
Il persistente ricorso a questo antico metodo di regolazione dei conflitti privati, rispondeva a valori costitutivi dell’identità culturale occidentale come il concetto di onore e onorabilità, e in generale rispecchiava il difficile equilibrio tra sfera pubblica e privata, giustizia privata e giustizia amministrata dallo Stato, leggi dello Stato e leggi sociali e morali non scritte ma non meno, e forse più, imprescindibili. Un dato ancora più evidente nel caso italiano, per frequenza, intensità e durata nel tempo.
La rivendicazione dell’onore nazionale è un tema dominante nei duelli che si combattono durante gli anni eroici della lotta per l’indipendenza, a partire da quello del 1826 fra Gabriele Pepe e Alphonse de Lamartine, quando la vittoria del primo e il ferimento di chi aveva osato paragonare la penisola ad una terra di morti sono celebrati come una battaglia vinta. Nelle terre soggette alla dominazione austriaca, il duello fu usato spesso per impedire una fraternizzazione tra la nobiltà locale e l’amministrazione asburgica. Appare più sorprendente, tuttavia, il fatto che il fenomeno non abbia conosciuto una diminuzione a seguito dell’avvenuta unità politica della penisola e che anzi proprio dopo il 1861 si sia verificata una forte crescita di esso.
Le cause vanno ricercate nel progressivo incontro ed intreccio, per esigenze politiche, amministrative e istituzionali, fra soggetti provenienti da regioni diverse, soprattutto nelle tre capitali: Torino (1861-1864), Firenze (1865-1870) e Roma (dal 1871). In tal senso il duello è stato funzionale ad élites modernizzanti che consideravano se stesse come esempi di una nuova cultura politica ed erano impegnate ad unificare terre ancora divise, non più perché soggette all’occupazione straniera o a Stati diversi, ma in quanto separate dalle condizioni di vita, economiche e sociali: rappresentava così anche una forma di coinvolgimento egualitario in una società in trasformazione, alla ricerca di nuove legittimazioni.
Quale diffusione aveva tale pratica in ambito politico e giornalistico?
È importante rimarcare che è strettamente legata alla nascita del nuovo Stato: si può anzi definire il duello una sorta di «istituzione» dell’Italia liberale. Da questo punto non sorprende che ne abbiano sostenuti molti i politici e i giornalisti. I parlamentari furono certo i duellisti più accaniti, in proporzione al loro numero ristretto. Gli artefici della legislazione erano i primi a trasgredire, almeno in questo campo, le norme fissate per l’universalità dei cittadini. Inoltre, negavano sistematicamente l’autorizzazione a procedere contro i rei di duello appartenenti alla loro categoria, finendo per alimentare così, almeno in una parte dell’opinione pubblica, anche una forma di polemica verso le istituzioni e di embrionale anti-parlamentarismo per quello che appariva un privilegio di «casta». Si affrontarono fra gli altri Cavour e il deputato nizzardo Henri Avigdor, Marco Minghetti (all’epoca presidente del Consiglio in carica!) e Urbano Rattazzi (predecessore alla guida del governo), Giovanni Nicotera (leader della Sinistra meridionale) e Francesco Lovito (allora segretario generale del Ministero dell’Interno), il ministro degli Esteri Giulio Prinetti e Leopoldo Franchetti, figura austera e autorevole ma accanito duellista… E l’elenco potrebbe durare a lungo.
Quanto ai giornalisti, le ragioni sono da ricercare principalmente nella natura dei quotidiani italiani del tempo, legati spesso a personalità che ne facevano la fortuna o la sfortuna, portatori in molti casi di interessi locali o elettorali contingenti, ma anche nella mancanza di una legge sulla diffamazione a mezzo stampa e nell’assenza della figura del direttore responsabile. Le cronache della seconda metà dell’Ottocento furono tante volte occupate dai resoconti di duelli, sui quali molto spesso costituiscono l’unica fonte. Talvolta venivano pubblicati persino i verbali redatti dai padrini e si riferivano i dettagli degli scontri e delle ferite occorse, senza che dal punto di vista giudiziario ne sortisse alcuna conseguenza.
Quali erano rituali e codici della pratica?
