“Scoprire Dio con Husserl” di Michele Marchetto

Prof. Michele Marchetto, Lei è autore del libro Scoprire Dio con Husserl edito da Scholé. Il padre della fenomenologia confesserà, pochi anni prima della sua morte, «ho voluto raggiungere Dio senza Dio»: quale scommessa sviluppa, in relazione alla conoscenza divina, il filosofo tedesco?
Scoprire Dio con Husserl, Michele MarchettoNel rispondere a questa domanda prendo le mosse da due espressioni, la cui chiarificazione consente di precisare la prospettiva dalla quale Husserl guarda al tema di Dio: “scommessa” e “conoscenza divina”. Quanto alla prima, che evoca la ben nota “scommessa” di Pascal, Husserl rinuncia alle prove dell’esistenza di Dio, che attengono alla teologia, ma soprattutto sono del tutto estranee all’immersione fenomenologica nell’io e nella coscienza trascendentale. Piuttosto, a Husserl interessa come Dio si annunci alla coscienza e come questa ne faccia esperienza, il che non significa perdere Dio, con la sua assolutezza e trascendenza, ma riottenerlo tramite l’io. Emmanuel Levinas, che pure esprime riserve sulle frammentarie indicazioni di Husserl relative a Dio, riconosce che senza la nozione fenomenologica di intenzionalità non sarebbe possibile avere accesso a certe realtà, come quella di Dio, che per loro natura si possono esprimere solo in formulazioni assurde per la logica di un pensiero oggettivante, ma inevitabili per chi vuole stabilire con esse un vero contatto. Nel caso della realtà divina, di cui si occupa la teologia e che si annuncia alla coscienza trascendentale, essa solleva problemi di grande rilevanza: l’enigma della sua trascendenza e della sua assolutezza rispetto all’assolutezza immanente della coscienza pura. Affrontarli attraverso la fenomenologia non significa accedere alla “conoscenza divina”, ma adottare il punto di vista dell’esperienza dell’io trascendentale, rovesciando la prospettiva della teologia. Dio, infatti, non può essere invocato per spiegare l’esperienza, ma deve essere scoperto attraverso l’esperienza che l’io fa di se stesso. La fenomenologia di Dio disvela il Dio-fenomeno: Dio in quanto datoci nell’esperienza. Questa la ragione per cui il fenomenologo di Dio non sviluppa una conoscenza divina, relativa all’esistenza di Dio e alle sue implicazioni, ma si occupa unicamente del modo in cui Dio si dà alle «oscure profondità della coscienza ultima».

Tre anni prima di morire lo stesso Husserl, di origine ebrea, convertitosi al protestantesimo nel 1886 all’età di ventisette anni, confida alla benedettina Suor Adelgundis Jaegerschmid di aver tentato di «giungere alla meta senza l’aiuto della teologia, delle sue prove e dei suoi metodi; in altri termini, ho voluto raggiungere Dio senza Dio. Ho dovuto eliminare Dio dal mio pensiero scientifico per aprire la via a chi non conosce come voi la strada sicura della fede che passa attraverso la Chiesa. Sono consapevole del pericolo di tale procedere e del rischio in cui io stesso sarei incorso se non mi fossi sentito profondamente legato a Dio e cristiano nel profondo del cuore». Il fenomenologo conduce la propria ricerca in base al presupposto di un «filosofare ateologico». Eppure il punto di partenza e il punto di arrivo della sua ricerca sembrano essere decisamente religiosi, se non teologici: egli ha inteso aprire la via verso Dio a chi non conosce la fede; ed è giunto a Dio attraverso una progressiva essenzializzazione dell’umano, una riduzione sempre più radicale dell’uomo all’essenzialità dell’«Io sono» e alla sua evidenza, là dove si pone la domanda sull’inizio assoluto.

