
Così, i primi due grandi scienziati dell’organizzazione sono stati Frederick W. Taylor, e Max Weber, attivi sui due fronti distinti dell’organizzazione industriale (con lo Scientific Management) e della teoria della burocrazia negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Occorre considerare che la prima metà del secolo XX ha visto una grande trasformazione delle società capitaliste avanzate, in Nord America e in Europa, trainata dall’affermarsi di organizzazioni complesse, le grandi imprese industriali e le burocrazie degli Stati. In questo arco di tempo, esteso fino agli anni 1960, si è realizzata una crescita economica senza precedenti, che ha attraversato le traumatiche interruzioni di due conflitti mondiali e di un periodo di grande depressione. Le moderne teorie dell’organizzazione sono sorte in questo periodo, capitalizzando contributi di provenienza eterogenea, come quelli di molti studiosi classici delle scienze sociali; il concetto centrale però è uno solo, l’organizzazione emerge come formidabile forza di trasformazione, come metodo di razionalizzazione e modernizzazione che dà vita a una nuova società dove le grandi organizzazioni svolgono un ruolo “pivotale” in ogni settore. Nella “società delle organizzazioni”, queste ultime sono il motore della crescita, ponendosi come istituzioni sociali che inglobano grandi numeri di lavoratori con rapporti di impiego stabili e sono governate da ristrette élites manageriali. Si tratti di grandi imprese, o di amministrazioni statali, i confini delle organizzazioni sono ben stabiliti rispetto al contesto esterno; e il loro ruolo di motore dello sviluppo è dovuto a nient’altro che alla superiore capacità produttiva legata alla razionalità decisionale, alla capacità di calcolo, alle economie di scala.
Le due correnti fondative del moderno pensiero organizzativo, nonostante l’assenza (per quanto si sappia) di contatti diretti, o di influenza reciproca, sono accomunate dall’aver saputo dare evidenza ad una forma di razionalità superiore, dalla quale scaturiscono benefici sociali di ampia portata.
A partire da questi fondamenti, la scienza dell’organizzazione si è poi sviluppata impetuosamente, disordinatamente, pluralisticamente nell’arco ormai di almeno un secolo. È stata spinta prima dalla crescita dell’industria e della burocrazia; successivamente, dalle trasformazioni del capitalismo nel senso della globalizzazione, della terziarizzazione e dell’economia della conoscenza; sul piano intellettuale, ha trovato alimento nelle scienze sociali di matrice europea e americana; la progressiva e rapida affermazione delle Business School è stata una leva potente per la sua inclusione nelle strutture accademiche di tutto il mondo, con varietà di affiliazioni disciplinari e non senza effetti per l’evoluzione delle stesse istituzioni universitarie.
Quali cambiamenti sta subendo la scienza dell’organizzazione?
La traiettoria compiuta dalle teorie dell’organizzazione nei decenni del Novecento ha conosciuto due importanti fratture: prima, l’emergere del fenomeno della soggettività, il riconoscimento del fatto che le persone siano così direttamente implicate nelle organizzazioni, fino a rendere le stesse un fenomeno strettamente intrecciato con la vita di individui, gruppi e società, un “mondo vitale”. Successivamente, lo sfaldarsi dei confini dell’organizzazione di fronte alle tensioni indotte dalle dinamiche degli ambienti esterni e dei mercati, un aspetto che l’evoluzione delle tecnologie dell’informazione e quella delle forme contrattuali rende ancora più critico per il futuro.
Nella prospettiva del XXI secolo queste due fratture sono ormai consolidate; la teoria e la prassi devono confrontarsi in campo aperto con una complessità pluridimensionale, superando una visione prevalentemente tecnica e oggettiva (reificata) dell’organizzazione, con la considerazione della dimensione sociale e soggettiva e con la proiezione dello sguardo oltre i confini organizzativi formali.
Gli studi attuali sono plurali e frammentati, si sono sviluppati per linee indipendenti e non hanno condiviso un approccio o un metodo comune; le nuove evidenze sono così affrontate sulla base di nuclei concettuali differenti e contrastanti, come è il caso ad esempio della contrapposizione tra la concezione processuale/emergente (l’organizzare) e quella progettuale/pianificata (l’organizzazione).
