“Scritti. Percorsi di libertà religiosa per una società plurale” di Silvio Ferrari

Prof. Silvio Ferrari, è appena uscita, per i tipi del Mulino, una raccolta dei Suoi Scritti dal sottotitolo Percorsi di libertà religiosa per una società plurale: che importanza riveste, per la costruzione di una società genuinamente pluralistica, la libertà religiosa?
Scritti. Percorsi di libertà religiosa per una società plurale, Silvio FerrariLa libertà religiosa è spesso intesa come libertà di scegliere la religione che si preferisce. Questa concezione è riduttiva e non contribuisce molto allo sviluppo di società autenticamente pluraliste. Il pluralismo sociale ha infatti bisogno, per crescere, non soltanto di differenti concezioni della vita e del mondo ma anche di differenti esperimenti di “vivere insieme” che mettano in pratica quelle concezioni. Allora la libertà religiosa è la libertà progettare e sperimentare i rapporti famigliari, i progetti educativi l’impegno civile e politico a partire dalle proprie convinzioni religiose (naturalmente ciò vale anche per le convinzioni umanistiche o ateistiche). Quasi nessuno oggi mette in questione, in Occidente, il diritto di scegliere, cambiare, abbandonare la propria religione: ma quando la libertà di religione riguarda il modo di vestirsi, il cibo che si vuole o non si vuole mangiare, il modo di concepire i rapporti tra uomo e donna tutto diventa molto più difficile e controverso. È qui che oggi si gioca la partita della libertà religiosa ed anche quella del pluralismo sociale e giuridico: una libertà religiosa ridotta ad un diritto di scelta della religione non può realmente contribuire alla costruzione di una società pluralista.

Che ruolo svolge il fattore metodologico nella costruzione del sistema del diritto ecclesiastico?
La metodologia del diritto ecclesiastico ruota attorno ad un interrogativo: in che modo uno Stato laico deve regolare i rapporti con i cittadini e le comunità che professano una religione? La risposta implica tre passaggi. Il primo consiste nell’affermare, senza se e senza ma, il primato della coscienza individuale, che implica il diritto di adottare e cambiare una religione o di non averne alcuna. Nessuno deve essere posto nell’alternativa di abbandonare la propria religione o essere ucciso, di convertirsi ad un’altra religione o di lasciare il proprio paese. Sembrano eventualità lontane da noi, ma basta attraversare il Mediterraneo perchè esse diventino tragiche realtà. Il secondo passaggio sta nell’idea che c’è un nucleo di diritti civili e politici che debbono essere riconosciuti in uguale misura a tutti i cittadini indipendentemente dalla religione che professano. La radice più profonda di questa idea risale alla distinzione che il cristianesimo ha introdotto tra il regno di Dio e quello di Cesare, la radice più prossima conduce alla tradizione di pensiero liberale da Locke in poi. Queste due radici si intrecciano nell’affermare che il fatto di professare o non professare una religione non ha e non deve avere alcuna influenza sui diritti civili (quello di sposarsi e creare una famiglia per esempio) o politici (quello di votare o di essere eletti a cariche pubbliche) che spettano a tutti i cittadini in uguale misura. L’ultimo passaggio ruota attorno alla collaborazione tra lo Stato e le comunità religiose. Nei limiti ora indicati, esse costituiscono una risorsa per l’intero paese: uno Stato autenticamente laico non sopprime le diversità culturali e religiose ma fornisce loro uno spazio per interagire e svilupparsi nell’interesse della democrazia, che non può esistere senza pluralismo. Chiarire che cosa implicano questi tre principi quando regola il diritto di famiglia o quello del lavoro o quello dell’educazione è il contributo che il diritto ecclesiastico può offrire ad uno Stato laico.

Quali questioni solleva la nozione giuridica di confessione religiosa?
La nozione giuridica di confessione religiosa pone problemi sia teorici che pratici. I primi dipendono dal fatto che non esiste una precisa definizione di religione: lo yoga è una religione? Scientologia è una religione? Sono questioni dibattute per anni senza che si sia mai riusciti a trovare una risposta convincente e condivisa. È quindi giocoforza ammettere che non siamo in grado di definire esattamente che cosa è una religione. Ciò di cui disponiamo è qualcosa di meno preciso, un paradigma di religione. Esso definisce un’area in cui si collocano le religioni che la maggioranza ritiene tali (buddismo, cristianesimo, ebraismo, islam, ecc.), circondata da una zona grigia in cui si trovano le concezioni ed esperienze che sono al confine tra la religione, la filosofia, la psicologia e la spiritualità. I problemi pratici derivano da questa ambiguità. Le religioni godono di un trattamento generalmente più favorevole di quello riservato ad altri gruppi sociali: ricevono finanziamenti pubblici, godono di esenzioni dal rispetto di regole che si applicano in via generale. Essere riconosciuti come una religione rappresenta spesso un vantaggio e quindi questo riconoscimento è talvolta ricercato anche da gruppi che veramente religiosi non sono. Ma uno Stato laico può stabilire quando un gruppo è veramente religioso?

