
I procedimenti intellettuali atti a individuare che cosa è ‘diritto’ compongono il concetto di ‘metodo giuridico’. L’attualità dell’interesse per il metodo con cui i giuristi romani hanno forgiato il loro sapere giuridico si spiega pensando al diritto romano come a un modello in grado di fornire ancora oggi delle coordinate utili ad affrontare la problematica giuridica: l’attenzione non va alle soluzioni offerte ma, al di là di esse, all’angolo di visuale da cui i giureconsulti si sono posti nell’osservare il mondo circostante e, soprattutto, allo sguardo tecnico con cui hanno letto nei casi concreti gli aspetti giuridici. Ne consegue che il diritto va inteso come ciò che l’uomo ha ritenuto – e ritiene – esperienza giuridica all’interno di una determinata compagine sociale. Ogni scienza giuridica è d’altronde una formazione storica, la cui essenza costituisce testimonianza dell’esperienza che l’ha espressa e in funzione della quale quella scienza opera.
La storia del diritto rappresenta la ‘coscienza critica’ del diritto positivo: per questo occorre ricostruire la storicità della norma, recuperandone l’effettiva dimensione e il rapporto con l’aspetto sociale di quanto è sentito come diritto. In altre parole, la storia delle norme concorre a formare la storia della nostra scienza giuridica.
L’espressione ‘metodologia giuridica’ sta dunque a significare la personale e soggettiva concezione che si ha del diritto: chiunque si accinga a un’indagine giuridica vi apporterà inevitabilmente il riflesso di ciò che intende per diritto e i suoi svolgimenti. La conoscenza dei percorsi e del sostrato culturale, politico, ideologico, sociale che le hanno determinate diviene pertanto fondamentale per colui che intende farsene interprete, ma ciò non meramente al fine della ricostruzione in sé delle esperienze giuridiche passate, bensì, come diceva Max Kaser, per trarre da esse “gli strumenti fondamentali del suo operare, per la ricostruzione, la critica, l’evoluzione del diritto vigente”.
La dimensione storica del diritto si pone dunque come spazio di mediazione culturale per il giurista positivo, concepito come “guida sociale all’interno di uno stato in cui il potere politico è legittimato dal diritto”. Il risultato è la precisazione della figura del giurista come quella di un intellettuale, consapevole della storicità e della relatività del diritto, e dell’ordinamento giuridico come del “riflesso della coscienza professionale dei giuristi”. La maturazione del senso di responsabilità del giurista moderno, di conseguenza, non può che risultare arricchita da studi di natura storico-metodologica, dal recupero del pensiero topico-problematico alla frequentazione delle teorie dell’argomentazione.
Lo studio del metodo, inteso come procedimento intellettuale che conduce al diritto, rappresenta quindi un prezioso veicolo ed un valido termine di confronto per l’intelligenza dei valori giuridici, proiettando ben oltre i confini dell’esperienza romana il suo bagaglio culturale e la sua capacità di esprimere i valori fondamentali della giuridicità. In particolare, il ragionamento sotteso all’approccio casistico, tipico dei giuristi romani, pare un’utile occasione per comprendere l’utilità di ricollocare il fatto al centro del sistema processuale, poiché è proprio nel ‘casus’ che l’interprete di ogni tempo trova gli argomenti.
Anche in virtù di simili considerazioni, Pietro De Francisci, nella sua Storia del diritto romano, osservava che “ogni disciplina, giunta ad un certo grado di maturità, e quasi saturatasi di risultati particolari, sente il bisogno di ripiegarsi su se stessa per procedere ad una revisione critica dei procedimenti mediante i quali ha accumulato il suo patrimonio di cognizioni, ossia del suo metodo, e dei suoi principi”. È possibile, e in un certo senso, inevitabile arrivare al punto in cui si critica la tradizione, intesa come frutto della riflessione del passato, ma non per questo essa perde il suo ruolo di privilegiato punto di partenza per operare ed innovare.
Ne è già consapevole il filosofo Seneca che, nel I secolo a.C., così rifletteva: “Percorrerò la vecchia strada, ma se ne troverò una più vicina e più piana, la seguirò. Coloro che prima di noi meditarono su questi argomenti non sono nostri padroni, ma guide”. Ed altrettanto certo ne è il giurista Celso (II secolo d.C.), quando afferma che “si possono commettere grandi errori sotto l’autorità della scienza del diritto”.
Alla necessaria opera di revisione delle soluzioni giuridiche di volta in volta individuate si dà il nome di problemi metodologici: attraverso di essi si punta a perfezionare ciò che, pur avendo ben funzionato per tanto tempo, si rivela come imperfetto e perfettibile. Da tali problemi dipendono in ogni tempo, e così anche nel nostro, le modalità di porsi di fronte a quanto si assume oggetto di studio e ai suoi modi di procedere, in quanto si configurano strutturali alla conoscenza giuridica.
Il termine ‘scientia’ viene pertanto ad assumere il significato, come scrive Mario Bretone, di una “metodologia, di strumenti logici e di procedure argomentative in un campo, il diritto, dove operano criteri di probabilità e di verisimiglianza, di opportunità e di convenienza, e la distinzione tra vero e falso, più che un’antitesi assoluta e apodittica, esprime i termini estremi di un calcolo proporzionale”. La particolare scientificità che informa i procedimenti di ricerca e di argomentazione adottati dai giuristi nella soluzione delle controversie, nonché il metodo praticato nei tribunali per individuare e fondare in modo convincente la decisione del caso in discussione, ovvero la struttura epistemica del ragionamento giudiziario, sono tematiche ancora oggi al centro del dibattito.
Quale fondamentale ruolo hanno avuto in tale processo i prudentes?
