“Scritti corsari sul restauro” di Leonardo Germani

Prof. Leonardo Germani, Lei è autore del libro Scritti corsari sul restauro pubblicato dalle Edizioni ETS: cosa significa conservare un monumento?
Scritti corsari sul restauro, Leonardo GermaniPer quanto mi riguarda conservare un monumento significa innanzitutto conoscerlo, comprenderlo “intimamente” e questo perché credo che solo una conoscenza approfondita dell’opera può permetterci di capire quale sia il suo stato di “salute”, quale sia il suo trascorso e di conseguenza quali siano le sue “necessità”. Partendo da questo presupposto è possibile sviluppare un’impresa progettuale quale atto di custodia dell’opera, un’attività volta fondamentalmente a raggiungere tre obiettivi ossia: garantire l’estensione della vita fisica dell’edificio; tutelare la permanenza delle tracce che caratterizzano l’opera e ne trasmettano il significato e questo significa valutare l’opera come risultante di un processo di formazione e di trasformazione; ed infine, assicurare il “mantenimento” in uso, l’attualizzazione, seguendo un processo che prenda vita dalle vocazioni d’uso congenite alla fabbrica. Conservazione quindi come “processo” assiduo e giornaliero di tutela e non come esito dell’intervento, come risultato di una “conoscenza” risolta, definita, conclusa. Il Conservare un’opera prevede, dunque, il dialogo progettuale con il manufatto, nel senso però limitativo di aggiungere, senza detrarre elementi contemporanei al contesto; quindi, non rinuncia all’interpretare e al fruire le condizioni presenti, o meglio ricorrendo alle parole di Massimo Cacciari, non si tratta di “ritualistica conservazione di un dato” ma di “vivente ermeneutica”.

Quali devono essere i presupposti di ogni azione conservativa?
Questa risposta in parte si lega a quella precedente, i presupposti possono prendere vita da differenti riflessioni: la fabbrica deve essere considerata, prima ancora di oggetto d’intervento, come soggetto, come un organismo, elemento vivo, con il proprio carattere, la propria personalità, la propria età, il proprio vissuto che il trascorrere del tempo trasforma ed arricchisce, così interpretata la fabbrica sarà in grado di dettare le regole, i modi e le formule dell’azione conservativa.

Una seconda riflessione nasce dal percepire il patrimonio culturale non quale semplice lascito del passato da trasmettere passivamente a chi verrà dopo di noi. Al contrario, se veramente si “ha a cuore” la conservazione del patrimonio questo necessita di essere sentito come un’eredità sì da custodire/tutelare da trasmettere al futuro ma anche eredità da mantenere/ri- attivare/ri-conquistare attraverso lo studio, la conoscenza e l’abitare responsabilmente, solo così infatti riusciremo a garantirne una sopravvivenza vitale. Il patrimonio costruito necessita di essere compreso, tutelato e conservato ma con la competenza dell’innovazione e, se mi è concesso il termine, l’audacia del cambiamento, conservazione dunque attiva e consapevole senza incorrere nell’errore di considerare sinonimi conservazione e conservatorismo. Un’ulteriore riflessione che mi sento di accennare prende vita dalla considerazione che per un reale quanto graduale avanzamento della disciplina e, allo stesso tempo, per tentare di ricucire la distanza che oggi separa la teoria dalla prassi operativa sia necessario prendere le distanze da atteggiamenti “assolutistici”, posizioni di principio “ideologiche” che non sempre permettono la “lucidità” di valutazione delle reali necessità del manufatto oggetto di cura. Atteggiamenti assolutistici sono infatti in grado di generare un clima di insofferenza, di incomprensione verso la tutela che viene vista sempre più spesso, specie dal “cittadino” comune che sovente sente il patrimonio come qualcosa di non suo, di lontano, come “ostacolo” sistematico allo sviluppo.