Jacopo Gelli (1858-1935), il più attivo divulgatore delle pratiche cavalleresche nell’Italia fra ‘800 e ‘900, nel suo Manuale del duellante (prima edizione 1894) fissava in sette gli elementi necessari ad una regolare partita d’onore. La sfida; l’accettazione di questa; la designazione di quattro delegati, due per ciascun duellante, ai quali sarebbe spettato regolare le condizioni dello scontro; i duellanti dovevano essere gentiluomini, categoria questa in via di «dilatazione» per tutto il corso dell’Ottocento e che comprendeva in pratica aristocratici e borghesi; l’uguaglianza delle armi (quella di gran lunga più usata era la sciabola); la lealtà del combattimento; la presenza allo scontro, oltre che dei padrini garanti del rispetto degli accordi presi e delle regole d’onore, di uno o più medici per prontamente definire la possibilità di continuare la sfida e curare eventuali ferite. Non bisogna dimenticare che il duello è stato anche spettacolo, con il fascino del proibito e la sua precisa ritualità cerimoniale. Anche per questo la scherma gradualmente si trasformò da necessaria competenza di difesa personale del gentiluomo a pura pratica sportiva. Le sale d’armi, circoli elitari, fioriscono in tutti i principali centri; l’arte della scherma diviene anche occasione mondana di spettacolo, con periodiche accademie aperte al pubblico, spesso nei teatri.
Quando e come tramontò in Italia il ricorso al duello?
Il pluridecennale dibattito tra fautori e abolizionisti assunse talvolta toni molto accesi, non solo nella trattatistica, ma in riviste, giornali e pamphlet. Sul finire del secolo, fu la morte in duello del deputato Felice Cavallotti (1898) a dare nuovo e maggior vigore agli avversari delle partite d’onore. In declino, ma ancora assai diffuse, nel primo decennio del Novecento subirono la critica sistematica e una mobilitazione attiva ad opera dei settori più ostili al mondo liberale: cattolici e socialisti. I primi, sulla scorta della tradizionale condanna della Chiesa cattolica a questa pratica; i secondi perché la giudicavano un’espressione tipicamente individualistica e borghese, quasi un emblema della società aristocratico-capitalistica da abbattere.
In tutta Europa il duello conobbe la sua crisi decisiva dopo la prima guerra mondiale, quale riflesso del definitivo avvento della società di massa; un processo che in Italia si accompagnò all’affermazione e al consolidamento del fascismo, portatore di una visione ostile agli scontri individuali dopo essersene inizialmente servito. Tra il 1915 e il 1922, ovvero dall’abbandono del socialismo alla vigilia della marcia su Roma, Benito Mussolini sostenne infatti ben cinque duelli documentati, con avversari politici e giornalistici. Dopo la costruzione del regime, attraverso il nuovo codice penale (1930) ispirato dal Guardasigilli Alfredo Rocco che stabilì multe e pene di gran lunga più severe per le sfide, il Duce volle però sopprimere ogni residuo di una pratica che appariva troppo individualista, in molti casi connessa alla libera polemica giornalistica ed in conflitto con il culto dello Stato-Partito.
Prof.ssa Gambacorti, in che modo e con quali significati compare il tema del duello nella narrativa e nel teatro di otto-novecento?
Romanzi, racconti, versi, drammi e commedie non si limitano a registrare un costume storico o un uso contemporaneo ma propongono modelli ed esempi che a loro volta influiscono sull’atteggiamento nei confronti del duello, contribuiscono a discuterne le ragioni, o ad alimentarne il mito.
Nella letteratura del periodo risorgimentale, in particolare nel genere del romanzo storico, in D’Azeglio e Guerrazzi, il tema del duello è declinato in chiave patriottica: abbiamo sfide e confronti fra forti vendicatori e traditori vili, combattenti valorosi e subdoli intriganti, che esaltano i valori dell’onore nazionale e della lealtà. Parallelamente, opere come I promessi sposi di Manzoni, o Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo, affrontano l’argomento con uno sguardo di maggior problematicità etica; e la poesia dialettale, qui e in seguito, con Belli, Fucini, Trilussa, ne mostra in chiave dissacrante l’assurda drammaticità.
Negli anni di Firenze capitale, la letteratura partecipa al vivace dibattito sulla liceità del duello, che si allarga ora a coinvolgere l’opinione pubblica, anche sull’onda dei numerosi e clamorosi fatti di cronaca. Spiccano gli interventi di pubblicisti e letterati quali Paulo Fambri, narratore e drammaturgo, autore nel 1869 di un volume sulla Giurisprudenza del duello, e il giovane De Amicis. Ma è soprattutto il teatro, che in questi anni si dedica a ritrarre e definire l’identità della nuova nazione, nella commedia borghese e nel dramma a tesi, a portare sulle scene il tema, come nell’esemplare Duello di Paolo Ferrari (1868).