L’atteggiamento dei giuristi romani nel porsi di fronte all’infinita varietà dei casi della vita per escogitare una soluzione giuridica si configura, in ogni epoca storica, secondo una prospettiva di tipo casistico: “il giurista, come ogni uomo, è immerso nel mondo dei fatti, ma li osserva da un angolo particolare … Nessuno sa meglio di lui che è impossibile abbracciare tutti i casi della vita”, osserva significativamente Mario Bretone.
Con metodo casistico si suole indicare la propensione a volgere l’attenzione a specifici problemi scaturenti dai singoli casi. L’essenza di questo metodo consiste nel “pensare per problemi”, secondo un ragionamento che non procede in termini di elaborazione generale bensì in rapporto a casi concreti, nella convinzione che ogni risultato può sempre essere migliorato mediante la soluzione di un caso successivo. Il metodo casistico, in particolare, si svolge in base ad una specifica etica giuridica dettata dalle peculiari circostanze del caso e procede in modo induttivo, considerando il caso dal lato del risultato e verificando ogni sua possibile soluzione secondo principi di giustizia sostanziale.
Nel ragionamento empirico ed induttivo l’intuizione ha un ruolo fondamentale: è il criterio che guida il giurista nel percorso verso il ritrovamento della decisione più giusta attraverso un’immediata comprensione che non necessita di motivazione e sostanzialmente concretizzabile nell’esperienza. Le soluzioni così rinvenute vengono poi proposte dal giurista, ma prive della pretesa di assurgere a principi generali degli argomenti considerati. La casistica viene infatti praticata non per elaborare regole, ma per finalità essenzialmente pratiche, per rinvenire la soluzione più giusta per il caso concreto.
La riflessione giurisprudenziale romana sa bene, infatti, che se è vero che il giurista ricerca una ‘verità relativa’, individuabile nella soluzione più rispondente all’ideale astratto di giustizia per quel caso, è parimenti vero che anche sotto la guida del diritto si possono commettere errori. Anche per questo il giurista romano rifugge da schematizzazioni generali e astratte preferendo affidarsi ad un’attività rispondente di natura casistica, più confacente alle molteplici necessità di una professione che si deve rapportare alle mutevoli e sempre nuove esigenze della vita quotidiana e delle condizioni in cui si trova ad operare.
Uno strumento con cui si realizza questo procedimento di lavoro razionale è il metodo topico, basato sulla ricerca dei concetti-guida (i tópoi) più utili all’individuazione della soluzione migliore: questi argomenti non sono però sentiti come verità assolute, sempre validi ed applicabili, ma la loro autorità e la successiva riapplicazione sono subordinate a un vaglio costante in merito alla loro opportunità e adeguatezza. In tal modo, il ragionamento risulta improntato ad una apertura indefinita alla soluzione di volta in volta considerata più idonea. L’utilità della regola casistica così elaborata, dunque, risiede nel fatto che permette una rappresentazione sintetica dei criteri razionali di soluzione sino a quel momento individuati, raccordando in un’unica massima un insieme di soluzioni. Una sua corretta utilizzazione tuttavia non deve essere generalizzata, bensì deve tenere conto della struttura specifica del caso da risolvere.
La formazione di regole casistiche significa anche tracciare una linea di confine fra i casi simili a quelli dissimili, assicurando il coordinamento e la non contraddittorietà delle soluzioni offerte. Questo tipo di pensiero si realizza su un piano dialettico, nel senso che gli argomenti favorevoli o contrari vengono esaminati e dibattuti con un avversario reale o immaginario: è quindi evidente come la topica appaia un modo di pensare consono al processo.
L’impiego degli strumenti insegnati dal metodo dialettico, inoltre, fa sì che il principio euristico venga trovato mediante la tecnica dell’astrazione della ratio decidendi, ossia del punto di diritto, comune a una pluralità di casi. Questo comporta il riconoscimento dell’importanza della tradizione precedente, intesa come insieme dei principi giuridici già individuati, che viene considerata un punto certo di riferimento; peraltro, proprio in quanto espressione del metodo casistico, la tradizione stessa può sempre e in ogni momento essere rimessa in discussione. Infatti, ogni enunciato, ogni singolo responso incontra sempre il limite in un responso contrario, che ha pari valore. Questo contribuisce a spiegare la ragione per cui il principio di formazione casistica, pur considerato autorevole, rimane sempre suscettibile di essere posto in discussione ma senza che questo venga sentito come una diminuzione del suo valore.
Per questo motivo, i principi giuridici consolidati non acquistano valore cogente: in quanto principi di autorità e di tradizione, rappresentano soltanto dei criteri pratici idonei a guidare il giurista nell’applicazione dei precedenti, ma proprio perché traggono la loro essenza dal metodo casistico non possono avere valore di norma generale e astratta. La conoscenza della tradizione, dunque, è in quest’ottica uno strumento utile a consentire il raffronto con l’esperienza giuridica pregressa, che costituisce la base essenziale per l’applicazione dei criteri di studio e di individuazione del ius.
Spesso capita, inoltre, che il giurista non manifesti la propria opinione su un caso, ma si limiti a compiere un’affermazione astratta con cui riassume l’opinione di una casistica uniforme. Tale opinione, dunque, rappresenta una pura affermazione di esperienza relativa al passato, sottraendosi così al rischio di imprecisione sotteso alla formulazione della regula. Ne consegue che la sua futura applicazione deriva dalla ragionevolezza del suo contenuto, dalla sua sostanziale rispondenza a un ideale senso di giustizia e, spesso, dall’autorità del giurista. L’essenza del metodo giurisprudenziale-casistico consiste, quindi, in definitiva, nel fornire di continuo al giurista gli strumenti necessari per la risoluzione del caso concreto, evidenziando i principi validi in quel determinato momento storico.
