
Il perché del titolo, Scritti civili, trova subito spiegazione: «‘civile’ assume qui il valore di ‘civiltà’ […] Ebbene, anche le note di lettura di Petrucci, quelle più anodine e apparentemente neutre, fanno fede della dimensione civile del lavoro culturale di Petrucci. Sembrano asettiche recensioni di uno studioso straniato, e invece sono prove di costante tensione (che vorremmo chiamare lotta) per la civiltà e, in questa, soprattutto per la civiltà della scrittura.»
«Un ramo secondario della produzione scritta di Petrucci […] verrebbe da pensare marginale rispetto agli interessi maggiori di storia della cultura scritta che hanno alimentato la cospicua attività professionale del Petrucci paleografo e diplomatista, quale egli sempre rivendicò di essere […] Non è così. Leggendo queste pagine ci si renderà presto conto di come sia difficile, e anzi impossibile, districare l’attività dello studioso da quella dell’intellettuale e quella dell’intellettuale da quella del militante.»
Nel volume si individuano alcuni motivi di fondo che ricorrono. Agli inizi prevalsero questioni legate alla vita universitaria. Un altro tema assai presente è quello delle scritture selvagge, dei graffiti urbani: «Su questo problema Petrucci assunse una posizione minoritaria, impopolare: non la condanna che si aspettava e reclamava una pruderie ipocrita e borghese, […] ma lo sguardo appassionato e mai compassionevole dello storico. […] Pare evidente che la posizione di Petrucci fosse dovuta alla sua concezione alta, civile dello scrivere: ogni manifestazione di scrittura ‘dal basso’ è per lui di per sé positiva, anche se imbratta i muri delle città, anche se invade, horribile dictu, il recinto della proprietà privata: «Ciò che nei graffiti sorprende e offende buona parte dell’opinione pubblica (…) non è la presenza e l’esposizione dello scritto, quanto piuttosto chi li esegue, le motivazioni per cui lo fa, il modo in cui le realizza e soprattutto il luogo: in spazi di scrittura che sono sempre o di pubblica o di privata proprietà», dove, ancora una volta, egli avvertiva, invadente e oppressivo, il ‘controllo dell’autorità’».
Sono ad ogni modo le pagine dove la lezione si fa più alta quelle in cui Petrucci si interroga da par suo sul libro, e in particolare sul suo futuro: «per circa due millenni il libro, così come lo conosciamo, è stato lo strumento principe della cultura scritta dell’uomo ed è assurto anche a simbolo del mondo e dell’universo. Il “libro del mondo” ha costituito un topos ideologico e poetico assai diffuso nella cultura europea, dai Padri a Cartesio e a Galileo, come ha raccontato a suo tempo Ernst Robert Curtius, mentre il libro come oggetto è stato motivo letterario continuamente richiamato e usato dalla élite dei colti, da Agostino ai poeti e letterati di ieri e di oggi. La sua materiale sostituzione con pratiche visive informatiche modificherà la nostra stessa visione del mondo? Ci renderà meno capaci di capire la cultura del passato? Ciò è possibile, anzi è probabile».
Il dibattito non è in realtà affatto nuovo: «Da sempre nelle società alfabetizzate i temi relativi agli sviluppi, alle tecniche, alla sorte delle testimonianze scritte, alla loro diffusione, trasmissione, circolazione hanno costituito argomento di riflessione, di analisi, di dibattito e suscitano sentimenti opposti, ora di orgoglio e di fiducia, ora di sconforto e di pessimismo. Ogni crisi del sistema sociale di scrittura, ogni cambiamento che ne abbia modificato tecniche di produzione e modi di trasmissione, non ha fatto che esacerbare i toni del dibattito, coinvolgendo ogni volta porzioni cospicue di quella che si usa definire la pubblica opinione, cioè gli strati attivamente acculturati della società. Tutto ciò è già avvenuto nell’Europa moderna al tempo della diffusione dei procedimenti meccanici per la produzione dei testi fra secondo Quattrocento e primo Cinquecento, o nell’Ottocento di fronte all’industrializzazione della stampa e all’alfabetizzazione di ampi strati delle classi subalterne.»
Ecco dunque che si rinnova «una oggettivamente noiosa, sovrabbondante e inutile sovrapproduzione di Books about Books, di riflessioni e di giudizi spesso avventati emessi a proposito delle nuove tecniche del riprodurre e diffondere testi»
Il punto di vista di Petrucci è tanto netto quanto lucido: «la più diffusa (e la più urlata) preoccupazione corrente è quella che riguarda una presunta fine della scrittura eseguita nei modi tradizionali e di quello che, nella parziale e distorta ottica degli intellettuali è considerato il suo principale prodotto: il libro. In realtà l’umanità, dal Nord al Sud, dall’Est all’Ovest del pianeta, non ha mai prodotto, globalmente parlando, tanti libri, tanti giornali e periodici, tante testimonianze scritte quanti ne produce ora: e la stessa produzione di documentazione informatica resta pur sempre scritta, anche se su supporto effimero e molto spesso è stampata a sua volta su carta. […] È, al contrario, ragionevole, e perciò onesto, supporre che nel futuro prossimo la scrittura alfabetica e il libro occuperanno un posto di rilievo all’interno di un sistema plurimo di trasmissione della cultura e dell’informazione, ricco di mezzi e di strumenti differenziati, in qualche modo fra loro conflittuali, almeno a livello di mercato, ma fra loro complementari a livello di uso.»