
Quale lacuna nell’edizione critica del materiale esegetico antico sull’Odissea va a colmare l’opera da Lei curata?
Sarò un po’ tecnico: un’edizione critica si qualifica sostanzialmente per la completezza (o almeno l’ampiezza) della base documentaria, e per la cura con cui – sulla base delle fonti manoscritte e dello iudicium dell’editore – viene costituito e presentato il testo. Ora, l’ultima edizione degli scoli all’Odissea, in due volumi, uscì a Oxford nel 1855, ad opera di un filologo tedesco di grande valore, senz’altro uno dei migliori conoscitori del greco dell’epoca sua, Wilhelm Dindorf. Essa si presenta oggi però carente sotto ambedue gli aspetti sopra menzionati, in quanto denota:
– una conoscenza del tutto insufficiente e spesso “di seconda mano” dei manoscritti del poema (le lezioni di molti codici Dindorf le mutuò senza verifica da edizioni parziali o appunti di suoi predecessori, e relativamente pochi furono i testimoni che egli collazionò direttamente: preclaro il caso dei codici della Biblioteca Ambrosiana, per i quali Dindorf dipende dalla problematica, e in molti casi purtroppo fuorviante, edizione di Angelo Mai);
– l’ignoranza assoluta di molti testimoni di rilievo, che all’epoca semplicemente erano poco noti o mal noti, e che Dindorf rinunciò a cercare o a collazionare;
– una certa fretta (l’edizione fu conclusa in soli 3 anni), che lo portò ad accumulare un gran numero di sviste e pasticci sia nell’attribuzione dei singoli scoli a un dato manoscritto sia nella precisa descrizione dello stato testuale degli scoli nei vari testimoni sia anche nella presentazione del testo, troppo spesso insostenibile anche solo sul piano sintattico o lessicale.
Ciò detto, nessun crucifige contro Dindorf: lavorare oggi, con i cataloghi delle biblioteche a disposizione, molti manoscritti digitalizzati sul web, il Thesaurus Linguae Graecae interrogabile con un clic, è un privilegio che lui non poteva nemmeno immaginare. Per di più, grazie ai progressi della scienza paleografica è oggi possibile leggere e datare i codici con maggiore precisione, e spesso ricondurli a un’area geografica di provenienza, o addirittura all’uno o all’altro copista: una mole di informazioni preziosissime per dare alle singole spiegazioni una profondità e una dimensione storica che all’epoca di Dindorf erano semplicemente impensabili.
Soprattutto, l’idea stessa di edizione di scoli è cambiata nel XX secolo, e in ultima analisi ciò che provo a fare io è, molto modestamente, seguire l’esempio di una delle edizioni critiche più importanti mai realizzate, quella degli scoli all’Iliade curata da Hartmut Erbse nella seconda metà del secolo scorso: la mia ambizione è quella di imitarne i metodi e il rigore ma al contempo di espanderne l’oggetto, senza escludere praticamente nulla di ciò che ci è noto dell’esegesi odissiaca throughout the centuries. Non solo, dunque, gli scholia vetera, cioè l’esegesi più o meno direttamente riconducibile all’età ellenistica o imperiale (che rappresenta di fatto il principale interesse di Erbse), ma anche l’esegesi dichiaratamente o ipoteticamente assegnabile all’età bizantina, e anche l’esegesi “spicciola” delle glosse e delle quaestiones che lui lascia dichiaratamente da parte. Naturalmente questa mia scelta inclusiva implica non solo la proliferazione pressoché incontrollata del materiale, ma anche la necessità – ove possibile – di distinguere e sceverare l’antico dal recente, un compito che in genere – fatti salvi i casi fortunati – è tutt’altro che agevole e spesso può essere perseguito con il solo ausilio dei criteri “interni”, cioè valutando il dettato dei singoli scoli in sé e per sé senza poter ricorrere a elementi che a priori garantiscano che un certo scolio sia ellenistico, imperiale, altobizantino o umanistico.