Da quanto osservato, appare dunque evidente che un diritto a formazione casistica come quello romano affida al giurista, in quanto specialista del sapere giuridico, il compito di trovare il principio da applicare, ovvero la corretta ratio decidendi del singolo caso nell’ambito dei principi operanti nell’ordinamento, individuandola mediante un rapporto di analogia o differenziazione con le rationes che reggono le soluzioni precedenti.
Il ruolo del giurista consiste pertanto nella concreta realizzazione della iusti atque iniusti scientia (come scriveva il giurista Ulpiano nel III secolo d.C.), della scienza che consente di comprendere ciò che è giusto e ciò che non lo è in rapporto a ogni singolo caso concreto. In questa prospettiva, il giurista Pomponio (II secolo d. C.), nella sua opera dedicata alla storia della giurisprudenza (Enchiridion), afferma che “il diritto non può esistere senza un giurista attraverso il quale possa quotidianamente progredire”.
Tale progresso si realizza attraverso tre fondamentali attività, come si legge in un celebre passo del De oratore di Cicerone, il quale afferma che si può definire giurista “colui che è esperto delle leggi e delle consuetudini su cui si poggiano i cittadini di uno Stato, colui che sa dare pareri in materia di diritto (respondere), trattare cause (agere) e redigere schemi negoziali (cavere).”
La scienza giuridica romana si viene così formando sulla base di un deposito di opinioni e di pareri, di regole, di dati normativi, di schemi negoziali e processuali. In questo senso la giurisprudenza, depositaria e creatrice della scientia iuris, concepisce il respondere come tecnica per la soluzione del caso concreto. In questo percorso, i giuristi (prudentes) hanno dato voce, grazie al loro metodo, ai profondi cambiamenti sociali ed economici che facevano apparire l’antico ius civile con le sue rigide strutture del tutto anacronistico ed inadeguato rispetto alle esigenze della vita concreta. In epoca repubblicana, Roma passa da piccola civitas, caratterizzata da un’economia prettamente agricola, a complesso impero commerciale esteso nel bacino del Mediterraneo. In questo contesto, né l’interpretazione dell’antico corpus normativo delle XII tavole né l’emanazione di leges, peraltro rare, erano ormai sufficienti a mantenere il diritto al passo con i tempi.
L’impresa di rinnovare il diritto, adeguandolo alle nuove esigenze, compiuta dall’attività interpretativa svolta dai giuristi trova concreto e complementare riscontro nell’elaborazione dello schema processuale più utile (agere), che consente al ius di adeguarsi in modo costante alle esigenze di una società in evoluzione. In altre parole, i meccanismi utili alla determinazione concreta del ius sono rinvenuti all’interno dell’agere, ossia nell’attività volta ad elaborare gli strumenti processuali più idonei a tutelare il principio giuridico coinvolto. L’agere comporta, infatti, una diversa dimensione dell’analisi del caso dal suo interno, in quanto si pone su un piano differente: consente il ritrovamento dello schema processuale più adeguato a dare a un fatto la soluzione più giusta al fine di consentirne la realizzazione giudiziaria.
Anche quando non è dato rinvenire una previsione normativa adeguata o corrispondente al caso concreto da risolvere, la considerazione dell’opportunità di adeguare il diritto alle esigenze della prassi fa sì che i giuristi sentano conforme a iustitia riconoscere azionabilità giudiziaria anche a situazioni prive di tutela secondo il ius civile. Questo sentire determina l’inserimento tra i principi utili ad esercitare il respondere, e correlatamente l’agere, di un nuovo criterio, in corrispondenza al nuovo metodo adottato dai giuristi. Si tratta dell’equità, che consente all’ordinamento di adeguarsi alle esigenze di giustizia che soltanto la pratica casistica può portare alla luce.
L’attività dei giuristi trova così fondamentale completamento nella giurisdizione dei magistrati iusdicenti, in particolare dei pretori. Lo stretto collegamento tra creazione del diritto e la sua applicazione è dovuto al fatto che i magistrati non erano dei giuristi professionalmente preparati e pertanto erano soliti ricorrere ad un consilium, composto da giuristi competenti che partecipavano alle udienze giudiziarie e indicavano al pretore il loro parere giuridico che, sia pur non vincolante, di fatto veniva seguito.
Nell’ultimo periodo della repubblica, dunque, quando le strutture antiche del ius civile si rivelano ormai inadeguate alle nuove esigenze, l’aequitas si appalesa come lo strumento fondamentale che consente di veicolare all’interno dello stretto ius civile situazioni e soluzioni prima non contemplate, operando come strumento di correzione, adeguamento e rinnovamento dell’ordinamento giuridico, e ciò sia sotto il profilo del ius honorarium (il diritto sancito in sede giurisdizionale), sia ai fini della maturazione del metodo della giurisprudenza in senso scientifico. Sotto questo profilo, è celebre la definizione di Aristotele, che nell’Etica Nicomachea afferma che “è la natura dell’equo quella di integrare la legge, laddove questa è insufficiente a causa del suo esprimersi in termini generali”; e ancora, nella Retorica, identifica l’equità con la giustizia del caso concreto: “l’equo sembra essere giusto ma esso è il giusto che sta al di là della legge scritta”. In un ordinamento a formazione prevalentemente giurisprudenziale come quello romano nel periodo preclassico e classico, l’idea aristotelica di equità come giustizia del singolo caso si propone non come strumento correttivo delle leggi in senso etico, di tensione verso valori assoluti di giustizia, ma come metodo di interpretatio che permette ai giuristi, esperti della scientia iuris, di distinguere e valutare gli elementi giuridicamente rilevanti dei casi concreti e ai magistrati di correggere un’ingiustizia che altrimenti deriverebbe dalla rigida applicazione del ius civile.