Perdendo il Dio fuori di sé, dunque, Husserl lo ha riottenuto dentro di sé; ma quale Dio ha riottenuto? Non un Dio personale, un Dio della Rivelazione, che chiama l’uomo e continua a chiamarlo anche senza che ne riceva risposta; non un Dio al quale si rivolgono l’invocazione e la preghiera dell’uomo; non un Dio della relazione, un Tu eterno che ha bisogno dell’uomo come l’uomo ha bisogno di quel Tu. Ma un Dio ideale o logicizzato, che l’uomo è chiamato a realizzare, che l’io trascendentale riconosce dentro di sé nella misura in cui è l’io stesso la condizione del suo senso.

In che modo la fenomenologia costituisce un «metodo di vita spirituale»?
È Levinas a definire «metodo di vita spirituale» il metodo radicale e universale della fenomenologia, quello con il quale io colgo me stesso come io puro insieme alla mia vita di coscienza pura. L’epochè e le sue riduzioni, infatti, non hanno il carattere della provvisorietà in vista del raggiungimento di una certezza evidente, ma rappresentano la rivoluzione interiore con cui lo spirito esiste secondo quella vocazione di libertà dal mondo che si manifesta nella conquista della coscienza assoluta. È vita spirituale la radicalità con cui la volontà si rivolge a ciò che è ultimo, il vivere rivolto ai poli eterni, in cui il filosofo realizza se stesso come io eterno.

Da questa prospettiva l’io trascendentale, conquistato attraverso il metodo fenomenologico, oltre ad essere origine e fonte ultima di tutte le formazioni conoscitive, si rivela anche, in quanto libertà del dominare se stesso, la sorgente della vita pratica e concreta. Il che significa, come osserva ancora Levinas, che la coscienza trascendentale non è né un’astrazione né una coscienza in generale; ma è una possibilità concreta in ciascuno di noi, più concreta e più intima della nostra stessa natura umana, la quale, in fondo, è unicamente un ruolo che noi interpretiamo e una relazione esterna che noi intratteniamo con noi stessi, un modo in cui noi appariamo a noi stessi come un oggetto.

In una pagina dedicata a Socrate Husserl chiarisce la connotazione morale che fa della sua fenomenologia un «metodo di vita spirituale». Si tratta di un percorso che mira a sottrarre l’uomo all’infelicità, al perseguimento di fini assurdi, all’oscurità e alla passività inerte, ridestandolo al vero uomo che dimora dentro di sé. Il centro di questa finalità è la razionalità, esercitata innanzitutto nella «critica ultimativa» e radicale degli stili di vita correnti e, in secondo luogo, nel regressus al principio, alla «fonte originaria», al fondamento dell’umanità e delle sue espressioni. Il punto di arrivo del metodo che Husserl sintetizza nella Rückfrage, è la «chiarificazione completa», la «comprensione evidente», la conoscenza essenziale e trasparente di sé in quanto essere umano, posto in un mondo circostante fatto di altri io e di vari tipi di oggetti esperiti dall’io. È, questa, l’inspectio sui in cui Husserl declina il gnóthi seautón socratico fino al limite di quella coscienza per la quale tutte le cose sono, e nella quale dimora la ragion d’essere della «vera vocazione» della fenomenologia. In ciò consiste la vita spirituale, nella misura in cui, attraverso la rivoluzione interiore che è la messa in parentesi del mondo e dell’esistenza dei suoi oggetti, il filosofo scopre la sua coscienza in quanto coscienza che dà un senso alle cose. Ma scopre anche la possibilità di «un ultimo e vero assoluto». Infatti, lo scavo del fenomenologo-archeologo sulle costruzioni dell’io, in quanto è il libero esercizio della vita spirituale, non potrà non imbattersi nel problema dell’Assoluto in sé e per sé: è nell’assolutezza dell’io che si annuncia l’assolutezza di Dio.