Inoltre, io ho scelto di unire in un’unica edizione “sinottica”, verso per verso, anche l’esegesi attestata sui molti papiri che ci sono stati restituiti dalle sabbie dell’Egitto: ciò vuol dire che nella mia edizione si affiancano testimoni separati tra loro talora da molti secoli, e questo può creare un sentimento di vertigine e disorientamento nel lettore – di qui la necessità di un ausilio critico come l’apparato delle fonti e dei testimoni, uno strumento di faticosissima redazione, ma essenziale in quanto aiuta a collocare ogni glossa, ogni spiegazione, all’interno della rete dell’erudizione greca (scoliastica, lessicografica, grammaticale, filosofica), e più in generale all’interno della vasta rete del patrimonio letterario e paraletterario greco. Non sempre si riesce a situare e sistemare tutto in modo convincente o definitivo, ma almeno ci si prova, fornendo al lettore gli elementi utili per farsi un’idea e continuare l’indagine da sé.
In che modo l’opera contribuisce a migliorare la nostra conoscenza del modo in cui i versi dell’Odissea sono stati letti e intesi dall’antichità fino all’epoca bizantina?
Senza questo immenso patrimonio di esegesi, stratificato nel corso dei secoli, potrebbe risultare sorprendente che secondo alcuni filosofi neoplatonici il vecchio del mare Proteo (nel IV canto) sia considerato come simbolo della materia, o che secondo altri autori il dio Hermes venga interpretato come una lettera, o gli dèi dell’Olimpo come gli astri del cielo o un consesso di umanissimi re. Senza gli scoli al canto V potrebbe risultare poco chiaro in che misura la dialettica fra Calipso, Hermes e Ulisse sia una dialettica di promesse e delusioni, di persuasione e di retorica, fondata sulla necessità di abbandonare un luogo di pace, un amore, una donna in nome di un destino di incertezza e di naufragi – ma è solo alla luce di queste letture che, per esempio, un autore come Virgilio potrà concepire la sua Didone. Senza gli scoli (e più precisamente senza una malconcia noterella preservata in due codici relativamente tardi del poema) ignoreremmo tout court che per il verso 3 del primo canto dell’Odissea (l’incipit famoso che campeggia ancor oggi sulle magliette dei ragazzi nelle loro gite in Grecia) nell’antichità circolava una lezione alternativa “nomon” in luogo di “noon” (“e di molti uomini vide le città e conobbe la mente / i costumi”) – eppure Orazio ebbe sicuramente presente quella lezione quando tradusse poeticamente quel verso “et mores hominum…”. Senza gli scoli non capiremmo perché l’identificazione di Itaca con l’Itaca odierna poneva problemi già nell’antichità, o se davvero Calipso abiti a Gozo e Circe “là presso a Gaeta” oppure se invece entrambe non vadano collocate in un posto imprecisato dell’Oceano. Senza il background degli scoli potrebbe risultare difficile comprendere in base a quali passi specifici di Omero l’ethos dei Feaci sia stato visto come la radice della filosofia di Epicuro, o l’usanza dei re di fare tutto da sé (si pensi a Nausicaa che, da principessa, va a lavare il bucato assieme alle ancelle) sia stata nei secoli fonte di ammirazione o di censura – e questo dall’età dei regni ellenistici fino a tutto l’Ancien Régime, quando Omero era accusato in Francia di rappresentare un’idea di regalità “degli antichi” assolutamente incomparabile a quella assai più ricca ed evoluta “dei moderni”. Senza un singolo scolio al canto II dell’Odissea, relativo a una complicata figura retorica, non avremmo la citazione della prima parola degli Aitia di Callimaco, perduta in una lacuna nel papiro che ci conserva il prologo di quel poema. Senza gli scoli non capiremmo bene perché gli amori di Ares e Afrodite vadano espunti per oscenità, o perché, secondo una leggenda che forse attinge alle tante storie non-omeriche o pre-omeriche sul mito della guerra di Troia, Agamennone si sia rallegrato quando Ulisse e Achille ebbero un alterco (sarebbe stato quello, secondo una controversa profezia delfica, il segnale che la fine della guerra era vicina).