La connessione fra l’affermarsi del metodo giurisprudenziale come metodo casistico e la rilevanza che l’equità viene ad assumere nell’ordinamento romano va infatti ravvisata nel fatto che i giuristi si trovano a dover utilizzare nelle loro soluzioni principi giuridici non sempre presenti nell’ordinamento, e soprattutto non tutti presenti nel ius civile. In tal modo, l’interpretatio dei giuristi acquista carattere creativo, diventando strumento di maturazione del metodo giurisprudenziale in senso scientifico. Ciò significa ulteriormente che i principi giuridici utilizzati non vengono sentiti come definitivi, bensì come aperti alla valutazione di quanto appare equo nel caso concreto. Infatti le rationes decidendi delle soluzioni offerte, la cui astrazione porterà alla creazione delle cosiddette regulae iuris, sono considerate soltanto dei principi-guida creatisi con il consolidarsi dell’esperienza giuridica precedente: appare, quindi, non solo naturale ma inevitabile che una regola venga messa in discussione ed eventualmente superata da casi successivi.
In un sistema giurisprudenziale che nasce dalla soluzione dei casi concreti, l’aequitas si configura dunque come il criterio che permette non solo di innovare, ma anche di allargare l’ambito di applicazione delle rationes decidendi già individuate. Ciò avviene ad esempio mediante il ragionamento per analogia, in virtù del quale appare giusto estendere una soluzione già proposta ad un altro caso individuato come simile o analogo, oppure, al contrario, introdurre una soluzione nuova al caso che, pur apparentemente simile, presenta un elemento differenziante.
Tutto questo comporta, inoltre, che il giurista romano parte dal presupposto per cui il principio di diritto di volta in volta individuato come giusto (conforme al diritto) o equo (conforme alla struttura del caso) non ha valore generale nè astrattamente valido per tutti i casi simili, ma è un principio il cui valore è solo probabile. La ratio decidendi già individuata esprime, quindi, il ius che probabilmente potrà trovare nuova applicazione, ma con implicita l’idea della consapevolezza che ciò potrà parimenti non accadere: tutto dipende dall’equità, ossia, in concreto, dalla valutazione del giurista.
L’aequitas è in quest’ottica anche ciò su cui si fonda la corrispondenza tra iurisdictio e istanze della collettività. È il principio ispiratore dell’attività discrezionale del magistrato che cerca, in relazione al caso concreto, i criteri che la collettività stessa ritiene più adatti a quella fattispecie. Questo non significa, peraltro, che tutto il diritto giurisprudenziale sia equitativo, dato che spesso i giuristi operano avvalendosi di principi già presenti nell’ordinamento, ma che l’equità acquista rilievo come fondamento della libera individuazione del ius da parte dei giuristi quando non trovano nel ius civile o nell’editto del pretore il principio che ritengono opportuno.
In questo contesto si pongono le basi per una concezione del diritto come quella offerta da Giuvenzio Celso (prima metà del II secolo d.C.) in un celebre e discusso passo di Ulpiano, tratto dal primo libro delle sue Istituzioni, e conservato nel Digesto di Giustiniano: D. 1.1.1pr. (Ulpiano, libro 1 delle Institutiones): “Il diritto è l’arte del buono e dell’equo.” L’elegante definizione celsina del diritto come “ars boni et aequi” altro non è che la definizione del diritto dal punto di vista del giurista sotto il profilo strettamente scientifico. Ars sta a significare la “ricerca e la prassi metodico-specialistica”, il cui fine è riassunto da Celso nella formula ‘bonum et aequum’. Pertanto, posto che il ius è il risultato di un’ars, è allora evidente che, secondo Celso, di esso è esclusivamente responsabile chi tale ars esercita, ossia l’uomo.
Per i giuristi romani, dunque, il ius si identifica non con il principio normativo certo, ma con la coscienza del giurista, con la sua valutazione di ciò che appare equo caso per caso. In questo senso, il diritto risente dell’ispirazione etica dei suoi interpreti, la cui sensibilità nel cogliere le istanze di giustizia lo riveste di un manto di sacralità. Di questo diritto, ars boni et aequi, afferma Ulpiano, i giuristi sono come “sacerdoti” che hanno il culto della giustizia e il cui compito è “professare la conoscenza del buono e dell’equo, separando ciò che è equo da ciò che è iniquo, discernendo il lecito dall’illecito”. In questa prospettiva, la giurisprudenza appare come “la conoscenza delle cose divine e di quelle umane, la scienza del giusto e dell’ingiusto”.
In questo senso, il diritto è un’ars, una tecnica creatrice che, grazie all’equità, permette di affrontare e risolvere i problemi concreti e specifici della materia giuridica. Nella capacità del giurista di intuire ciò che è conforme all’aequitas sta l’essenza della scienza giuridica.
In che modo l’arte retorica ha contribuito allo sviluppo del ragionamento giuridico?
Anzitutto, occorre ricordare che in Roma antica il mondo dei giuristi e quello degli oratori sono, per così dire, due mondi distinti e paralleli, talora coincidenti, e solo con il passare del tempo si è verificata l’unificazione delle due figure in quella dell’advocatus, l’avvocato in senso moderno.
