
Il primo esempio è offerto da Michael Polanyi. All’inizio degli anni Sessanta Polanyi propose un’idea che si rivelò assai fortunata: la scienza è organizzata come una Repubblica, senza alcuna autorità centralizzata. Polanyi notò come sia la scienza sia il mercato economico, tipico delle democrazie occidentali, funzionino grazie ad un processo “a mano invisibile”. In tale processo, ciascuno procede tendendo d’occhio le persone che agiscono nelle aree limitrofe, creando in questo modo una rete di sovrapposizioni parziali. Nei processi di mercato dovrebbe essere ovvio il meccanismo a cui si riferisce Polanyi: è il meccanismo della concorrenza, dove ciascun agente tiene presenti i prezzi, frutto delle decisioni di tutti gli altri agenti. Nella scienza, si tratta del processo della peer review (a cui Polanyi non si riferisce esplicitamente) e della divisione delle conoscenze, che conducono ad un coordinamento spontaneo.
Sempre nel secolo scorso, negli anni dell’immediato dopoguerra, anche il filosofo Karl Popper propose un’idea che si rivelò assai influente, quella di una “Società aperta”. Anche qui sono evidenti le strette analogie tra la scienza e le società liberali e democratiche: per il loro progresso, sia la scienza sia le società democratiche hanno bisogno di una libera discussione critica. In estrema sintesi, troviamo qui l’idea ispiratrice del razionalismo critico, che, come abbiamo detto, Popper sviluppò sia in ambito epistemologico che in ambito sociale.
Per quanto riguarda l’attività scientifica, Popper sostenne che la scienza procede tramite coraggiose congetture e severi tentativi di confutazione. È la nota metodologia del falsificazionismo, che in Popper è la versione epistemologica del razionalismo critico: gli scienziati propongono delle teorie per la risoluzione di problemi empirici e teorici e successivamente controllano le teorie con esperimenti ed osservazioni, con i quali si cercano di eliminare le teorie false. Per quanto riguarda le società democratiche, Popper suggerì che una procedura analoga avrebbe dovuta essere riprodotta in filosofia sociale. Nella logica della ricerca sociale, i problemi sono dati dall’eliminazione delle sofferenze o in generale dell’“infelicità”: i governi presentano dei programmi per la risoluzione di problemi sociali, e i cittadini, attraverso elezioni democratiche, hanno il compito di controllare se gli obbiettivi sono stati raggiunti in modo soddisfacente. Pertanto, per Popper, sia nella scienza che nella società il processo di apprendimento dall’esperienza è fondamentalmente eliminativo.
Si tratta di idee feconde, non solo dal punto di vista dell’epistemologia, ma anche da un punto di vista filosofico-politico. Polanyi usò la sua idea di una Repubblica della scienza per combattere la tesi, all’epoca influente, che la ricerca scientifica potesse essere pianificata allo scopo di servire meglio il progresso sociale. Anche le idee di Popper si rivelarono certamente feconde, in difesa di un riformismo liberale e socialista.
Dal punto di vista contemporaneo, le idee di Polanyi e di Popper mostrano tuttavia un limite evidente. Esse partono da una analogia, per quanto stretta, tra il funzionamento delle società libere e la ricerca scientifica. Come in tutte le analogie, se ne sottolineano le somiglianze e la reciproca armonia, mai il conflitto e le potenziali tensioni. Negli scritti di Polanyi e di Popper non si trovano infatti accenni ai possibili contrasti tra la scienza (rappresentata dall’esperto scientifico) e la democrazia (rappresentata dall’opinione pubblica). Oggi, in un’epoca assai lontana da quella in cui vissero Polanyi e Popper, è invece l’aspetto dei potenziali contrasti e conflitti che ha attirato principalmente l’attenzione di filosofi, scienziati, giuristi e sociologi.