A quale esito perviene la discesa nella «profondità più profonda» della coscienza?
Husserl utilizza questa espressione nel maggio 1920, in un abbozzo di lettera indirizzata alla sua allieva Gerda Walther, in cui si concentra sull’esperienza derivante dalla «profondità più profonda». Quell’esperienza, che è del mistico, il suo «amore ardente», è ritenuta da Husserl l’unica cosa reale, mentre il suo oggetto è equiparato a delle «possibilità ideali». Essa si basa su ciò che fa da sfondo alla vita soggettiva, sugli strati inconsci o dormienti che vengono attivati in modo da aprire un orizzonte infinito di possibilità. Queste diverse direzioni si raccolgono in una forma unitaria per grazia o ispirazione insondabile, in quello che Scheler chiamerebbe «raccoglimento [Sammlung]» e che costituisce qualcosa di riconducibile all’esperienza mistica. Il fenomenologo non può che fermarsi all’esperienza e alla struttura che la sostiene, senza occuparsi dell’oggetto cui essa è diretta. In ciò Husserl è fedele al suo compito ricostruttivo di «archeologo» delle costruzioni percettive: giungere a comprenderne l’origine (Ursprung) in senso genetico.

L’esito della radicalità del metodo con cui Husserl si inabissa nella «profondità più profonda» della soggettività, è l’incontro con quelli che egli chiama i «problemi-limite [Grenzprobleme]», che aprono la fenomenologia alla regione della metafisica e della teologia, in cui si trova anche il problema di Dio, posto in base ai presupposti fenomenologici ma non in modo sistematico. E tuttavia non si può dire che la riflessione di Husserl su Dio sia episodica: essa accompagna tutto il pensare fenomenologico come un fiume carsico che emerge dalle profondità del sottosuolo per brevi tratti, prima di immergersi di nuovo negli anfratti da cui proviene: compare e scompare, sottraendosi ogni volta alla presa. Il lavoro di scavo della fenomenologia ne intuisce la sorgente nella «profondità più profonda»; ne coglie le manifestazioni più enigmatiche nel fluire del tempo e nell’irrisolta polarità di immanenza e trascendenza; lo declina nelle forme della razionalità; lo rielabora come ideale di perfezione assoluta per la vita dell’uomo, sua vera vocazione; lo avverte come limite nel presentimento di un assoluto aldilà del tempo e della finitezza. Tutto ciò non può che attuarsi assumendo l’io come assoluta sorgente di senso.

Come scrive Husserl nel Libro III delle Ideen, l’analisi fenomenologica «comprende nel proprio campo tutte le domande che l’uomo concreto può porre, e quindi anche le questioni metafisiche, in quanto abbiano un senso plausibile – un senso che, certo, la fenomenologia deve configurare in modo originario e delimitare criticamente». Attraverso un’interrogazione sempre più radicale, nella «profondità più profonda» dell’io al fenomenologo Husserl si annuncia la trascendenza di Dio, come avevano già intuito, ma non a seguito dell’esercizio di un metodo così radicale, molti autori dell’antichità pagana e, fra i cristiani, soprattutto Agostino e un fenomenologo ante litteram come John Henry Newman. È il Dio che Agostino trova nell’uomo interiore, avendo acquisito, ben prima di Cartesio, quello che Husserl chiama il terreno della «soggettività conoscitiva che ha la certezza di se stessa». Non a torto Erich Przywara definisce il pensiero fenomenologico come un «neo-agostinismo», spingendosi fino a indicare in Dio, «la chiave di volta e la conclusione riassuntiva della fenomenologia di cui [le Ricerche logiche di Husserl] sono il progetto».