Nella Roma repubblicana, il giurista, esperto di diritto, svolge essenzialmente attività di consulenza sul ius, ovvero su ‘ciò che è giusto’, e vive e opera tendenzialmente lontano dai tribunali e dalla sfera degli interessi di parte: studia l’aspetto giuridico del caso concreto e ne indica la soluzione che, a suo parere, costituisce la soluzione più giusta. L’oratore, esperto in eloquenza, assume il patrocinio giudiziario: è colui che agisce sulla scena del processo accanto al cliente ed interviene perorando la causa. L’oratore, peraltro, assiste il cliente ma non lo rappresenta: gli sta vicino in tribunale, lo aiuta con la parola e i suggerimenti ma ognuno deve stare in giudizio per sé, proprio nomine. Verso la metà del II sec. a.C., nei tribunali si assiste ad una sorta di concorrenza tra giuristi e oratori, finché i giuristi preferirono lasciare il campo pratico agli oratori per dedicarsi allo studio, limitandosi a prestare consulenza giuridica all’avvocato e scendendo nel foro molto raramente e solamente nei processi civili, dove la retorica trovava scarso impiego.
La distinzione tra il ruolo del giurista e quello dell’oratore-patrocinatore viene efficacemente delineata in un celebre passo del De oratore di Cicerone, opera redatta in forma dialogica dedicata alla formazione del buon oratore: “Se poi chiedessimo chi possa essere definito a buon diritto giureconsulto, direi che può definirsi tale l’uomo esperto di leggi e di quelle consuetudini su cui si appoggiano i cittadini di uno Stato, che sa dare pareri in materia di diritto, redigere schemi processuali e negoziali … L’oratore … penso che sia colui che sappia usare un linguaggio piacevole a sentirsi ed esprimere pensieri convincenti nelle cause forensi e ordinarie: costui, dunque, io chiamo oratore, e vorrei che fosse anche dotato di buona voce, abilità gestuale e di un certo brio”. Il giurista è il peritus, l’esperto delle leggi e delle consuetudini di uno Stato. È il iuris consultus, colui al quale è demandata l’attività del consulere, ovvero del rilasciare consigli in tema di diritto. La sua attività consulente si dirama in tre direzioni, indicate con tre verbi: l’elaborazione di pareri tecnico-giuridici (respondere), la composizione di schemi processuali (agere) e negoziali (cavere). Giurista è, dunque, colui che, in osservanza a una intima deontologia, è proteso al raggiungimento della soluzione maggiormente consona al caso controverso nel modo più conforme al ius. Il suo settore di operatività è tendenzialmente quello della consulenza tecnico-giuridica, finalizzata all’individuazione di quella ‘verità relativa’ consistente nella ricerca del principio giuridico più ragionevole, ossia più compatibile con l’ordinamento e più adeguato a risolvere la controversia, nel quale si esprime il bonum et aequum. Questo comporta l’obiettività della sua risposta (responsum) che non è necessariamente conforme agli interessi del soggetto che lo ha sollecitato.
L’oratore, invece, è colui che ha come obiettivo la persuasione. Come patrocinatore agisce sul palcoscenico del tribunale, ove deve dispiegare tutta la sua potenza espressiva al fine di volgere il convincimento del giudice in favore del proprio assistito, in questo ricorrendo a qualsiasi stratagemma utile. Nella Roma repubblicana nessun ufficio appariva più prestigioso, nobile ed autorevole dell’attività forense, nulla suscita tanta ammirazione quanto la capacità di indirizzare gli animi con la parola, nulla appare più insigne della capacità di avvincere l’attenzione degli uomini, convincerli o dissuaderli, ottenerne il consenso: “nulla è così nobile quanto assistere in giudizio chi ne ha bisogno, per salvare vite e scongiurare pericoli”, “questa è l’unica capacità che da sempre ha avuto importanza ed è sempre stata una caratteristica dei popoli liberi, soprattutto nelle comunità rette dalla pace e dall’ordine”, afferma Cicerone.
Lo storico Tacito (I-II d. C.), nel Dialogus de oratoribus, intesse una lode dell’eloquenza, e specialmente dell’oratoria forense, considerata l’arte che più di ogni altra porta vantaggi concreti, che offre soddisfazioni e che, massimamente prestigiosa, consente di acquisire fama e brillante reputazione: “… niente, più dello studio dell’oratoria, si può trovare nella nostra città che sia più utile e vantaggioso, più piacevole, più prestigioso, che doni più fama presso i cittadini o maggior reputazione in tutto l’impero…”
All’oratoria viene inoltre associato un plusvalore legato alle molte occasioni della vita collettiva, in specie dell’attività pubblica e della vita politica. A Roma già in antico si era infatti pienamente rivelata la decisiva influenza che – unitamente all’autorevolezza dell’oratore e, naturalmente, ai rapporti interpersonali, di legame clientelare o più in generale di potere – potevano esercitare discorsi ben fatti e ben pronunciati tenuti in occasione delle principali decisioni su argomenti che riguardavano l’intera comunità, sia sul piano delle scelte di politica collettiva che della valutazione dei comportamenti del singolo nei confronti delle norme proprie dell’intera comunità. L’uomo politico si doveva pertanto caratterizzare come buon oratore, in grado di persuadere la folla e di guidarla nella voluta direzione. Già l’antico trattato della Rhetorica ad Herennium pone come primo dovere dell’oratore il parlare delle materie che attengono alla politica e alle leggi: “Il dovere dell’oratore è poter parlare, con l’assenso degli ascoltatori, di quelle materie preposte alla pratica politico-sociale, ai costumi e alle leggi.” La funzione politica dell’oratore (o ‘retore’, che, del resto, in greco significa anche ‘politico’) è dunque intimamente connessa alla sua attività: la politica in senso lato era del resto considerata oggetto della retorica, arrivando anche a comprendere la morale sociale.