Forse il punto di svolta dalla concezione “armonica” a quella “conflittuale” è offerto dal programma del Public Understanding of Science. Negli anni Ottanta, allarmati dall’ostilità dell’opinione pubblica verso le nuove tecnologie, la Royal Society e l’American Association for the Advancement of Science si proposero una capillare opera di divulgazione ed informazione scientifica. A loro parere, la scienza era troppo difficile e l’opinione pubblica ne mostrava un’evidente incomprensione. Il rimedio consisteva dunque nel far uscire gli scienziati dai loro laboratori o dalle loro università ed impegnarli in una corretta opera di divulgazione dei risultati a cui era pervenuta la scienza. Questo programma, che aveva un’evidente connotazione paternalistica, fallì, e oggi sono pochi a volerlo riproporre, almeno nelle sue intenzioni originarie. Molte sono le ragioni che ne spiegano il fallimento, e su di esse ritornerò successivamente, quando ritornerò sulla rivisitazione pragmatista della Repubblica della scienza proposta da Polanyi. Qui vorrei sottolineare come l’enfasi sulla potenziale conflittualità tra scienza e democrazia emerge non solo nei comportamenti dell’opinione pubblica, ma anche in ampi settori del mondo accademico. La filosofia del costruttivismo radicale, l’epistemologia femminista, il programma forte in sociologia della conoscenza, i movimenti della deep ecology, tra di loro variamente collegati, insieme al fondamentalismo religioso, rappresentano tutti esempi in cui la scienza è percepita in conflitto con la società. La presunta oggettività della ricerca scientifica è vista come una pericolosa illusione che deve essere smascherata. In particolare, il costruttivismo più radicale, nelle sue varie ramificazioni, sottolinea come le teorie scientifiche siano in realtà dei “costrutti” sociali, frutto di negoziazioni e di rapporti di potere di cui si denunciano le asimmetrie. Per queste correnti di pensiero, l’accettazione di una teoria non è frutto di esperimenti e di osservazioni, ma il frutto autoritario del potere. Di conseguenza, il compito oggi impellente consisterebbe nel denunciare la presunta oggettività della scienza tramite la “decostruzione” dei suoi concetti e delle sue teorie, allo scopo di far emergere le relazioni sociali che ne sono alla base.
Ancora oggi si nota come il dibattito oscilli continuamente dalla tesi dell’armonia tra scienza e democrazia a quella della loro estrema conflittualità. Entrambe le tesi appaiono avere dei limiti evidenti. Non è tuttavia semplice trovare un “giusto equilibrio” o, per usare una terminologia tipicamente filosofica, individuare il loro “superamento” tramite un terzo punto di vista che eviti la stretta dicotomia tra l’inevitabile armonia e l’inevitabile conflittualità. È questa una sfida non solo strettamente intellettuale, ma anche nel senso più ampio culturale e sociale. Si tratta, infatti, della premessa necessaria per capire la connessione tra il progresso scientifico (l’incremento oggettivo delle nostre conoscenza della natura) e il progresso sociale (lo sviluppo e l’affermarsi dei valori propri delle nostre società democratiche).
Quale specifica lettura offre la filosofia del pragmatismo?
Il pragmatismo è un’etichetta che accoglie approcci filosofici molto differenti. All’inizio del secolo scorso Arthur O. Lovejoy pubblicò un articolo in cui si affermava l’esistenza di ben tredici diverse forme di pragmatismo. Oggi con il neopragmatismo di Rorty e di Putnam la situazione non si è certo semplificata. Dunque, mi limito a descrivere la specifica forma di pragmatismo che ho inteso sostenere nel libro. In estrema sintesi, da Peirce ho ripreso soprattutto la teoria della verità, mentre da Dewey ho ripreso l’idea che la logica della ricerca possa essere estesa alla morale. Oppure, in termini negativi, di Dewey ho rifiutato la teoria della verità come “asseribilità garantita”, mentre di Peirce ho rifiutato l’idea che la morale sia una questione di istinto e di sentimenti. Da entrambi, ho preso la concezione della ricerca come metodo per la risoluzione del dubbio. Ovviamente, nel libro cerco di mostrare che questa operazione concettuale non è frutto di un discutibile sincretismo.
