
L’edizione dei documenti medievali del monastero di S. Maria di Tremiti occupò il prof. Petrucci dal 1954 al 1960: quale importanza riveste tale opera?
La (ri)scoperta e la pubblicazione, dedicata alla memoria del maestro Franco Bartoloni, del Cartolario tremitense è una tappa importante negli studi di Petrucci ed è altresì un solido tassello nella storia degli studi sull’Italia meridionale e la Puglia bassomedievale. Il primo dei tre volumi, nei quali è suddivisa l’opera, contiene una estesa Introduzione che ripercorre tutta la storia del monastero, dalla fondazione nel sec. IX alla fine del XVIII (nel 1237 il monastero passò ai Cistercensi di Casanova; nel 1412 subentrarono i Canonici regolari Lateranensi, che lo mantennero fino alla soppressione del 1782). Molte pagine sono dedicate all’archivio monastico, di cui per la prima volta si tracciano le fasi dalla formazione fino alla soppressione, quando passò al Grande Archivio di Napoli condividendone la tragica fine (la distruzione nell’incendio appiccato dai tedeschi a villa Montesano in San Paolo Belsito il 30 settembre 1943). Si ripercorre così l’intensa vita religiosa dell’abbazia di Tremiti, lungamente contesa per tutto il medioevo da Bizantini e Normanni, e se ne ricostruiscono i fatti intricati e possenti che – dice bene Antonio Motta nella nota introduttiva Per Armando Petrucci – «avrebbero potuto ispirare un romanzo di Umberto Eco» (p. 11). Con i suoi 150 documenti, l’edizione del Cartolario tremitense, ancora largamente utilizzata negli studi moderni, pose Petrucci dinanzi a molteplici sfide e prolungate ricerche, affrontate di volta in volta con il ricorso agli strumenti della filologia, diplomatica, archivistica, storiografica, quali erano richiesti dal diverso stato di conservazione della tradizione documentaria (copie plurime) e quali soltanto potevano assicurare un approccio maturo e totale al testo in termini di storicità.
Come si indirizzarono le sue ricerche sul culto di s. Michele arcangelo sul monte Gargano?
Il tenace legame con la terra d’origine e la costante attenzione al ruolo sociale della scrittura, spingono Petrucci fin da giovanissimo a interessarsi del culto di s. Michele arcangelo sul monte Gargano: in queste ricerche rilegge la tradizione micaelica nel suo contesto religioso, politico e sociale, riannodandone i fili con la storia e la cultura del tempo. La capacità di destreggiarsi nell’analisi di varia testualità (documenti, agiografie) e la segnalazione di numerosi reperti (graffiti paleocristiani e medievali, affreschi e altre opere d’arte) legati a Monte Sant’Angelo (o Montesantangelo, come amava scrivere) e al culto micaelico, fino ad allora sconosciuti o inediti, molto contribuirono a impostare gli studi in questo campo e a far uscire il santuario da un oblio di secoli: le risultanze di Petrucci sulle vicende del santuario garganico hanno costituito un valido punto di avvio per altri studiosi, che nel tempo hanno confermato, pur alla luce di altre nuove scoperte, l’impianto complessivo delle sue ricerche. Quanto al metodo di indagine, Petrucci fornirà una solida teorizzazione nella recensione al volume di Cristanziano Serricchio sulle Iscrizioni romane paleocristiane e medievali di Siponto (1978): «Di fronte a un gruppo di testimonianze iscritte lo storico si domanda quale ruolo esse svolgevano nella società del tempo»; l’analisi dei dati ricavabili dalla loro lettura, si riconosce, consente di trarre «utili elementi per delineare aspetti della vita economica, politica, sociale e religiosa» (p. 204).
Quale rilevanza evidenziò, lo studio della diplomatica normanna, dei documenti di Enrico conte di Montesantangelo e Roberto di «Basunvilla»?
Altro segmento significativo della produzione scientifica di Petrucci riguarda la diplomatica normanna, con la pubblicazione, inquadrata nella generale evoluzione del notariato, dei documenti di Enrico conte di Montesantangelo e di Roberto di «Basunvilla». Anche in questo caso, Petrucci si trovò ad affrontare la generale carenza di studi d’insieme sulla diplomatica dei feudatari italiani, sia dell’Italia settentrionale che più in particolare di quella meridionale, e ad aprire la strada a nuove ricerche in questo campo: «Nella attuale carenza di studi sulla diplomatica feudale italiana – notava nel primo di questi saggi (1959) –, potrà risultare non inutile l’esame dei documenti di alcuni fra i maggiori signori feudali dello stato normanno, al fine di illustrare le caratteristiche esterne che li contraddistinguono e di accertare l’esistenza e ricostruire il funzionamento delle singole cancellerie signorili da cui essi sono usciti» (p. 277). E non mancarono le acquisizioni, sul piano strettamente diplomatistico, come su quello storico e prosopografico.
Quali ipotesi avanzava il prof. Petrucci circa l’origine della scrittura barese?
Nel quadro della scrittura minuscola nota come beneventana (in uso nelle regioni dell’Italia meridionale continentale tra la fine dell’VIII sino al XIII secolo), in una vasta area della Puglia centrale, la Terra di Bari, e in alcuni centri della costa dalmata si affermò una tipizzazione con caratteristiche sue proprie definita ‘tipo di Bari’. Le prime testimonianze di questa tipizzazione in ambito librario risalgono all’XI secolo, con il celebre Exultet 1 della Cattedrale di Bari, che «mostra un tipo di scrittura già completamente formato, e tale da presupporre un precedente periodo di sviluppo del quale non possediamo alcuna testimonianza» (pp. 215-216). Non una deviazione dal canone, come gli studiosi pensarono inizialmente, e neppure un’evoluzione autoctona della corsiva documentaria pugliese sotto l’influsso bizantino, come dapprima ritenne Petrucci, al quale va il merito di aver riconosciuto fin da subito – ponendo attenzione alla questione, tuttora aperta, delle origini – influssi e suggestioni di modelli esterni (manoscritti greci) circolanti nell’ambiente barese.
N.B. Questo numero speciale de «Il Giannone», che raccoglie gli Scritti garganici e pugliesi di Armando Petrucci, è stampato in numero limitato di copie e può essere richiesto direttamente ad Antonio Motta (329 7320863) o scrivendo al «Centro Documentazione Leonardo Sciascia/Archivio del Novecento» di San Marco in Lamis: [email protected]