Il foro, dunque, era la prima palestra a cui si addestrava l’uomo politico nella consapevolezza che la capacità di conquistare una grande vittoria davanti ai giudici apriva le porte ai fasti di una brillante carriera politica. “L’oratoria contribuisce a proteggere lo Stato, portandogli aiuto (iuvat universam rem publicam)”, afferma significativamente Cicerone nell’Orator. Nella saggezza e nell’equilibrio dell’oratore risiede, dunque, non solo il prestigio personale, ma anche la stessa salvezza dei cittadini e dello Stato.
L’attuazione di queste finalità, oltre a indubbie doti naturali, richiede l’impiego di una serie di dottrine retoriche il cui studio non fu essenziale solamente per perfezionare le tecniche argomentative e divenire validi oratori, bensì rappresentò un sapere fondamentale per dotare di maggior profondità e capacità di riflessione la scienza del diritto. In particolare, sotto questo profilo appaiono importanti gli insegnamenti in tema di modi di impostazione delle cause giudiziarie (gli status causae) e di composizione del discorso giudiziario (le cosiddette partizioni oratorie).
L’oratoria, dunque, viene spesso in soccorso alla scienza giuridica, ponendo le condizioni di fondo perché determinate situazioni vengano prese in considerazione (basti pensare alle argomentazioni retoriche che pongono le basi alle moderne teorie in materia di cause di giustificazione del reato). Argomentazione retorica e scienza giuridica sono quindi due modi complementari e interni al sistema giuridico che concorrono entrambi, sia pur su piani diversi, nel definire parametri e modelli di interpretazione giuridica.
Quali insegnamenti sul modo di impostazione delle cause, l’individuazione delle argomentazioni utili e la composizione del discorso giudiziario sono stati elaborati?
Cicerone e il suo anonimo compatriota, autore della Rhetorica ad Herennium, introdussero nella retorica latina, all’interno del genere giudiziario, la dottrina dei cosiddetti status causae, mutuandola da un retore greco del II secolo a.C., Ermagora di Temno. In generale, lo status (da alcuni chiamato constitutio, da altri quaestio o ancora caput) corrisponde sostanzialmente alla questione fondamentale sulla quale verte la controversia tra le parti. Status va inteso nel suo significato etimologico: il termine deriva dal greco stasis che significa ‘punto d’appoggio’. È il punto focale della controversia dal quale scaturisce l’impostazione che occorre dare al processo al fine del ritrovamento degli argomenti (loci) più adeguati.
L’origine del nome deriva dal fatto che in esso si verifica il primo conflitto tra le parti, posto che ogni controversia contiene una questione relativa o al fatto o al nome o al genere o all’azione, o più esattamente, come spiega Quintiliano, lo status non è il primo scontro (“l’hai fatto”, “non l’ho fatto”), ma quello che consegue a questa prima forma di contrapposizione, cioè il genere di questione che viene posto.
Secondo la ripartizione canonica, gli status vengono suddivisi in due generi, razionale (status rationales o status causae), dipendente dal senso comune, e legale (status legales), dipendente dalla legislazione in materia. Il primo genere consiste nell’analisi del fatto in modo tale da poter ricercare le argomentazioni più utili ed efficaci; la seconda categoria riguarda invece le questioni giuridiche relative per lo più ad un testo di legge (ma non necessariamente).
Gli status causae, che qui principalmente interessano, consistono nella messa a fuoco del punto da giudicare e, conseguentemente, rappresentano i differenti modi d’impostazione della causa, tendenzialmente dal punto di vista del difensore. Nessuna questione giuridica può essere sviluppata senza far riferimento a definizione, qualità e congettura, afferma Quintiliano. In previsione del conflitto processuale, l’oratore deve per prima cosa individuare il punto su cui poggia la controversia, sulla cui prova si fonda il processo e sul quale il giudice è chiamato ad emanare la sentenza. In particolare, posto che solitamente la prima mossa spetta all’accusatore, lo status consiste nella prima ripulsa del difensore, connessa all’incolpazione dell’accusatore.
Per impostare correttamente la causa, la retorica insegna tre criteri essenziali, in stretta connessione ai punti controversi sui quali verte il processo e che rispondono tendenzialmente a tre domande: “se e come si sia svolto il fatto imputato”, “quale natura abbia”, “come debba essere rubricato”. Corrispondentemente, tre sono i principali status causae: lo stato congetturale (coniecturalis), lo stato della qualità o giuridicità (qualitatis) e lo stato della definizione (finitivus). Alcuni trattati di retorica, inoltre, ricordano che Ermagora avrebbe escogitato un quarto status causae, la translatio, che sorge quando l’imputato o il convenuto sostengono che si deve differire il termine, o sostituire l’accusatore, o si devono cambiare i giudici.
In particolare, lo stato congetturale si ha quando il reo non ammette l’accusa e, di conseguenza, permane il dubbio sul fatto che gli viene imputato: pertanto, si procede per congetture, in base a indizi. Esso insorge nel tipico caso di processo indiziario quando, riscontrando la mancanza di prove solide ed oggettive, l’avvocato deve impostare la difesa sulla base di argomentazioni logiche. La coniectura è pertanto chiamata anche status infitialis (negativo) dato che, in quasi tutte le cause penali, la difesa consiste per lo più nella negazione del fatto imputato. Cicerone, nel De inventione, distingue tre loci propri della coniectura: ex persona, che coinvolge le caratteristiche della persona, ex facto, che riguarda le circostanze del fatto contestato, ex causa, ovvero il movente, che consiste in ciò che induce alla commissione del fatto addebitato. Il movente costituisce, secondo l’Arpinate, il fondamento dello status coniecturalis, poichè nessun fatto può essere provato se non si dimostra per quale ragione è stato compiuto. In particolare, il movente può essere di due tipi, inpulsio (impulso) e ratiocinatio (premeditazione).