Venendo dunque alla domanda. Grazie a questa forma di pragmatismo, mostro come le concezioni tradizionali – quelle che ho prima definito “armoniche” o “conflittuali” – anche se all’apparenza antitetiche condividano almeno tre presupposti al riguardo del rapporto tra scienza e società. Questi sono i tre presupposti:
- Scienza e società sono due blocchi concettualmente separati.
Contro questa presunzione, si deve osservare in via preliminare che la scienza non è sempre unanime nella valutazione della ricerca. Si potrebbe forse sostenere che a volte gli scienziati non sono unanimi semplicemente perché l’evidenza empirica non è al momento sufficiente. Tuttavia, vale la pena di notare come l’insufficiente evidenza empirica di per sé non impedirebbe agli scienziati di raggiungere l’unanimità. In caso di prove insufficienti, gli scienziati potrebbero concordare sulla scala di incertezza in attesa di risultati empirici definitivi o, almeno, concordare che non ci sono elementi tali da prendere una decisione. Di solito, questo non accade. Al contrario, abbiamo polemiche roventi dove ogni partito mostra granitiche ed incompatibili certezze. Anche ad uno sguardo superficiale, la scienza si dimostrata piuttosto frammentata, quantomeno non un blocco omogeneo.
Tuttavia, non è ancora questo il punto essenziale. Piuttosto, ne è solo la premessa. Le controversie scientifiche riguardano l’attenta raccolta di fatti e la rigorosa critica delle argomentazioni sostenute dal partito avverso. Senza questi fattori epistemici non potremmo parlare di scienza. Senonché, ciò non impedisce che a volte le controversie scientifiche siano strettamente connesse con conflitti sociali, poiché ogni partito scientifico è sostenuto da diversi settori della società. Questo è il caso delle controversie circa l’uso dell’energia nucleare, la sicurezza degli organismi geneticamente modificati, l’uso sperimentale di cellule staminali embrionali, o la polemica sui limiti alla crescita economiche.
- Il rapporto di influenza è unidirezionale: va dalla scienza alla società o dalla società alla scienza
Per Polanyi e Popper (nonostante le loro molte differenze), la scienza offre alla società la conoscenza del mondo che ci circonda. La verità delle conoscenze scientifiche è determinata dalla realtà, non da preoccupazioni morali. Il compito della società consisterebbe invece nell’utilizzare al meglio queste conoscenze, alla luce dei fini e dei valori morali. Il flusso di informazioni va dunque dalla scienza alla società. In alternativa, per i costruttivisti radicali la società plasma gli stessi contenuti della conoscenza scientifica. Anche in questo caso, il flusso è unidirezionale, sebbene avvenga nella direzione opposta: è la società a determinare ciò che intendiamo per conoscenza scientifica.
Si può invece mostrare come il processo sia bidirezionale, va dalla scienza alla società, ma anche dalla società alla scienza. Nel libro si trovano molti argomenti a favore di questa conclusione, dal superamento della dicotomia tra scienza “pura” e scienza “applicata”, al “rischio induttivo”, alla natura “transazionale” della conoscenza. Quest’ultimo argomento è forse il più semplice, almeno ad un livello assai superficiale. Esso sottolinea come scienza e società collaborino alla creazioni di nuove ontologie. Sempre nel libro mostro come ciò accada seguendo due diversi, ma analoghi, percorsi. Nel primo caso, la creazione di nuove ontologie avviene mediante quella particolare forma di tecnologia concettuale che è il linguaggio. Nel secondo caso, ciò avviene mediante la tecnologia intesa nel suo senso ordinario, fatta di strumenti fisici o materiali. Mi limito a quest’ultimo rapporto transazionale, perché è sicuramente il più intuitivo.
