“Scritti civili” di Armando Petrucci, a cura di Attilio Bartoli Langeli, Antonio Ciaralli, Marco Palma

Scritti civili, Armando Petrucci, Attilio Bartoli Langeli, Antonio Ciaralli, Marco PalmaCol titolo di Scritti civili Viella pubblica una raccolta di testi di Armando Petrucci che ebbero diffusione per mezzo di giornali quotidiani e della stampa periodica non specialistica, curata da Attilio Bartoli Langeli, Antonio Ciaralli e Marco Palma. Si tratta, nell’insieme, di 63 interventi appartenuti all’ampio arco cronologico che spazia dal 1972 sino al 2012.

Il perché del titolo, Scritti civili, trova subito spiegazione: «‘civile’ assume qui il valore di ‘civiltà’ […] Ebbene, anche le note di lettura di Petrucci, quelle più anodine e apparentemente neutre, fanno fede della dimensione civile del lavoro culturale di Petrucci. Sembrano asettiche recensioni di uno studioso straniato, e invece sono prove di costante tensione (che vorremmo chiamare lotta) per la civiltà e, in questa, soprattutto per la civiltà della scrittura.»

«Un ramo secondario della produzione scritta di Petrucci […] verrebbe da pensare marginale rispetto agli interessi maggiori di storia della cultura scritta che hanno alimentato la cospicua attività professionale del Petrucci paleografo e diplomatista, quale egli sempre rivendicò di essere […] Non è così. Leggendo queste pagine ci si renderà presto conto di come sia difficile, e anzi impossibile, districare l’attività dello studioso da quella dell’intellettuale e quella dell’intellettuale da quella del militante.»

Nel volume si individuano alcuni motivi di fondo che ricorrono. Agli inizi prevalsero questioni legate alla vita universitaria. Un altro tema assai presente è quello delle scritture selvagge, dei graffiti urbani: «Su questo problema Petrucci assunse una posizione minoritaria, impopolare: non la condanna che si aspettava e reclamava una pruderie ipocrita e borghese, […] ma lo sguardo appassionato e mai compassionevole dello storico. […] Pare evidente che la posizione di Petrucci fosse dovuta alla sua concezione alta, civile dello scrivere: ogni manifestazione di scrittura ‘dal basso’ è per lui di per sé positiva, anche se imbratta i muri delle città, anche se invade, horribile dictu, il recinto della proprietà privata: «Ciò che nei graffiti sorprende e offende buona parte dell’opinione pubblica (…) non è la presenza e l’esposizione dello scritto, quanto piuttosto chi li esegue, le motivazioni per cui lo fa, il modo in cui le realizza e soprattutto il luogo: in spazi di scrittura che sono sempre o di pubblica o di privata proprietà», dove, ancora una volta, egli avvertiva, invadente e oppressivo, il ‘controllo dell’autorità’».

Sono ad ogni modo le pagine dove la lezione si fa più alta quelle in cui Petrucci si interroga da par suo sul libro, e in particolare sul suo futuro: «per circa due millenni il libro, così come lo conosciamo, è stato lo strumento principe della cultura scritta dell’uomo ed è assurto anche a simbolo del mondo e dell’universo. Il “libro del mondo” ha costituito un topos ideologico e poetico assai diffuso nella cultura europea, dai Padri a Cartesio e a Galileo, come ha raccontato a suo tempo Ernst Robert Curtius, mentre il libro come oggetto è stato motivo letterario continuamente richiamato e usato dalla élite dei colti, da Agostino ai poeti e letterati di ieri e di oggi. La sua materiale sostituzione con pratiche visive informatiche modificherà la nostra stessa visione del mondo? Ci renderà meno capaci di capire la cultura del passato? Ciò è possibile, anzi è probabile».

Il dibattito non è in realtà affatto nuovo: «Da sempre nelle società alfabetizzate i temi relativi agli sviluppi, alle tecniche, alla sorte delle testimonianze scritte, alla loro diffusione, trasmissione, circolazione hanno costituito argomento di riflessione, di analisi, di dibattito e suscitano sentimenti opposti, ora di orgoglio e di fiducia, ora di sconforto e di pessimismo. Ogni crisi del sistema sociale di scrittura, ogni cambiamento che ne abbia modificato tecniche di produzione e modi di trasmissione, non ha fatto che esacerbare i toni del dibattito, coinvolgendo ogni volta porzioni cospicue di quella che si usa definire la pubblica opinione, cioè gli strati attivamente acculturati della società. Tutto ciò è già avvenuto nell’Europa moderna al tempo della diffusione dei procedimenti meccanici per la produzione dei testi fra secondo Quattrocento e primo Cinquecento, o nell’Ottocento di fronte all’industrializzazione della stampa e all’alfabetizzazione di ampi strati delle classi subalterne.»

Ecco dunque che si rinnova «una oggettivamente noiosa, sovrabbondante e inutile sovrapproduzione di Books about Books, di riflessioni e di giudizi spesso avventati emessi a proposito delle nuove tecniche del riprodurre e diffondere testi»

Il punto di vista di Petrucci è tanto netto quanto lucido: «la più diffusa (e la più urlata) preoccupazione corrente è quella che riguarda una presunta fine della scrittura eseguita nei modi tradizionali e di quello che, nella parziale e distorta ottica degli intellettuali è considerato il suo principale prodotto: il libro. In realtà l’umanità, dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest del pianeta, non ha mai prodotto, globalmente parlando, tanti libri, tanti giornali e periodici, tante testimonianze scritte quanti ne produce ora: e la stessa produzione di documentazione informatica resta pur sempre scritta, anche se su supporto effimero e molto spesso è stampata a sua volta su carta. […] È, al contrario, ragionevole, e perciò onesto, supporre che nel futuro prossimo la scrittura alfabetica e il libro occuperanno un posto di rilievo all’interno di un sistema plurimo di trasmissione della cultura e dell’informazione, ricco di mezzi e di strumenti differenziati, in qualche modo fra loro conflittuali, almeno a livello di mercato, ma fra loro complementari a livello di uso.»

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