Si ha lo status della definizione (definitivus o della finitio) quando l’accusato ammette il fatto ma non conviene con l’accusatore circa la denominazione del fatto criminoso. In questo caso, la discussione giudiziaria si incentra soprattutto sull’esatta definizione giuridica del fatto, ossia sulla rubricazione del reato. In questo status si pone la domanda: “qual è la qualifica legale del fatto?”, “sotto quale nome giuridico deve essere sussunto?” La causa imperniata sulla definitio presuppone, quindi, che le parti siano d’accordo sul fatto e la controversia riguarda soltanto la definizione giuridica che deve essere usata per descriverlo.
Quando le parti in conflitto convengono sul fatto e sulla sua definizione, si ha lo stato della qualità o giuridicità, in cui si ricerca se il fatto sia stato commesso conformemente al diritto oppure no. L’accusato ammette, dunque, di avere commesso il reato di cui è accusato, conviene sulla rubricazione del medesimo ma dichiara di averlo commesso a buon diritto: è, in sostanza, l’ordine delle scriminanti o cause di giustificazione. Il dibattito si incentra in questo caso sulla legittimità o meno del fatto stesso.
Nello status della giuridicità si distinguono due parti, di cui una è detta assoluta, l’altra assuntiva. In particolare, la giuridicità (o antigiuridicità) può manifestarsi con elementi insiti nel fatto stesso: in tal caso, la difesa è già robusta e sicura senza la necessità di invocare fattori eterogeni (pars absoluta: parte della giuridicità assoluta). La qualitas absoluta configura dunque i casi di assoluta giuridicità, ossia di piena conformità all’ordinamento giuridico ed è così chiamata, come spiega Quintiliano, perché la questione riguarda unicamente il fatto oggetto dell’accusa, cioè se sia giusto o no. Il fondamentale parametro per valutarla è quindi la iustitia: in questa parte, quindi, si ricerca se il fatto, che l’imputato ha confessato aver commesso è comunque avvenuto secondo diritto: il dibattito processuale si incentra allora, essenzialmente, sulle cosiddette “cause di giustificazione”.
Quando, al contrario, la difesa è in sé debole e da sola non dà certezze circa la possibilità di respingere l’accusa, si ha il secondo genere di difesa, la qualitas absuntiva, con cui si giustifica un atto lesivo facendo ricorso ad elementi esterni all’atto stesso: questa parte viene quindi detta assuntiva perché trae valore da elementi “assunti” dall’esterno. Le tipologie difensive proprie della qualità assuntiva sono quattro: l’ammissione (concessio), l’esclusione della responsabilità (remotio criminis), il trasferimento su altri della colpa (translatio criminis) e la comparazione (comparatio). Si tratta, in pratica, di quattro diverse vie argomentative che il difensore può ravvisare utile perseguire.
Quando l’accusato è costretto a confessare il fatto l’avvocato può tentare la concessio, che consiste, in sostanza, nell’ammissione della propria colpevolezza. Secondo l’antico trattato della Rhetorica ad Herennium, l’ammissione si ha quando l’imputato chiede che lo si perdoni. In particolare, quando c’è ancora una speranza di far leva su qualche scusante, l’avvocato tenterà di addurre una giustificazione (purgatio, altrove chiamata excusatio), altrimenti, non gli resterà altro da fare che supplicare perdono. La purgatio è quindi l’argomento mediante il quale si difende non l’azione dell’accusato ma la sua volontà, e si fonda su tre mezzi di difesa: imprudenza, caso, necessità. In particolare, l’inprudentia si ha quando il reo afferma di aver commesso il fatto perché non conosceva qualche elemento determinante: in sostanza, è la mancata conoscenza (inscientia) di qualcosa che ha determinato un errore. Il caso (casus o fortuna) si ha quando l’accusato dichiara che tra il fatto e la sua volontà si è interposto, ineluttabile, un evento accidentale, escludendo pertanto la volizione dell’evento dannoso. La necessità (necessitudo) si verifica quando l’accusato si giustifica adducendo come causa del suo agire una forza superiore, come mal tempo, malattia e simili.
Qualora non disponga di cause di giustificazione abbastanza sicure da poter confidare di respingere l’accusa, l’avvocato dovrà ricorrere alle altre argomentazioni difensive, che vengono sostanzialmente ravvisate in remotio (o tralatio) translatio, comparatio. Impostando la difesa sulla remotio, l’avvocato tenta di escludere la responsabilità dell’assistito spostando la causa del fatto imputato su un’altra persona o su una cosa. Si tratta, ad esempio, del caso di esecuzione di ordini provenienti da un’autorità sovraordinata (o almeno ritenuta tale): il dovere di obbedienza che lega il sottoposto al superiore gerarchico escluderebbe, si sostiene, la libertà della volizione dell’atto. Nella translatio criminis la colpa dell’azione viene, invece, riversata su un’altra persona, a sua volta colpevole, secondo l’accusato, di un fatto che non poteva non scatenare la reazione addebitata: in pratica, quindi, sostiene di aver agito secondo diritto poiché provocato da un precedente fatto antigiuridico commesso da altri. Si ha, infine, la comparatio quando si afferma che l’accusato si era trovato davanti ad un bivio comportante la scelta tra due comportamenti entrambi apparentemente necessari. In questo caso, pertanto, entra in gioco il giudizio tra un’azione commessa ed un’azione omessa, attuato secondo il parametro totalmente personale del soggetto agente che, nell’immediatezza degli eventi, ha dovuto operare una valutazione di opportunità senza la possibilità di un’adeguata riflessione.