L’ultimo Dewey distinse tra interazioni e transazioni. Nelle interazioni, la relazione tra due entità non cambia la loro natura. Il paradigma di interazione è dato dalla meccanica classica dove due corpi interagiscono attraverso forze gravitazionali. Vi sono tuttavia casi chiaramente transazionali, in cui vi è un cambiamento di natura tra entità attraverso le relazioni reciproche che si instaurano. Almeno in alcune occasioni, il rapporto tra scienza e società è precisamente transazionale, poiché conduce alla creazione di nuovi oggetti scientifici. Esempi di questo genere sono gli OGM e le staminali embrionali modificate. Si tratta di oggetti che arricchiscono l’ontologia della scienza e sono il risultato delle preoccupazioni pratiche e morali presenti nella società. A loro volta, gli studi condotti su questi nuovi oggetti consentono importanti ricadute che vanno dalla scienza alla società, a cominciare dalle strutture giuridiche in essa presenti. Vi è dunque un senso in cui scienza e società si formano reciprocamente.
- Se la scienza non fosse moralmente neutrale allora non sarebbe oggettiva.
I costruttivisti radicali ritengono che l’antecedente del condizionale sia vero (la scienza è carica di valori morali) e quindi ritengono che anche il conseguente sia vero (la scienza pretende di spiegare una realtà indipendente dal contesto, mentre è solo una costruzione sociale). Al contrario, i sostenitori delle concezioni armoniche ritengono che il conseguente sia falso (la scienza è oggettiva) e quindi ritengono che anche l’antecedente sia falso (la scienza, o almeno la buona scienza, è priva di valori morali). Apparentemente, le due posizioni sono radicalmente differenti, ma in realtà entrambe ritengono che la presunzione, rappresentata dalla proposizione condizionale nel suo insieme, sia vera. È questa, ritengo, la presupposizione più importante, che dà preciso significato alle precedenti.
Il pragmatismo si differenzia da entrambe le posizioni, poiché rifiuta la presupposizione. Per il pragmatismo, o almeno per il pragmatismo che intendo difendere, la scienza è infatti ad un tempo carica di valori morali e oggettiva. La questione centrale per comprendere questa affermazione riguarda la teoria della verità sostenuta dal pragmatismo.
Per il pragmatismo, la ricerca mira essenzialmente a lenire l’irritazione del dubbio che paralizza l’azione. Il fine immediato della ricerca non dunque è la verità, ma l’eliminazione del dubbio. Ciononostante, nel pragmatismo la verità giunge ad avere un ruolo centrale nella ricerca. Infatti, tutti i metodi che cercano di prevenire il sorgere del dubbio isolando o difendendo le nostre convinzioni attuali sono destinati a fallire. L’unica speranza di raggiungere un sistema di credenze che alla fine, nel lungo periodo, non dia adito a dubbi è fornito dal metodo scientifico, che consiste nella raccolta attenta dei fatti e nell’ascolto delle critiche. È in questo modo che la verità viene ad avere un ruolo essenziale. Solo se seguiamo il metodo scientifico, cioè solo se siamo aperti ai fatti e alle critiche, possiamo avere la “serena speranza” – uso le parole di Peirce – che alla fine raggiungeremo credenze vere, nel senso di non essere aperte ad ulteriori dubbi, dal momento che costituiscono abiti di condotta che ci guidano con successo nelle nostre azioni.
La concezione pragmatista della verità ha dato origine a molte discussioni. Dal mio punto di vista, il grande vantaggio di questa idea di verità è che può essere estesa alle indagini morali. La verità in etica è posta a conclusione di una ricerca potenzialmente infinita. Ancora una volta, in un senso pragmatico una credenza morale è vera perché non può in linea di principio dare adito a dubbi circa la migliore azione da eseguire nelle circostanze rilevanti. Questa estensione alla morale della teoria pragmatista della verità non è stata sostenuta da Peirce, ma è una linea di ricerca fatta propria da alcuni studiosi che hanno profondamente studiato Peirce. In ogni caso, l’estensione della logica della ricerca alla morale è difesa anche da John Dewey quando afferma che le idee morali sono simili ad ipotesi scientifiche. In sintesi, per il pragmatismo scienza e morale sono due aspetti della stessa identica ricerca, che ha come scopo la verità.