Quale dimensione, nella società contemporanea, per i simboli religiosi nello spazio pubblico?
Dal punto di vista della libertà religiosa è difficile capire perché, in certi paesi, gli studenti non possano indossare simboli religiosi a scuola, una donna non possa circolare per la strada con il volto coperto da un velo, un uomo non possa presentare una carta d’identità in cui è fotografato con un turbante sul capo. Non è chiaro quali pericoli giustifichino queste limitazioni della libertà. Per comprendere questi divieti bisogna guardare ai simboli religiosi da un altro punto di vista, quello della identità. Il velo, il turbante, la kippà sono considerati simboli di una identità che non è più soltanto religiosa ma anche culturale e politica. La religione è divenuta importante nella sfera pubblica perché costituisce il punto di coagulo di molteplici e diverse rivendicazioni. Indossare il velo islamico è equivale ad un “political statement”: nella percezione di molte persone il significato religioso del velo è sopraffatto da quello politico. Tutto ciò ci spinge in un terreno difficile: quello delle limitazioni del diritto di libertà religiosa in nome dell’ordine e della sicurezza pubblica. Senza sminuire l’importanza di questi due elementi, spesso ho l’impressione che ci si stia spingendo troppo oltre lungo questa strada e che ordine e sicurezza siano invocati per limitare le libertà delle persone anche quando essi non sono realmente in gioco.

È possibile conciliare diritti umani e diritti delle religioni?
La domanda tradisce una concezione un po’ statica dei diritti umani e dei diritti religiosi. In realtà tanto i primi quanto i secondi sono complessi normativi in costante evoluzione e interazione. È vero però che tra diritti dell’uomo e diritti di Dio c’è una irriducibile tensione.

Che relazione può sussistere tra cristianesimo e religione civile in Europa?
Il cristianesimo è uno dei due pilastri (l’altro è l’illuminismo) su cui poggia la religione civile in Europa. Se per religione civile intendiamo un nucleo di valori e principi condivisi che sono posti a base della convivenza sociale, è innegabile che il cristianesimo abbia contribuito a forgiarli. Prendiamo ad esempio la stessa idea di Stato laico, qualcosa che molte confessioni cristiane hanno guardato con sospetto fino a tempi assai recenti. Essa nasce in Europa (e non nei paesi musulmani o in quelli con una tradizione religiosa buddista o indù) perché l’idea cristiana di diritto divino naturale ha posto le premesse per immaginare la possibilità di una collaborazione tra tutti gli uomini a prescindere dalle loro convinzioni religiose. Tommaso d’Aquino ha dato forma compiuta all’idea che all’atto della nascita Dio ponga nella coscienza di ogni uomo, cristiano o non cristiano, alcuni principi di giustizia che gli consentono di condurre una vita retta. Grozio ha secolarizzato questa nozione ed il diritto naturale fondato su Dio è diventato il diritto naturale fondato sulla ragione ma la struttura del ragionamento resta inalterata: c’è qualcosa che permette a tutti gli uomini di lavorare insieme per il bene comune a prescindere dalle loro convinzioni religiose. È il nucleo dello Stato laico. Certamente il fatto che questo qualcosa sia Dio o la ragione umana non è irrilevante. Ma la tradizione cristiana aveva in sé la potenzialità di accettare lo Stato laico molto più di quella musulmana o ebraica.

Quale contributo possono offrire le discipline ecclesiasticistiche nella costruzione di un modello giuridico capace di gestire la diversità culturale e religiosa?
La diversità culturale e religiosa richiede, per svilupparsi, un habitat governato da regole che ammettano la possibilità che mondi valoriali alternativi coesistano. Le discipline ecclesiasticistiche sono nate per regolare i rapporti tra due di questi mondi, lo Stato e la Chiesa (uso questo termine per indicare tutte le comunità religiose). Sono rapporti asimmetrici: uno Stato laico ha la funzione di assicurare uno spazio in cui questi diversi mondi valoriali possano crescere senza entrare in conflitto tra di loro, la Chiesa è uno di questi mondi valoriali (non l’unico) che elabora e propone un futuro alternativo al presente. Per fare ciò la Chiesa ha bisogno di uno spazio di autonomia che non può però diventare un ghetto settario e prevaricatore. Evitare questi pericoli è il compito dello Stato e fissare i confini di questa autonomia in modo che essa permetta di sviluppare e sperimentare un “già e non ancora” (cioè un futuro alternativo al presente) senza entrare in confitto con gli altri mondi valoriali è il compito delle discipline ecclesiasticistiche.

Silvio Ferrari ha insegnato diritto ecclesiastico, diritto canonico e diritto comparato delle religioni nelle università di Parma, Torino e infine Milano. Fin dalla loro fondazione, ha diretto i «Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica». Attualmente insegna nella Facoltà di Teologia di Lugano.

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