Come si articola il dibattito disciplinare contemporaneo sul tema del restauro?
Questa risposta necessiterebbe di un’ampia argomentazione e credo che in parte esuli dal presente contesto. La riflessione che mi sento di fare prende spunto da uno scritto di Franco Borsi di qualche anno fa, nel suo contributo l’autore mette in guardia la cultura del restauro da una duplice “sfida” riguardante sia i contenuti che la comunicazione. Pur essendo passato quasi un quarto di secolo credo che questa sfida sia ancora parzialmente aperta. Per quanto concerne i “contenuti”, la cultura del restauro, da una parte ha sicuramente implementato la riflessione teorico-critica sottolineando e condividendo alcuni punti fermi, alcuni criteri che possono essere identificati nel minimo intervento, nella compatibilità materica-strutturale e funzionale, nel rispetto dell’autenticità, della distinguibilità e della removibilità, enfatizzando però anche certi “rischi” di astrattezza, di suddivisione di scuole, palesando la sua parziale incapacità di comunicare; dall’altra questo settore, congiuntamente agli altri ambiti limitrofi e per certi aspetti più ambigui e se vogliamo equivoci quali il consolidamento, la ristrutturazione, la riqualificazione (grazie anche ai cosiddetti “bonus” sempre più presenti) riveste un ruolo di protagonista a livello quantitativo del mercato edile-professionale degli interventi sul costruito storico. In aggiunta a questo, complice la crisi economica che stiamo vivendo, siamo spettatori impotenti del diffondersi di un esercizio professionale privo di adeguate competenze, che lascia sul patrimonio architettonico tracce, per non dire ferite, talvolta (ahime!) non rimarginabili. Per quanto, invece, riguarda i problemi di “comunicazione” si assiste ad un fenomeno di emarginazione. In una società in cui la comunicazione riveste un ruolo così cruciale, non a caso oggi a qualsiasi personaggio pubblico viene chiesto di essere un buon comunicatore, la cultura del restauro (inteso in senso ampio come intervento sul patrimonio costruito), appare segregata, ignorata, quasi totalmente scomparsa dai quotidiani, dalle riviste generaliste, risulta estromessa dalle trasmissioni televisive ad eccezione di alcuni programmi che contribuiscono ad implementare equivoci ed incomprensioni, appare confinata in riviste di settore lette quasi esclusivamente dagli specialisti. Di norma il restauro viene alla ribalta, uscendo fuori da questo alveo inaridito, solo quando “fa notizia”, sovente in negativo, per commentare gli esiti di un intervento non condiviso dall’opinione pubblica (che non sempre dimostra di essere in possesso degli strumenti culturali necessari per comprendere le scelte fatte) o per l’insorgere di una diatriba in relazione al “come” si dovrà intervenire per provvedere all’avvenuto sinistro (crollo di una porzione di mura urbiche o di una domus pompeiana) o ad un evento calamitoso.

Due sfide che non possono avere percorsi separati ma convergenti e complementari considerato che solo attraverso un appropriato processo di comunicabilità è possibile organizzare e far comprendere i contenuti, allo stesso tempo solo se quest’ultimi sono stati oggetto di un processo di discussione e di sedimentazione è possibile porre la comunicazione in termini di comprensibilità e di diffusione.