A ciascuna presupposizione va dunque opposta una tesi contraria. Abbiamo infatti visto che: a) scienza e società non sono due blocchi che si contrappongono, poiché risultano reciprocamente frammentate, b) il rapporto di influenza tra scienza e società è bidirezionale anche tramite processi transazionali, e c) la scienza è sia oggettiva sia carica di valori morali. Da quest’ultima tesi, ho anche introdotto una quarta tesi, d) scienza e morale sono due aspetti della stessa identica ricerca, che ha come scopo la verità.
Dalla critica delle tre presupposizioni appena illustrate, giungo a difendere la seguente affermazione, che rappresenta la tesi principale del libro: In una società democratica, scienziati e cittadini sono componenti di una stessa comunità di ricerca, che ha come scopo la verità.
Di quali valori è portatrice la scienza?
Qui posso essere sbrigativo nella risposta. L’idea che scienziati e cittadini costituiscano un’unica comunità di ricerca conduce alla considerazione che non esistono valori peculiari alla ricerca scientifica. Nel suo celebre saggio, Il fissarsi della credenza, Peirce argomenta che il metodo scientifico è l’unico in grado di darci la speranza di risolvere l’irritazione del dubbio. È interessante osservare che i vari metodi (o, per meglio dire, atteggiamenti, poiché non consistono in insiemi di regole) sono illustrati e criticati in riferimento alla loro dimensione sociale. Per il pragmatismo, la ricerca scientifica e la ricerca sociale condividono lo stesso atteggiamento razionale. Vi sono molte resistenze ad accettare questa affermazione, poiché si ritiene che la ricerca scientifica abbia a che fare con la spiegazione e la previsione dei fatti, mentre la ricerca sociale riguarda inevitabilmente anche i valori morali. Tuttavia, abbiamo già visto come il pragmatismo cerchi di superare la dicotomia tra l’epistemico e il morale o, il che è lo stesso, tra i valori e fatti. In entrambi i casi, sono rilevanti gli usuali valori associati alla scienza (ascolto delle critiche, raccolta onesta dei fatti, trasparenza, ecc.).
Quale responsabilità morale ricade sullo scienziato?
In molti casi lo scienziato non ha immediate responsabilità morale. Ciò avviene in tutti quei casi in cui la ricerca ha conseguenze solo sul nostro sistema di credenze. Tuttavia, nelle loro ricerche gli scienziati prendono spesso decisioni che hanno anche conseguenze di natura morale. Nel libro, ad esempio, mi dilungo sulla natura del cosiddetto “rischio induttivo”. Inoltre, bisogna considerare che la scienza “pura” (tale perché ha come scopo la sola verità) è sempre connessa con la scienza applicata (che ha anche scopi morali). Non si tratta, come a volte viene sostenuto, di una semplice connessione sociologia, nata con la big science. Il pragmatismo mostra come sia una connessione concettuale. La scienza “pura” non va subordinata alla scienza applicata (come vogliono gli strumentalisti, un errore commesso anche da Dewey). Piuttosto, ricerca “pura” e “applicata” sono astrazioni a partire da una stessa identica ricerca. In questo contesto, non è sorprendente se è assai facile per lo scienziato attraversa il confine tra l’epistemico e il morale.
Come si dovrebbe configurare una Repubblica della scienza?
