
Nel Suo libro, Ella adombra il rischio che la ricerca scientifiche possa piegarsi a logiche di mercato ed economicistiche: quanto è reale questo rischio?
Purtroppo il rischio è molto concreto, e non è facile trovare dei correttivi. Il tutto è legato al fatto che la platea di chi si occupa di ricerca scientifica, in senso lato, è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi decenni, creando involontariamente la base per un mercato. Parlo del mercato dell’editoria scientifica, essenziale per la comunicazione dei risultati della ricerca, del mercato delle agenzie che fanno ranking di università e centri di ricerca, del mercato di società preposte ad assistere alla scrittura di progetti di ricerca, del mercato dei congressi scientifici (o pseudo-scientifici), tanto per citare alcuni dei fenomeni più macroscopici. Giusto per stare al caso dei congressi, oggi uno che è disposto a pagare può inanellare lunghi elenchi di inviti a congressi di bassa qualità, spesso in siti balneari o turistici in giro per il mondo. Ovvio che ci sono anche congressi importanti e seri, in cui si fa rigorosa comunicazione scientifica, ma il fenomeno di agenzie dedicate alla organizzazione di congressi con puri scopi commerciali è in vertiginoso aumento ed è solo un esempio di questo vasto mercato che si è creato.
Sempre nel Suo testo, Lei tratta dello scottante tema delle pubblicazioni scientifiche e delle sue distorsioni, come il plagio: le pubblicazioni costituiscono ancora uno strumento di valutazione del merito affidabile?
Premetto che fenomeni negativi come il plagio, pure in crescita, sono ancora molto contenuti rispetto al totale dei lavori prodotti. Forse più preoccupante è il numero di lavori irrilevanti o irriproducibili, e quindi inutili se non addirittura dannosi. A fianco di questa massa di lavori, in forte crescita, ci sono ovviamente le pubblicazioni solide, innovative, che presentano risultati formidabili, scoperte straordinarie in grado di modificare in meglio le nostre esistenze. Questi lavori trovano collocazione nelle riviste più prestigiose, spesso quelle con forte tradizione, che utilizzano processi di revisione molto rigorosi e che scartano la gran parte dei contributi sottoposti. Ma queste ultime si ergono su una sottobosco fittissimo di riviste scientifiche di dubbia qualità. Ci sono dei parametri molto chiari per valutare l’attendibilità delle riviste scientifiche, per cui sicuramente possiamo dire che le pubblicazioni costituiscono ancora un valido strumento per la valutazione del merito. Ma non certo su una base puramente quantitativa, sempre di più va pesato l’elemento qualitativo.
È lecito attendersi un superamento delle riviste scientifiche?
Non penso. In fin dei conti le riviste più serie e blasonate sono proprio quelle che possono garantire un “marchio di qualità”. La crescita turbinosa e incontrollata della pubblicistica scientifica obbliga sempre più i protagonisti a concentrarsi sulle riviste di maggior prestigio e impatto, per ovvie ragioni di tempo. A queste si sono affiancate e si affiancheranno sempre di più altre forme di comunicazione, basate sulle nuove tecnologie, sul web, sugli open archives. Ma senza una chiara certificazione del livello di attendibilità e robustezza dei risultati presentati, queste forme di comunicazione rischiano solo di creare un pericoloso rumore di fondo.
In un capitolo del Suo libro Lei lancia una provocazione domandandosi: “Siamo troppi?”: corporativismo o lucida constatazione?
La domanda è provocatoria. Come spiego nel libro è chiaro che una società in cui scienza e tecnologia giocano un ruolo sempre più importante c’è bisogno di sempre più addetti e di specialisti. Ma la ricerca di base, fondamentale, necessita soprattutto di creatività, originalità, curiosità e passione, doti che non sono di tutti. Oggi a livello mondiale abbiamo superato i 10 milioni di “scientists”, nel senso anglosassone del termine, forse troppi perché tutti possano sviluppare idee progettuali originali, innovative e di impatto.
Possiamo ancora avere fiducia nella ricerca scientifica?
Non solo possiamo, ma dobbiamo. Solo la ricerca potrà dare risposte alle grandi sfide che l’umanità deve affrontare, la sovrappopolazione, l’energia, la sostenibilità ambientale, la medicina di precisione, e via dicendo. Non vi è alcun dubbio che la ricerca continuerà a progredire. Il problema è il costo sociale della ricerca, e quanto il cittadino sarà disposto a pagare per ricerche di scarso valore, magari inutili, o addirittura scopiazzate. Il rischio è quello di un rigetto complessivo del mondo della ricerca, e allora sì che le conseguenze sarebbero gravi. Bisogna quindi cambiare i meccanismi di valutazione, puntando sempre più sulla qualità che sulla quantità, e riscoprire gli aspetti fondamentali della buona ricerca scientifica. Che ha bisogno di tempo per discutere, riflettere, capire, e anche per sbagliare. Tutte cose che oggi si stanno perdendo, sotto una pressione estrema che impone di pubblicare sempre e comunque qualsiasi risultato ottenuto.