Il primo approccio (processuale) ci ricorda che l’organizzazione non è una “cosa” e aiuta a comprendere in profondità quanto sia influenzata delle spinte soggettive e dalle dinamiche relazionali; il secondo (progettuale) richiama all’azione manageriale e risponde meglio all’ineludibile esigenza degli attori di intervenire e decidere in materia di assetti organizzativi. La dialettica tra questi due approcci è conflittuale, irrisolvibile nell’ambito di una teoria unificata; tuttavia gli attori della vita organizzativa, a tutti i livelli, possono trarre giovamento dal porsi nell’una e nell’altra prospettiva quando riflettono, affrontano problemi, prendono decisioni di rilievo organizzativo.
Quali sono i criteri metodologici di riferimento per il design dell’organizzazione?
Le organizzazioni non sono il frutto soltanto di un progetto razionale, definito applicando regole tecniche e fissato in un determinato momento, ma costituiscono il “prodotto vivente” di incessanti processi di interazione che coinvolgono molteplici soggetti e sono influenzati da fattori di contesto, di ordine storico, sociale, culturale, tecnologico e altro ancora.
Il design organizzativo di dettaglio è così chiamato a compensare lo schematismo delle più ampie architetture strutturali facendo propria una visione progettuale integrata e di ampio respiro, che tiene conto della logica organizzativa generale ma rivolge l’attenzione alle microsfere dei ruoli e dei compiti, individuali, di gruppo, di unità organizzativa e alla possibilità di orientare il funzionamento delle routine organizzative attraverso una gamma estesa di strumenti progettuali.
Se gli organigrammi rendono la complessità dell’organizzazione a due dimensioni, in bianco e nero, in modo freddo e asettico o in base a forme di conoscenza “morte”, il design di dettaglio dovrebbe invece offrire rappresentazioni tridimensionali, ricche di colore e di calore, capaci di generare una conoscenza “viva”, alimentata da linguaggi che trasmettono passione per il lavoro e i suoi risultati.
Per fare questo occorre passare per la concretezza delle routine organizzative, considerarne l’influenza sul livello di performance lavorativa, sotto i distinti profili di efficacia, adattamento e proattività, ragionare tenendo conto dello spazio e del tempo e del rilievo di una molteplicità di attori.
L’interazione dinamica tra struttura, routine e ruoli produce il funzionamento effettivo ai “piani bassi dell’organizzazione” e ne determina alla fine i risultati per vie che possono anche sfuggire alla comprensione di chi guarda le cose dall’alto, dall’ufficio di un CEO o dal tavolo di un CdA.
Il Design dell’Organizzazione richiede così un approccio pragmatico e flessibile; ragionare “a base zero”, mettendo in discussione radicalmente gli assetti preesistenti, aiuta a esplorare nel modo più ampio il novero delle possibilità; ma poi occorre soprattutto la capacità di bilanciare fabbisogni ed esigenze contrastanti, di ricercare ed individuare i necessari trade off, ad esempio tra stabilità e flessibilità, tra efficienza e qualità, tra diversi attrattori di attenzione come i prodotti, i processi produttivi, i clienti e i mercati.
I progettisti devono accettare e riconoscere pragmaticamente la separazione di ambiti tra i due livelli del Design organizzativo che si sono considerati; una geometria è necessaria e occorre definirne il disegno, costruire un’architettura generale, necessariamente schematica; con questo si è ancora lontani dal compiere l’opera; essa risulta da interventi e azioni molteplici, che entrano nel vissuto delle persone, si succedono nel tempo e coinvolgono un numero molto maggiore di attori.
Quali fattori influenzano le performances organizzative?
