e alla fine dell’attuale Deuteronomio, come pure le parti esortative, che intendono giustificare l’esilio o attribuire al libro — nel quadro del ritorno dall’esilio — un nuovo valore. Quanto al ‘codice’ di santità del Levitico (17-26), basti dire che secondo ogni probabilità è postesilico.

Un importante elemento su cui riflettere è il seguente: le leggi proclamate da Dio attraverso il suo intermediario Mosè mutano. Sono soggette ad adattamenti. Nel Deuteronomio, il mutamento delle leggi dell’Esodo è attuato mediante lo strumento dell’interpretazione («il canone limitato testualmente diviene illimitato nella sua applicazione»: B.M. Levinson), ma viene mimetizzato sotto l’apparenza del rispetto verso ciò che è invece modificato in profondità. Presupposto dell’ermeneutica deuteronomica, che consente di mutare — dissimulando il mutamento — le leggi dell’Esodo, è forse l’uso consolidato della scrittura. La strategia del mutamento si realizza, infatti, mediante un assiduo confronto col testo da aggiornare.

Quali elementi accomunano i ‘codici’ vicino-orientali e i ‘codici’ del Pentateuco?
Vi sono importanti elementi, sostanziali e formali, che accomunano i ’codici’ del Vicino Oriente antico e i tre contenuti nel Pentateuco. C’è di più: alcuni anni fa David P. Wright ha cercato di dimostrare come per redigere il ‘codice’ dell’alleanza si sia fatto direttamente uso delle leggi di Hammurapi, sottoponendole a una revisione (questo assunto ha suscitato un vasto dibattito).

Metterei tuttavia l’accento su un dato di natura qualitativa e dunque su una differenza. Diversamente da quanto accade nella Mesopotamia antica, i ‘codici’ del Pentateuco non sembrano monumenti di sapienza giuridica cui il re di turno si compiace di associare il proprio nome. In effetti, sia il primo sia il secondo ‘codice’, quello dell’alleanza e quello deuteronomico, sono stati prodotti in età monarchica, ma non per certo per celebrare la gloria di un re dell’epoca, che imprimesse il sigillo del proprio nome sull’uno o sull’altro ‘codice’. Essi corrispondono invece all’esigenza di preservare l’identità di Israele in una situazione storica molto problematica: il rischio è quello di essere schiacciati dall’Assiria. Il ‘codice’ dell’alleanza e quello deuteronomico vengono redatti, dunque, per proteggere l’identità di Israele. La tutela dell’identità di Israele passa attraverso la redazione di ‘codici’ di leggi. Così, ora, anche Israele — non più solo l’Assiria — dispone di proprie leggi e di leggi scritte. Dotarsi di leggi scritte significa reagire al profondo shock culturale che interviene in seguito al confronto con il superiore mondo assiro. L’identità ‘nazionale’ di Israele risiede e consiste nelle leggi, le quali, messe sotto l’usbergo di Dio, del Dio che si avvia a diventare unico, formeranno la Legge.

Come si sviluppò la legislazione greca arcaica?
In Grecia la legge scritta è una manifestazione del diritto positivo. Si scrivono le leggi (a partire almeno dal VII secolo) per regolamentare le controversie che lacerano la comunità poleica — più esattamente la cerchia degli aventi diritto, che in origine deve essere stata di limitata estensione.

Dal suolo di Creta, più esattamente da Dreros, proviene quella che è a tutt’oggi la prima legge scritta del mondo greco (databile intorno alla metà del VII secolo). La comunità degli aventi diritto avverte il bisogno di fissare con l’aiuto dello strumento alfabetico, di recente acquisizione, una norma che stabilisce un limite temporale all’iterazione della suprema carica magistratuale: pertanto, non si potrà essere di nuovo kosmos (il termine designa il magistrato di più alto grado) prima che siano intercorsi dieci anni.

Perché si è deciso di regolamentare l’avvicendamento alla suprema carica della polis, introducendo un divieto temporaneo di iterazione? La ragione sostanziale del provvedimento appare chiara. Bisogna evitare che qualcuno detenga ininterrottamente quella carica, in quanto altrimenti verrebbe impedita l’alternanza fra gli aventi diritto — si tenta, allora, di disciplinare l’insorgenza di possibili contestazioni stabilendo un limite preciso: l’iterazione è possibile non prima che sia trascorso un periodo di dieci anni.