La radicalità del metodo fenomenologico, dunque, pone l’io al cospetto della propria assolutezza, ma anche della possibilità di un «ultimo e vero assoluto», che è anche «un’altra trascendenza» rispetto a quella del mondo. L’io, infatti, può sempre essere motivato da una riflessione su se stesso, che si ripropone di continuo ad un grado maggiore di profondità, poiché l’autoriflessione diventa tema di un’ulteriore riflessione. In questo modo, calandosi nella «profondità più profonda» dell’io, da un lato Husserl afferma quello che, ne La crisi definisce «la sfera oggettuale primordiale», ossia «questo io sono io, io che attuo l’epoché, io che interrogo il mondo quale fenomeno […]; io che sto al di sopra di tutta l’esistenza naturale che ha senso per me», l’io che è chiamato a dimostrare che la sua è «l’ultima» evidenza, evitando di appellarsi ad «un oracolo in cui si manifesta un dio». Dall’altro lato, Husserl pone le premesse per ricondurre a quel polo egologico anche Dio, il quale, come sostiene nella Logica formale e trascendentale, «è per me ciò che è, a partire dall’operazione di coscienza che mi è propria», per quanto la sua «trascendenza suprema» non sia da me né inventata né creata.

Quali interpretazioni è possibile dare dell’introiezione di Dio husserliana?
Dio si costituisce nella soggettività trascendentale in un modo del tutto diverso da quello in cui si costituisce un oggetto con la sua trascendenza mondana. Lo scavo fenomenologico apre l’indagine ad un principio teologico, da Husserl «supposto» «aldilà dei limiti della nostra vita di coscienza, […] aldilà della soggettività della coscienza», un regno dell’essere «almeno pensabile», ma inaccessibile alle verifiche e alle dimostrazioni umane. A partire da questo sigillo al pensiero di Husserl sul divino, è possibile avanzare delle interpretazioni dei modi in cui quel Dio si annuncia alla coscienza.

Mettendo in parentesi l’esistenza di Dio, la fenomenologia husserliana assume come oggetto di indagine la correlazione fra l’oggetto dell’esperienza e i modi del suo darsi: la coscienza, quindi, è coscienza di Dio, il quale, in quanto oggetto dell’intenzionalità della coscienza, dovrebbe essere “fenomeno”. Tuttavia, Dio non è una realtà fattuale, ma è trascendenza rispetto al mondo, è un’«altra trascendenza», per cui dovrà essere un “fenomeno” sui generis. Lo si potrebbe intendere come un «fatto primario» o un «meta-fatto», che «fonda o è presupposto» da tutti i fenomeni, «il fatto come sorgente di valori possibili e reali, crescenti all’infinito». Ciò non risolve il problema della sua coesistenza con l’altro presupposto del conferimento di senso ai fenomeni, che è la coscienza trascendentale. In quanto «meta-fatto» e fondamento, Dio, nella sua trascendenza, è assoluto, è una realtà per se, l’«Essere stesso, che non muta», «sciolto [ab-solutus]» da ogni altra realtà. Questa forma di assolutezza sarebbe confermata dalla coincidenza di Dio con la teleologia del mondo, di cui è il fondamento e il «principio di perfezione» che dà forma alla materia irrazionale o proto-razionale. Ne consegue che, benché la coscienza non faccia esperienza di Dio come delle cose mondane, tuttavia vi potrebbe giungere attraverso le «notizie intuitive» con cui la descrizione fenomenologica coglie la «mirabile teleologia» che attraversa il mondo e il sentire della vita istintiva, impulsiva e affettiva, senza che le scienze naturali la possano spiegare: una correlazione fra l’ontologia mondana e l’ontologia assoluta, che trova il suo nesso nell’essere umano, nella coscienza trascendentale.