Il termine inglese Performance evoca non solo il risultato di un’azione, o la validità di una prestazione, ma anche la rappresentazione che ne viene fatta, con il suo impatto visivo, comunicativo e spettacolare, come quella che un attore teatrale compie sul palcoscenico o un team sportivo sul campo di gioco. La performance gioca la sua efficacia nell’interazione in tempo reale tra attore, contesto e audience e deve poi anche confrontarsi con gli strumenti di valutazione e misurazione.
Ogni lavoratore può contribuire a diversi livelli, attraverso il suo compito specifico ma anche sostenendo un contesto di collaborazione; così, il suo operato normalmente si inserisce in un insieme integrato e finalizzato di attività lavorative, che intrecciandosi nell’ambito di un gruppo o di un’unità organizzativa possono identificare un processo o una routine che si ripete nel tempo.
Se si sposta l’attenzione dal livello della performance individuale a quello del gruppo, dell’unità organizzativa, o dell’intera organizzazione, i risultati sono espressione della collaborazione tra un insieme di ruoli impegnati nell’attivare e fare funzionare una serie di routine.
I dispositivi formali, come sono le regole scritte, le procedure, i protocolli, i manuali operativi costituiscono solo una parte del contesto in cui si inseriscono le routine organizzative che possono sotto incertezza e stress rivelare un carattere generativo, alimentato dalle dinamiche di gruppo, dai processi di assunzione di ruolo e dalla capacità interpretativa dei soggetti.
Il Design di processi e ruoli influisce sulle routine ponendo quindi riferimenti non solo prescrittivi, ma anche materiali (assetti fisici dei luoghi di lavoro, dotazioni tecnologiche) e cognitivi (sistemi informativi, formazione) che nel loro insieme costituiscono il Work Setting; è in questo contesto di ambiente lavorativo, semplice o complesso, fisico o virtuale, comprensivo degli aspetti tecnici e sociali, che si realizza la performance di un insieme integrato di attività di lavoro.
La progettualità organizzativa è così chiamata a definire la cornice del Work Setting con i riferimenti prescrittivi, materiali e cognitivi che orientano comportamenti di ruolo e routine organizzative. Ma si deve considerare anche la forza della soggettività individuale, che si esprime anche ai “piani bassi” dell’organizzazione e può risultare alla fine decisiva per la qualità della performance.
Quali sfide si pongono al design dei processi lavorativi nel XXI secolo?
Sono tante, ma qui possiamo considerarne due. La prima consiste nell’utilizzo istituzionalizzato, diffuso e partecipato dei Social Media nell’ambito delle routine che innervano il funzionamento delle organizzazioni: è una questione che può essere forse presa a simbolo della prospettiva evolutiva della teoria e della pratica organizzativa delineata nel libro.
L’apertura alla valenza esplosiva della soggettività e lo sfumarsi delle linee di confine tra organizzazione e ambiente caratterizzano infatti questa tematica al massimo grado. Allo stato attuale non è dato ancora di comprendere pienamente quanto sta confusamente emergendo nel tentativo di valorizzare il potenziale e di contenere i rischi di questi fenomeni; si può forse intuire che non vi sarà una soluzione univoca e che il pluralismo delle opzioni sarà destinato a prevalere anche in questo campo.
Una seconda sfida riguarda lo sviluppo di un contesto organizzativo a sostegno del ciclo della vita lavorativa e alla promozione di rapporti costruttivi tra le diverse generazioni; si tratta di un problema la cui rilevanza è in continua crescita, dato che la popolazione mondiale sta invecchiando ad un tasso senza precedenti nella storia dell’umanità.
Il concetto di Age Management nasce dalla consapevolezza che i risultati del protratto impiego lavorativo delle persone che hanno superato la soglia dei 55-60 anni non rappresentano qualcosa di predefinito e di non modificabile, ma possono essere notevolmente migliorati da un’attenta progettazione e gestione del Work Setting, che interiorizzi il problema focalizzandosi sull’intera vita di lavoro e su tutte le fasce di età, anziché sui soli lavoratori più anziani.
Gianfranco Rebora è Professore Emerito di Organizzazione e Gestione delle Risorse Umane dell’Università LIUC – Cattaneo di Castellanza, della quale è stato anche Rettore dal 2001 al 2007