Ho già descritto il concetto di Repubblica della scienza, in origine proposta da Polanyi. La mia idea di una singola community of inquirers è un qualcosa di diverso, poiché la comunità di ricerca è estesa a tutti i cittadini. Nel libro espongo vari argomenti in cui si mostra come i cittadini non si limitino ad utilizzare conoscenza nate altrove. Qui mi limito a ricordarne uno soltanto, che riguarda l’applicazione del sapere teorico. Sin dai tempi di Aristotele, si è consapevoli che regole e leggi universali non possono essere applicate in modo meccanico a casi particolari. In altre parole, le regole e le leggi universali non includono le istruzioni per la loro applicazione. Per la loro applicazione pratica ci vuole una buona dose di “saggezza”, e tale saggezza richiede una attenta valutazione delle circostanze particolari, circoscritte nel tempo e nei luoghi. Il punto da sottolineare è che questa conoscenza particolare è, almeno in alcuni casi, a disposizione degli abitanti del luogo o delle persone, cioè i cittadini, direttamente coinvolti nell’applicazione delle leggi e delle regole generali. In questi casi, il mancato coinvolgimento dei cittadini ai processi decisionali conduce a cattive decisioni da parte dell’esperto scientifico. Vi sono molti casi studio che illustrano la questione. Qui accenno solo ad un singolo episodio, che ho approfondito nel libro ed anche in un saggio in via di pubblicazione. Si tratta del disastro del Vajont. Ricordiamone, innanzitutto, i fatti salienti.
Il 9 ottobre del 1963 una frana di dimensioni gigantesche si stacca dal Monte Toc, cadendo nel lago artificiale del Vajont. La diga resiste all’urto, ma un’onda con punte oltre i 200 metri tracima e inonda il paese di Longarone, posto a valle. Le vittime sono circa duemila. I primi studi sulla fattibilità della diga risalgono addirittura agli anni Venti. È importante notare che gli studi sulla stabilità della zona d’invaso si limitarono esclusivamente alla zona d’imposta e alla tenuta idraulica del bacino. Oggi, può apparire temerario iniziare un’opera di quelle dimensioni senza uno studio preliminare sulla stabilità dei versanti della vallata della vallata, ma all’epoca gli sforzi erano tutti concentrati sui formidabili problemi ingegneristici piuttosto che su quelli strettamente geologici. Da questo punto di vista, inizialmente i costruttori della diga non commisero alcun atto penalmente perseguibile.
Gli abitanti del luogo mostrarono una differente attenzione verso i versanti della vallata. Grazie ad una profonda conoscenza del luogo, tramandata attraverso intere generazioni, sospettavano che il terreno fosse instabile. È evidente in questo caso il ruolo di una piccola comunità erede di antiche tradizioni locali. A volte si parla di una conoscenza della gente “comune” da contrapporre alla specializzazione della scienza ufficiale. È questa tuttavia una contrapposizione fuorviante. Gli abitanti del luogo possedevano una conoscenza altamente specializzata, accumulata negli anni attraverso una dettagliata osservazione dei luoghi in cui abitavano. Tutta la loro memoria storica spingeva a considerare franosa l’intera area. Persino la toponomastica stava ad indicarlo: il nome “Monte Toc” deriva infatti dal dialetto locale “patoc”, che significa “guasto” o “sfatto”. Con il senno del poi, sarebbe stato opportuno seguire le indicazioni degli abitanti e compiere un esame geologico dettagliato di tutti i versanti della valle, sebbene all’epoca tale esame non rientrasse nella prassi scientifica accettata.
Dunque, le conoscenze dei cittadini interessati possono a volte migliorare la conoscenza degli esperti (qui ho riportato solo un caso, ma ve ne sono molti altri). L’informazione non va esclusivamente dagli esperti verso i cittadini, ma dovrebbe essere vista come una relazione nei due sensi, includendo anche un processo che va dai cittadini agli esperti. La scienza non è semplicemente la scoperta delle leggi universali della natura. È anche uno strumento per la risoluzione di problemi, e nei tentativi di soluzioni i cittadini non sono soggetti passivi, non si limitano ad usare conoscenze acquisite altrove. Essi stessi contribuiscono alla definizione e alla stessa soluzione dei problemi. In estrema sintesi, questa è la tesi che ho difeso nel mio libro sui rapporti tra scienza e democrazia: scienziati e semplici cittadini dovrebbero essere considerati un’unica comunità di ricerca, che ha come scopo la ricerca della verità.