Rispetto al polo assoluto della soggettività assoluta, Dio è l’idea, «assoluta, suprema», «un polo assoluto ideale», correlato alla soggettività ma senza essere ad essa immanente. Dio è idea nel senso dell’Idea platonica del Bene, non una realtà né una cosa fra le cose, ma «aldilà dell’essenza». In quanto “Idea”, Dio è colto nell’intuizione; in quanto “Bene”, è oggetto del desiderio e dell’amore, non di una rappresentazione concettuale ma di un sentimento correlato al valore dal quale è motivato. Dio, quindi, non si dà soltanto alla conoscenza e alla contemplazione, ma anche alla volontà dell’io che, nel tendere a quel Dio, va attuando il compito infinito di realizzare il se stesso autentico. E lo fa «amorevolmente» e mosso da un «dovere assoluto» in cui si traduce la spinta dell’amore. L’idea di Dio si può intendere anche in senso kantiano, come un concetto-limite, «sorgente originaria» in cui si costituisce l’assoluto della soggettività trascendentale, la quale, riconoscendosi costituita in questa sorgente attraverso l’auto-riflessione, scopre Dio dentro di sé: l’Idea è la forma con cui il Dio assoluto e trascendente dimora nella soggettività trascendentale. Cosicché analisi fenomenologica, intuizione dell’Idea, sentimento dell’amore, auto-riflessione convivono nella vita della coscienza come operazioni che consentono l’esperienza del divino, la cui trascendenza è resa con ciò trascendenza immanente, ma non nel senso in cui lo sono gli Erlebnisse.

La trascendenza di Dio, infatti, è intesa da Husserl come il polo opposto alla trascendenza del mondo, che è ridotta all’assoluto della coscienza; e, quindi, anche come il polo opposto all’io, ossia una terza trascendenza. Questo presupposto legittima l’interpretazione di chi vede nella trascendenza immanente sui generis di Dio un principio «dipolare». In quanto “trascendente”, esso è Lógos assoluto, Verità assoluta, «orizzonte finale assoluto», situato, come scrive Husserl, «oltre il mondo, oltre l’uomo, oltre il senso soggettivo trascendentale», una «oltre-realtà», il «meta-fatto» che «fonda, rende possibile tutta la realtà di ogni relativo, di ogni senso finito». In quanto “immanente”, questa trascendenza è «norma ideale assoluta per tutte le norme relative» che «tutti gli io trascendentali e […] tutto il noi trascendentale portano in sé», come un imperativo categorico, un dovere assoluto che tende all’umanità perfetta.

Come polo opposto di ogni io trascendentale, la trascendenza di Dio si potrebbe pensare anche come l’orizzonte finale di un’«apertura sconfinata», nella cui idealità si costituisce «una comunità-di-io comprendente me stesso». Dio sarebbe allora un Essere che comprende in sé ogni altro essere assoluto “relativo”, compresa la soggettività trascendentale. In definitiva, la coscienza religiosa non trova un riempimento determinato, né può trovarlo, dato che il suo correlato intenzionato non è un ente reale ma una possibilità ideale, un Assoluto regolativo delle norme e dei valori umani. A differenza di quanto avviene nella percezione degli oggetti spaziali, in cui il processo percettivo è un processo di acquisizione conoscitiva che nella dialettica di progressivo riempimento e progressivo svuotamento si risolve in un riempimento definitivo, la logica dell’annunciarsi del divino in interiore homine si arresta al «presentimento [Vorahnung]», ossia ad una «interpretazione anticipatrice [Vordeutung] vuota», alla quale inerisce una indeterminatezza non determinabile. Si potrebbe dire che la teleologia husserliana culmina in un “trono” che, per sua natura, deve restare vuoto, poiché niente di ciò che è attuale potrebbe esserne plausibilmente degno.

Michele Marchetto insegna Filosofia dell’educazione, Filosofia della persona, Etica e Antropologia filosofica presso l’Istituto Universitario Salesiano di Venezia (Iusve). Oltre ad aver curato gli Scritti filosofici (2005, 2014) e gli Scritti sull’Università (2008) di J.H. Newman, ha pubblicato Le ali dell’anima. Educazione, verità, persona e Un presentimento della verità. Il relativismo e John Henry Newman (2010); Buber. La vita come dialogo (2013, 2019); John Henry Newman. Identità, alterità, persona (2016); Newman. Il primato di Dio e la formazione dell’uomo (2019).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link