Dalla corretta impostazione della causa, dunque, scaturiscono secondo i retori le argomentazioni più utili e opportune alla controversia. La persuasività e la potenza espressiva delle argomentazioni prescelte devono innestarsi su un impianto architettonico atto a rendere l’arringa solida, chiara e coerente. A tal fine, i trattati retorici concordano sull’opportunità che l’oratore segua uno schema logico, consistente in cinque operazioni principali, intese come atti di un’organizzazione progressiva. Si tratta di: inventio, cioè il ritrovamento delle argomentazioni che rendono probabile la tesi offerta; dispositio, la distribuzione ordinata degli argomenti; elocutio, l’esposizione di tali argomentazioni con parole appropriate; memoria, l’arte mnemonica; actio o pronuntiatio, il portamento con cui si declama l’arringa. La prima partizione è l’inventio e consiste nello studio approfondito della causa finalizzato alla ricerca degli argomenti più utili alla propria tesi. L’etimologia, che richiama il verbo invenire (trovare), riconduce all’immagine della scoperta, più che della creazione: gli argomenti già esistono nella mente, sta all’oratore ritrovarli. Dall’inventio partono due grandi vie, una logica e l’altra psicologica: convincere e commuovere. L’oratore deve infatti aver cura non solo della ricerca delle argomentazioni più opportune e più convincenti, bensì anche di altri tre mezzi di persuasione: dimostrare la veridicità della propria tesi (probare), accattivarsi la simpatia degli ascoltatori (conciliare) e provocare nel loro animo qualsiasi emozione richiesta dalla causa (movere). Queste infatti sono le finalità dell’eloquenza forense, su cui si fonda tutta l’arte oratoria. In questo modo, è la convinzione, i giudici avranno la sensazione di vedere e toccare con mano, e non semplicemente di ascoltare, i fatti e gli argomenti presentati dall’oratore.
Una volta scelti gli argomenti più idonei a sostenere la propria tesi, occorre esporli ordinatamente al fine di comporre un discorso armonico, scorrevole ed adeguato al tema. La congrua composizione all’interno del discorso dei frutti dell’inventio è la dispositio. Secondo Quintiliano, non è infatti importante soltanto trovare gli argomenti migliori e le parole più adatte, ma conta anche il modo in cui questi elementi vengono composti ed armonizzati tra loro. Anzi, secondo il retore spagnolo anche una grande ricchezza di idee e di argomenti non potrebbe ottenere l’effetto desiderato se tali argomenti non venissero tra loro convenientemente ordinati e collegati secondo criteri di logica e di opportunità. Senza la dispositio, l’inventio non avrebbe addirittura alcun valore. La disposizione degli argomenti, inoltre, deve seguire alcune tappe: il discorso deve iniziare con un esordio (exordium), che introduce l’oggetto della causa, per poi esporre il fatto con la narrazione (narratio), provare la propria tesi (demonstratio o confirmatio), adducendo solide prove a sostegno (probatio o confirmatio in senso stretto) e confutando quelle dell’avversario (confutatio), infine concludere e perorare (peroratio).
L’elocutio consiste nella capacità di esprimersi e di esporre il proprio pensiero, con particolare cura all’efficacia ed all’eleganza dell’espressione. Rappresenta l’elaborazione del discorso mediante la scelta e la combinazione delle parole e delle varie figure del linguaggio atte a colorare, amplificare e rafforzare gli argomenti prescelti. La formazione del periodo e la collocazione delle parole costituiscono qualità essenziali del buon oratore, tanto che Quintiliano afferma che l’inventio senza l’elaborazione stilistica (elocutio) non dà luogo a un vero discorso. L’elocutio deve sempre avere i seguenti requisiti: parlare correttamente la propria lingua (latine), in modo chiaro (plane), elegante (ornate), adatto e coerente alla materia trattata e al contesto (apte congruenterque).
La memoria viene rappresentata come una totalità di spazio, nelle cui parti (loci) sono ubicate le idee. Per l’oratore “non è solo “lo scrigno delle idee” trovate con l’inventio, ma anche “la custode di tutte le parti della retorica”. È una qualità, dunque, che non è necessaria solo per ricordare e custodire argomenti e parole: è necessaria anche per trovarle. Necessaria in ogni discussione, la memoria è, dunque, ancor più necessaria nel dibattito giudiziario, quando l’oratore, in piedi nel foro, solo nel declamare la sua orazione, non può che trovare aiuto nella memoria. Infine, quinta partizione oratoria è l’actio (o pronuntiatio), la declamazione, ossia il modo in cui vengono porti gli argomenti. È il fattore preponderante nell’oratoria, in cui giocano un ruolo fondamentale il tono, la voce, il gesto e l’espressione del volto. La convinzione del suo ruolo decisivo è tale che Quintiliano afferma addirittura che il modo in cui si presenta il discorso è molto più importante degli argomenti e che nessuna prova è solida se non è sorretta da un’appassionata declamazione. Infatti, è ferma la convinzione dei retori per cui se l’oratore sarà fiacco e distaccato nel declamare il discorso, anche il giudice, quasi inevitabilmente, si lascerà contagiare dalla sua indifferenza, mentre enfasi e passione possono al contrario riuscire a smuoverlo e a convincerlo. Ogni discorso, per quanto perfetto, resta infatti lettera morta, afferma Cicerone, se non si possiede la capacità di porgerlo al pubblico, come attori su un palcoscenico. In conclusione, insomma, la declamazione rappresenta l’arma finale per conseguire il risultato perseguito dall’oratore: la persuasione.
Anna Bellodi Ansaloni è Professoressa associata di Diritto romano e diritti dell’antichità presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna. È autrice di numerose pubblicazioni tra cui le monografie: Ricerche sulla contumacia nelle cognitiones extra ordinem; Ad eruendam veritatem. Profili metodologici e processuali della quaestio per tormenta; L’arte dell’avvocato, actor veritatis. Studi di retorica e deontologia forense.