Tuttavia, il quesito che ci interessa più da vicino è un altro. Perché la polis ha voluto metter per iscritto tale decisione? Il dato nuovo, infatti, è proprio questo. La risposta si può articolare come segue. La comunità poleica intende dare pubblicità a una norma che regolamenta un conflitto — evidentemente sentito come ‘attuale’ — e che, soprattutto, innova rispetto allo stato di cose (pre)esistente. Sino ad allora, con ogni probabilità, non c’era alcun divieto formale di iterazione ad libitum della suprema carica della polis. La portata dell’innovazione risultava chiara alla platea dei politai, com’è chiara per noi la rottura —rispetto al presumibile stato di cose (pre)esistente — che determinava la misura legislativa adottata. Non solo: fissando per iscritto la nuova norma, la polis cerca di assicurare validità generale e duratura a quanto essa ha stabilito.

Ci siamo concentrati sull’esempio di Dreros, ma un discorso per certi versi analogo sarebbe applicabile ad altre leggi greche d’età arcaica.

Quali prescrizioni regolavano il mutamento delle leggi nel mondo greco antico?
I Greci, si direbbe in prima approssimazione, sono restii a cambiare le leggi. Le leggi, strumento principale di risoluzione del conflitto interno, devono o dovrebbero durare per sempre. Senza alterazioni. D’altra parte i nomoi mutano, né potrebbe essere diversamente. Della minaccia rappresentata dal cambiamento ci si rende conto una volta che essi siano stati messi per iscritto. Il problema del mutamento delle leggi, su cui i Greci hanno molto riflettuto (lo dimostra fra l’altro l’intensità dell’elaborazione teorica in materia), nasce infatti solo quando la scrittura lo rende percepibile. Il paradosso di fondo si può così sintetizzare: i nomoi — attraverso cui, abbiamo appena osservato, si mira anzitutto a dirimere i contrasti intestini — vengono affidati alla scrittura onde proclamarli vincolanti per sempre, ma una volta che siano stati messi per iscritto, si apre la strada alla percezione e alla pratica del mutamento. Un mutamento cui ci si vorrebbe, nonostante tutto, opporre.

Questo in termini generali. Se ci portiamo all’altezza dell’Atene del V secolo a. C., è notevole la trasformazione del paesaggio giuridico. Mentre prima si facevano valere e coesistere le norme appena approvate accanto a quelle vigenti da decenni o da secoli (si pensi solo alla legge sull’omicidio di Dracone o alle leggi soloniane) e mai sconsacrate, a partire da un momento che non possiamo stabilire con esattezza, ma che deve essere anteriore al 415, prende forma un procedimento per evitare l’incoerenza in materia legislativa: si tratta dell’azione pubblica per illegalità (graphe paranomon). Non posso entrare qui nei dettagli, ma mi preme sottolineare che il principio alla base del procedimento di cui stiamo parlando è quello secondo cui il primato spetta, in caso di conflitto normativo, alla disposizione giuridica anteriore (lex prior derogat posteriori), laddove noi eredi del diritto romano seguiamo il principio inverso (lex posterior derogat priori). Dunque nel caso di Atene, assistiamo al tentativo di portare alla luce la contraddizione derivante dal sovrapporsi (sino ad allora tacitamente accettato) di misure discordanti e di ovviarvi, ma il primato spetta alla norma giuridica anteriore e non alla norma più recente in ordine di tempo. È un dato indicativo, perché getta luce su una visione del mondo.

Giorgio Camassa (Roma 1951) è stato ordinario di Storia greca presso l’Università di Udine. Ha pubblicato fra l’altro La lontananza dei Greci (2004); La Sibilla giudaica di Alessandria. Ricerche di storia delle religioni (2005); Atene. La costruzione della democrazia (2007); Forme della vita politica dei Greci in età arcaica e classica (2008); Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico. Dal Vicino Oriente alla Grecia di età arcaica e classica (2011); Statuto del corpo e annuncio di salvezza, I. Dalla Grecia di età classica alla Palestina nel momento di Gesù (2022). Suoi scritti sono apparsi in Francia, Germania, Stati Uniti, Svizzera.

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