Come può avvenire l’incontro tra antico e nuovo?
Conservare in quanto tale non implica il conservare tale e quale ossia così com’è. I criteri della mummificazione e dell’ibernazione non identificano, per me, l’asse centrale di un intervento di conservazione, anche se, talvolta possono risultare le soluzioni più indicate o perfino le uniche da perseguire. Il restauro è sintesi della cultura della conservazione e di quella dell’innovazione dove la preesistenza deve essere assunta come referente al quale e del quale deve rispondere l’atto “creativo” (attualizzazione) per non contraddire il fine più ambito della conservazione ossia, come avrebbe detto Paolo Torsello, «tutelare una possibilità del comprendere».
Partendo da queste considerazioni è possibile affermare che le due anime del progetto di restauro, nello specifico il “momento conservativo” ed il “momento innovativo”, esigono di essere allineate sul medesimo approccio critico in consonanza metodologica dove l’una è alimentata dalle suggestioni e dalle necessità dell’altra e viceversa: in buona sostanza, si tratterà di stabilire un dialogo, dialogico più che dialettico. ‘Conservare’ e ‘rinnovare’ sono termini che possono/devono coesistere purché si abbia l’accortezza e la probità di conoscere/comprendere in modo approfondito tutto il costruito a prescindere da ogni valutazione o propensione di natura storica ed estetica e solo allora compiere l’eventuali scelte. Credo che il modo migliore per contribuire alla conservazione ed al rinnovamento dell’opera collettiva impersonata dalla città storica sia quello di rinunciare ad ogni ambizione di protagonismo di autoaffermazione di imposizione di un proprio linguaggio solo per marcare il territorio e sentirsi riconoscibili. Si rende necessario quindi una sorta di atto di sacrificio/ rinuncia da adempiere in qualche misura di gratitudine, di riconoscenza verso il costruito storico da manifestare ogni qual volta saremo coinvolti nella progettazione di un intervento non sul e neppure nel ma per il costruito storico. Quando si opera per il costruito storico, ma forse anche più in generale quando si pensa ad un’architettura, dovremmo educarci, come ricorda acutamente Fernando Tàvora, a “resistere alla pura voluttà della forma” ed io aggiungo a resistere a riproporre rassicuranti soluzioni “pronte all’uso” non pensate, non “cucite” su misura per il nostro manufatto. Intervenire per il costruito non deve essere inteso come rinuncia aprioristica del fare architettura, anzi, al contrario è proprio da un confronto aperto, inclusivo e libero con il passato che sarà possibile esaltare l’intensità espressiva del nuovo e dell’antico.

Quali sono le difficoltà maggiori nella pratica di cantiere?
Se il progetto ha la possibilità di essere ben studiato ed organizzato lo svolgimento delle fasi realizzative, quale di fatto è la pratica di cantiere, non presentano grandi difficoltà piuttosto direi che possono offrire l’opportunità di un’ulteriore fase di analisi, una sorta di “supplemento” di studio di crescita della conoscenza dove le soluzioni costruttive, in relazione allo stato di consistenza dell’opera, permettono il collaudo e/o l’eventuale adattamento delle soluzioni tecniche opzionate in fase di progetto. Le eventuali difficoltà possono nascere se si è costretti, per le motivazioni più svariate, ad affrontare la pratica di cantiere con un progetto non adeguatamente organizzato ovvero non fondato su un’approfondita conoscenza dell’opera né su un severo processo di confutazione sistematica delle scelte, in questo caso infatti l’“imprevisto”, la mediazione di cantiere diventa l’ordine del giorno e questo comporta la necessità di abbreviare in modo considerevole la fase di valutazione ed esame delle problematiche da affrontare.

Un secondo caso, dove la pratica di cantiere può mostrare alcune difficoltà sia dal punto concettuale che operativo, è quando dobbiamo affrontare l’intervento di restauro con maestranze non del tutto “formate” con le quali il confronto, sia per quanto concerne l’approccio metodologico, sia per quanto riguarda le scelte tecniche, non sempre risulta agevole. Tale contingenza, più rara in ambito pubblico ma, purtroppo, non così rara in ambito privato, è ahimè, figlia anche della recente crisi economica che per penuria di opportunità ha riversato in questo delicato ambito lavorativo tecnici e addetti che non si sono formati attraverso una cultura specialistica.

Leonardo Germani, architetto libero professionista, dottore di ricerca in Architettura, docente a contratto di Restauro Architettonico presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze. Concentra i suoi interessi verso gli ambiti disciplinari inerenti la tutela, la valorizzazione e il restauro dei manufatti architettonici ed urbani. Ha progettato e diretto numerosi interventi di restauro. Tra le sue pubblicazioni: Degrado dei materiali dell’edilizia. Cause e valutazioni delle patologie (con S. Franceschi, Dei, 2020, III ed); Manuale Operativo per il Restauro Architettonico (con S. Franceschi, Dei, 2010, IV ed).

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