
Significa soprattutto far tesoro di una lunga tradizione (ancora ben viva) di corsi e ricorsi linguistici in cui l’espressività è andata a braccetto con il libero sfogo di caratteri, comportamenti e atteggiamenti “originali”. Fra i territori privilegiati per l’affioramento dell’italica pancia ci sono senz’altro la politica e l’immarcescibile provincialismo nostrano, che non manca ripetutamente di ricordarci, soprattutto attraverso certo cinema – ieri l’ha fatto col teatro –, quante ce ne siamo date. Pensiamo ai tanti fomentatori di appellativi come terrone e polentone, o al disprezzo degli inurbati per bifolchi, villani o cafoni (in partenza termini neutri).
Quanto è diffusa la volgarità nel nostro Paese?
Molto. Tempo fa ai microfoni di Radio Uno (La radio ne parla), durante una mezz’ora dedicata al turpiloquio, un genitore ha raccontato dell’insegnante di matematica di sua figlia, studentessa al secondo anno di un liceo classico palermitano, abituato a rivolgersi ai suoi alunni con frasi come «Ma che cazzo dici?» o »Come fai a dire una cazzata del genere?». Vito Tartamella, autore di un saggio più volte ristampato, si è divertito a contare i titoli dei libri pubblicati in Italia fra il 2000 e il 2009 contenenti parolacce. Sarebbero appena 231 su 560.000 all’incirca, ma rispetto agli anni Sessanta, secondo i calcoli di Tartamella, i volumi dai titoli volgari sono aumentati di 13 volte negli anni Novanta e di 29 volte nei primi dieci del Terzo Millennio. E fa un certo effetto, ultimamente, vedere libri del genere in vetrina o in bella mostra nelle librerie. Fra i motivi della volgarità imperante: l’escalation di una violenza gratuita e inconsapevole anche quando non appare tale; la reazione al politicamente corretto e al suo perbenismo radical-chic, spesso scambiata per un sospirato ritorno alla libertà d’eloquio (il politically correct, con la sua continua rincorsa all’ingentilimento espressivo, di eufemismo in eufemismo, innescherebbe la reazione contraria di chi non ne può più di museruole o bavagli); la televisione “urlata” di talk show e reality show o certa “commedia all’italiana”, specie estiva o natalizia, con le sue mitragliate di oscenità; gli effetti del dilagare di una sopraffazione verbale autorizzata dalla communis opinio, sempre più disposta a riconoscere a parole e locuzioni triviali, con la complicità di molte sentenze (che, con la scusa di una loro generalizzata diffusione, hanno di fatto depenalizzato tante offese indirizzate al nostro prossimo), la funzione di innocui intercalari o di moltiplicatori di espressività.
Quale valore linguistico possiede la volgarità? Anche autori come Dante, Leonardo da Vinci e Carlo Emilio Gadda sono ricorsi all’eloquenza della volgarità.
Da uno studio del 2015 è emerso un dato interessante: chi fa uso di un linguaggio privo di tabù, nell’attingere a un più ampio serbatoio di varietà verbali, disporrebbe di un bagaglio espressivo superiore a quello di chi si tiene invece alla larga dalle oscenità. Nella ricerca, coordinata da due psicologi americani (Kristin Jay e Timothy Jay), si è chiesto a 49 giovani, di età compresa fra i 18 e i 22 anni, di elencare, in un minuto per ciascuna delle due serie, le brutte parole e i nomi degli animali che gli fossero venuti in mente. Ebbene, questo l’esito del sondaggio, quelli che avevano menzionato il maggior numero di male parole erano gli stessi cui era subito dopo riuscito di snocciolare il numero più consistente di nomi di animali. A questa considerazione di carattere generale, che potrebbe anche lasciare il tempo che trova, ne aggiungerei una specifica.
Pietro Bembo è notoriamente l’autore di una grammatica antichizzante (Prose della volgar lingua, 1525) che ha cambiato la storia linguistica italiana, perché si è imposta su un’agguerrita concorrenza. Nell’opera il Bembo, che guardava ai due grandi modelli trecenteschi rappresentati da Petrarca (per la poesia) e Boccaccio (per la prosa), levò i suoi scudi contro le “impurità” dantesche: pretendeva una Commedia purgata delle parole «rozze» e «disonorate», che avrebbe visto volentieri sostituite da parole più «vaghe» e più «onorate». Il suo obiettivo polemico, ben oltre Dante, era il Medioevo brutto, sporco e cattivo già bersaglio dei pregiudizi umanistici, con il suo disordine e i suoi eccessi, le sue ridondanze sciatte o incontrollate, i suoi miscugli e accorpamenti stilistici, i suoi idiotismi e ipertrofismi inconditi o irriflessi. Se il politicamente corretto è intervenuto a rompere, nella storia dell’italiano, la continuità delle sue “male parole” risalente al Medioevo, questa continuità è stata in parte già incrinata proprio dal cinquecentismo ultraletterario e ultraretorico, decorativo e schizzinoso, di un Bembo (e di altri come lui: da Giovanni della Casa a Baldassare Castiglione). Lo stile della sua grammatica, spocchioso e pomposo tanto quanto irreale e distante anni luce dalla lingua media corrente, scritta e parlata, del tempo in cui l’autore visse, ha nociuto a un’espressività congenita che si era nutrita anche di un’“eloquenza della volgarità” su cui il “puritanesimo” linguistico bembiano ha pesato come un macigno. La volgarità non è negli oggetti, ma nelle intenzioni. Confondere le due cose, e il bembismo non ha certo aiutato a tenerle distinte, è come confondere l’eros con la pornografia. La volgarità è pornografica, l’uso di un certo linguaggio, turpe o osceno, da parte di Dante o Leonardo non lo è. Della volgarità faremmo volentieri a meno, dell’“erotismo” linguistico abbiamo invece un sempre più disperato bisogno perché il politicamente corretto, con i suoi insostenibili eccessi, vorrebbe spazzarlo via. Come vorrebbe liberarsi dell’erotismo tout court.