Il duello diventa elemento ricorrente nella narrativa di consumo, ma compare in modo assai frequente anche nelle opere di maggior spessore letterario, in diverse ottiche e declinazioni: all’interno della ricerca artistica di ciascun autore e nel particolare contesto della singola opera, si colora di significati psicologici ed esistenziali, o metaforici. Ad esempio in Fosca di Tarchetti (1869), nell’inquieto clima del movimento della Scapigliatura, vi si esprime un’angosciata attrazione per la morte. È significativo seguire l’evolversi del tema nelle pagine di Verga: molto presente nei romanzi giovanili, ci si distacca poi progressivamente dal suo fascino, fino al duello sleale di Cavalleria rusticana (1880), dove il più forte vince a tradimento, per scomparire poi, quando il concetto dell’onore che ne è alla base apparirà ormai improponibile, in una realtà profondamente corrotta e degradata.
In D’Annunzio invece, nel Piacere e nell’Innocente, abbiamo un’immagine idealizzata del duello, letto in chiave estetica, o di esaltazione del vitalismo primigenio. Mentre le pagine di Pirandello respirano ormai il clima più disincantato del Novecento, con i suoi duellanti per forza, intrappolati in un ruolo obbligato: nell’Esclusa, nel Turno, nella novella Quando si conosce il gioco, portata sulle scene con il titolo Il giuoco delle parti, il duello è un meccanismo che si innesca e procede quasi a dispetto dei personaggi, e rivela, e fa esplodere, il grottesco gioco dei ruoli imposto dalle norme sociali.
È anche interessante notare come la narrativa postunitaria, adottando un elemento di indubbio interesse per il pubblico, non fotografi pedissequamente la cronaca dei duelli reali: raramente si incontrano duelli per polemiche politiche o giornalistiche (che servono casomai da pretesto per coprire i veri motivi), o duelli a condizioni lievi, dove, salvato l’onore, si possa poi volentieri stringere la mano all’avversario. I duelli di carta si suppongono quasi sempre all’ultimo sangue (anche se possono essere arrestati dal medico quando uno dei due non sia più in grado di continuare lo scontro); e hanno all’origine, per lo più, una donna.
Quali vertenze furono originate da polemiche letterarie?
Gli scrittori non fanno eccezione, e vivono spesso l’esperienza del duello in prima persona, con episodi talvolta di rilievo e fama pubblica; e da contrasti di opinioni critiche e letterarie possono generarsi vertenze cavalleresche. L’ampio e polemico dibattito giornalistico intorno alla rappresentazione alla Scala, nel marzo del 1868, del Mefistofele di Arrigo Boito, opera di rottura con la tradizione musicale e poetica, dà origine ad esempio a un duello tra Felice Cavallotti, animatore del combattivo «Gazzettino Rosa», e Enrico Carozzi, autore di una feroce stroncatura dell’opera. La spada si affianca alla penna come mezzo di lotta, fra intransigenza morale e gusto della provocazione.
Tra i duelli di D’Annunzio, occorre ricordare, nel 1886, la sua vertenza con Edoardo Scarfoglio, scrittore, giornalista, brillante polemista, per la parodia dell’Isaotta Guttadauro, l’elegante volume di poesie che D’Annunzio ha in stampa, comparsa sul «Corriere di Roma» dell’amico, con il titolo di Risaotto al pomidauro. Ma numerose vertenze agitano le redazioni dei giornali e i foyer dei teatri, anche se non sempre giungono sul terreno, se i padrini riescono a trovare vie di conciliazione. E nel Novecento incroceranno le spade ancora, ad esempio, Marinetti, nel 1909, a Parigi, con il romanziere e critico teatrale Charles-Henry Hirsch, reo di aver stroncato la sua tragedia satirica Roi bombance; e ancora più tardi, appianano con la spada le loro divergenze letterarie, nel cortile della villa di Pirandello, l’8 agosto 1926, Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli.
Gabriele Paolini è professore associato di Storia contemporanea presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze.
Irene Gambacorti è ricercatrice di Letteratura italiana presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze.