
Il Suo libro rappresenta un affascinante viaggio nella quotidianità della creazione letteraria: abituati a conoscerli nelle aule scolastiche ed universitarie, dimentichiamo che gli scrittori sono assai più simili a noi di quanto pensiamo.
Osservare da vicino la nascita di un capolavoro ci mette a contatto con una zona fragile, provvisoria, incerta che è propria di ogni fase di creazione. È un aspetto a cui dedico molte pagine nel libro: il senso di conquista, di ricerca dentro la lingua di qualcosa di nuovo. Il manoscritto delle Operette morali di Leopardi è forse quello, tra quelli che ho scelto, in cui questo lavoro è particolarmente visibile: nei margini ci sono decine e decine di varianti, soluzioni alternative, prove. Un cantiere aperto in cui si vede come la perfezione dello stile leopardiano sia come distillato sapientissimo, frutto di uno scavo incessante sulla lingua: per un aggettivo, Leopardi è capace di annotare nel margine cinque o sei alternative prima di scegliere; e questo per decine e decine di volte. Anche gli autografi di Ariosto sono impressionanti: si vede un lavoro di correzione che, dai primi abbozzi, arriva sino alle pagine in tipografia.
Quale, tra le vicende da Lei raccontate, la colpisce di più e perché?
Quando ho iniziato a scrivere il libro ero molto incerto se includere o meno il mio punto di vista. Poi, mentre scrivevo, mi sono reso conto che era importante, per il tipo di libro che avevo in mente, cercare di raccontare, nel concreto, l’esperienza di fare ricerca, di viaggiare da una città all’altra per biblioteche e collezioni. Tenga presente che, tranne un paio di casi, i manoscritti che descrivo sono oggi molto difficilmente consultabili. Ciò che volevo cercare di trasmettere era anche l’emozione di poter osservare da vicino questi tipo di testimonianze. Un’emozione che ho vissuto in prima persona molte volte nella mia vita e che volevo condividere con il lettore. Poter sfogliare l’originale del Canzoniere di Petrarca, ossia del codice da cui dipende gran parte della poesia occidentale, è un’esperienza difficilmente dimenticabile. Lo stesso poter tenere in mano il foglio su cui, in pieno Quattrocento, Leon Battista Alberti, uno dei massimi artisti del Rinascimento, ha disegnato una serie di lettere per rappresentare i suoi della lingua toscana: l’inizio della più antica grammatica della lingua italiana. Difficile non pensare a tutto il futuro che si è sviluppato dopo, per la nostra lingua.
La Sua è anche una riflessione sulle modalità di produzione del testo: la rivoluzione digitale, così come fu per l’introduzione della stampa, è destinata a cambiare le nostre abitudini?
Il titolo del libro è stato scelto per questo: oggi la scrittura a mano è un’eccezione; solo trent’anni fa lo stesso titolo avrebbe avuto molta meno forza. Il passaggio al digitale è una innovazione radicale che cambia il modo di scrivere in modo profondo. Non è solo la progressiva diminuzione di una pratica millenaria: con il digitale, per la prima volta, la scrittura si è slegata da una dimensione fisica, materiale, per diventare immateriale. Incidere su una tavoletta cerata o scrivere con la biro su un taccuino, per quanto siano due pratiche molto diverse, sono entrambe collegate a una dimensione fisica. Non così scrivere un testo al computer.
Tutto questo avrà una ricaduta su più livelli. È verosimile che ad essere ripensato debba essere, ad esempio, anche il ruolo delle biblioteche. Ora che non solo i testi possono avere anche una vita solamente elettronica ma la loro accessibilità è molto cambiata qual è la funzione che questi enormi archivi di testimonianze fisiche debbono avere?
Per questo, nel libro, ho voluto descrivere gli ambienti che oggi conservano i vari manoscritti: le sale lettura delle biblioteche, il contatto con i bibliotecari, le abitudini di chi fa ricerca, compreso il piacere di finire la giornata di lavoro passeggiando per le vie di una città che comincia ad animarsi per la sera.
Nel Suo libro ha incluso, tra il Decameron di Boccaccio ed il Canzoniere Petrarca, i padri della lingua italiana, anche Umberto Eco, recentemente scomparso, con Il nome della rosa: una consacrazione ufficiale nel pantheon letterario nazionale?
Non credo, francamente, che Eco abbia bisogno del mio libro per essere consacrato nel pantheon nazionale. Ammetto però che da quando è uscito il libro mi è arrivata da più parti la stessa domanda, segno che una qualche sorpresa c’è. Per me, l’idea di chiudere con Eco era abbastanza naturale: considerando opere che hanno, come dicevo all’inizio, costituito dei salti, delle innovazioni, un rischio creativo da parte dei loro autori, è innegabile che Il nome della rosa sia stato un libro del tutto nuovo per la letteratura italiana. Non solo per il successo internazionale che ha avuto ma anche per il modo in cui è stato scritto: puntando su un genere poco blasonato da noi come il romanzo di investigazione, utilizzando un tipo di scrittura distantissima da quella tradizionale, con una rete complessa di rimandi culturali stratificati, con un rifiuto della bella pagina a favore dell’efficacia dell’azione. Per questo avevo scritto a Eco illustrando il mio progetto quando il libro era ancora all’inizio, nell’ottobre del 2015. Devo alla generosità della famiglia il fatto di aver avuto accesso, nel settembre dell’anno scorso, al suo materiale di composizione, che – a quanto ne so – non era stato mai studiato prima. Questo mi ha permesso di chiudere il libro così come era stato progettato, con una struttura ad anello. Non bisogna dimenticare che Il nome della rosa è scritto in modo tale da simulare un manoscritto medievale e racconta una storia avvenuta anni prima del Decameron: come ricorderà, frate Guglielmo muore nella peste nera del 1348. Quale modo migliore per chiudere un libro che parla di manoscritti e si apre con Boccaccio?