Il 26 novembre scorso, su invito del Comitato locale della Società Dante Alighieri, ho tenuto a Grosseto una conferenza sulla presenza della Commedia dantesca nella storia dell’arte. Per la pubblicizzazione dell’evento mi era stata richiesta una locandina, e io avevo mandato un bellissimo quadro di Ary Scheffer (Paolo e Francesca, 1835) che raffigura nudi i due sfortunati amanti del V canto dell’Inferno, coi loro corpi indissolubilmente legati l’uno all’altro. La mia immagine non era piaciuta, pensai, quando vidi che era stata sostituita con un dipinto ben noto, ma francamente scialbo, di Domenico di Michelino (Dante e il suo poema, 1465). Invece era andata così: Facebook aveva censurato il quadro scelto da me per via della presenza delle nudità. Un episodio simile, nell’autunno del 2017, aveva visto coinvolto il celebre Bacio (1886) fra i due amanti danteschi scolpito da Auguste Rodin. La scultura, rifiutata anch’essa da Facebook, doveva essere parte integrante della promozione di una mostra sull’artista francese che sarebbe stata inaugurata a Treviso il 24 febbraio 2018. Sempre la città di Treviso, nello stesso autunno del 2017, era incappata in un’altra disavventura. Stavolta la vittima del social di Zuckerberg era stata la celebre Fontana delle Tette, censurata dall’algoritmo di Facebook (il proprietario ha promesso che ci avrebbe messo mano –, la notizia è dei primi di ottobre del 2018 –, ma stiamo evidentemente messi ancora male) per via dei seni scoperti della figura femminile scolpita; l’aveva voluta fotografare il proprietario di una galleria antiquaria nei pressi della statua. Nel 2016 era toccato alla Sirenetta di Copenhagen per i suoi seni (risultò, per giunta, anche troppo sexy), e a un professore francese che si era visto chiudere l’account Facebook perché aveva postato una foto dell’Origine du Monde (1866) di Gustave Courbet, con la sua celebre vagina in primo piano. Fra le tantissime altre illustri vittime della Santa Inquisizione del Tribunale virtuale di Facebook il David di Michelangelo, il Ratto di Proserpina del Bernini e l’Apollo del Belvedere.
Come si esprime oggi la volgarità nel nostro Paese?
Innanzitutto attraverso i social. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, con sentenza del 14 marzo 2103, ha dato ragione a un attivista francese che nel 2008, volendo restituire il favore a Nicholas Sarkozy (si era espresso più o meno così all’indirizzo di un agricoltore che s’era rifiutato di stringergli la mano), aveva esibito, al passaggio del corteo presidenziale nella città di Laval, un cartello con su scritto «Casse toi, pov’con!» (“Fottiti, povero coglione!”). Proprio grazie alla sentenza europea, e a dispetto del reato di vilipendio al Capo dello Stato previsto dai nostri ordinamenti giuridici (Codice penale, art. 278), un avvocato italiano, Alessandro Micucci, è riuscito a far assolvere dal Tribunale di Rovigo (sent. n. 157/14, 3 giugno 2014) una sua assistita, imputata per un epiteto ingiurioso indirizzato all’allora presidente Giorgio Napolitano. La donna, che al momento di commettere il fatto (2012) era disoccupata, aveva sfogato la sua rabbia contro il Presidente della Repubblica su Facebook senza avere realmente intenzione di offenderlo: l’epiteto, secondo il giudice (Pietro Mondaini), era da ritenersi un intercalare. Sempre su Facebook sono approdate decine e decine di comunità, organizzazioni, notiziari con nomi del genere: «Minchioni & minchiate varie»; «Ma che cazzo vuoi utente medio di italian core di merda»; «Fregni e fregne»; «Pompini in stazione»; «Adesso fuori dai coglioni».
Quali peculiarità presenta la volgarità nostrana?
Foraggiata dall’impareggiabile municipalismo (di cui ho già detto) delle tante piccole patrie del Bel Paese, l’una contro l’altra armata, la volgarità nostrana vanta in aggiunta una pervasività in campo politico che ha pochi eguali in Europa; responsabile la politica stessa, soprattutto quella dell’ultimo venticinquennio, con l’insindacabile diritto di potersi esprimere liberamente – per criticare, denunciare, difendere con forza una posizione o un’idea – tante volte ribadito nell’aula parlamentare per i suoi rappresentanti. E non si sono certo fatti pregare, i politici della Seconda Repubblica, quanto ad affondi irriguardosi o offensivi. Si pensi alla storia della Lega, in particolare agli insulti portati da Umberto Bossi, negli anni Novanta, a vari esponenti politici: da Andreotti («l’unico gobbo che porta sfortuna») a Dalla Chiesa («Nando dalla Cosa nostra»), da De Mita («brutto anche di notte») a Fini («cagnolino al guinzaglio dei boiardi»). E poi gli epiteti affibbiati a Berlusconi («Berluscaz» e «Berluskaiser») e a Craxi («crapon»), e la pletora di frasi ingiuriose indirizzate, anche in seguito, ad altri avversari. Eccola, la politica di pancia.