Ho scelto sin qui soltanto esempi dai canti finora editi, e posso garantire che per gli Apologhi di Ulisse (canti 9-12) aspettano sorprese ancor più succulente. Omero gode di uno statuto che non ha nessun’altra opera antica, ovvero quello di livre de culture – su questa base, e guardando proprio all’importanza e alla molteplice natura dell’esegesi (allegorica, retorica, grammaticale, morale, linguistica, storica, geografica), è stato impostato negli ultimi decenni (ma in realtà già nel Settecento, quando la Repubblica delle Lettere conosceva più lingue di quanto accada oggi) un ragionevole confronto con l’Antico Testamento e con il Corano. La differenza fondamentale (a tutto vantaggio di Omero, se posso dirlo) è che non si tratta di un testo sacro, che dunque la discussione sulla costituzione e l’interpretazione del suo testo è per lo più scevra di implicazioni e ipoteche teologiche, e che i poemi possono così funzionare come un inesauribile serbatoio di idee, di esperienze, di narrazioni “primordiali” per tutta la civilisation occidentale successiva.
Come si è articolata la storia dell’esegesi odissiaca?
Come accennavo, interpretazioni allegoriche sono attestate già in età molto antica; ma Aristofane nel V secolo a.C. ci parla in una commedia degli scolari ateniesi che dovevano imparare a mente il significato delle “glosse” di Omero, ovvero le parole difficili di Iliade e Odissea che già all’epoca loro risultavano incomprensibili o desuete. Ciò che più colpisce nella storia dell’esegesi omerica è la persistenza secolare di alcune pratiche: l’uso di glossari continua praticamente identico dall’Atene di Aristofane all’Egitto ellenistico e imperiale (che ci ha lasciato molti frammenti papiracei di glossari relativi a uno o più canti) fino all’età medievale e umanistica, quando interi codici venivano vergati su due colonne (la stessa identica mise en page dei glossari su papiro) recanti a sinistra il termine omerico e a destra la sua “traduzione” in un greco più “comune”. Vale più o meno lo stesso per l’allegoria (anzitutto quella fisica, che identifica i personaggi con elementi del mondo naturale, e quella morale, che li legge invece come entità o principi morali), che persiste in varie forme e con vari obiettivi dall’età antica a quella bizantina, percorrendo binari tortuosi e spesso legati all’imporsi di mentalità nuove, come la filosofia stoica o la religione cristiana: le forme cambiano, naturalmente, ma la tentazione di far dire ai poemi qualcosa di diverso rispetto alla lettera del testo permane incoercibile in generazioni e generazioni di lettori. E ancora lo stesso mutatis mutandis si può dire per la vecchia abitudine di interpretare il poema secondo il metodo di domanda e risposta (“Aristotele chiede come mai Polifemo sia un Ciclope non essendo figlio di Ciclopi; ma lo stesso vale per il cavallo Pegaso, anche lui figlio di Posidone; e poi non è vero che, come dice Esiodo, i Ciclopi avessero un occhio solo…”): questo approccio “zetematico”, che prevede diverse tipologie di soluzioni (in base al contesto, al parlante, all’analogia, al significato del termine…) nasce forse proprio con Aristotele, ma trionfa in età imperiale (l’opera del filosofo Porfirio di Tiro, Questioni omeriche, ci è giunta frammentaria ma ne conosciamo tutto il primo libro e molte sezioni degli altri) e seduce ancora parecchio in età bizantina. Esiste in altre parole una gran quantità di metodi interpretativi che dimostrano un’incredibile vitalità nel corso dei secoli, e che possono essere praticati sia a livello “alto” (cioè sotto la direzione o la penna di grandi personalità della cultura o degli studi) sia a livello spicciolo, quasi quotidiano: questo accade perché Omero rimane sempre – anche nel pieno dell’età cristiana – il libro principale dell’istruzione dei giovani.
D’altra parte, però, un momento di cesura, o meglio di forte innovazione, nella storia ci fu: mi riferisco all’epoca della Biblioteca e del Museo di Alessandria (III-II secolo a.C.), perché fu in quel momento che si affermarono per la prima volta dei metodi assolutamente nuovi.
Quale rilevanza assunse il poema omerico per lo sviluppo della grammatica e della filologia antiche?
Noi siamo abituati a dare per scontate discipline che ci accompagnano sin dalla nascita: pensiamo così che la “grammatica”, intesa come descrizione sistematica dei meccanismi di una lingua, sia un fatto quasi naturale; e pensiamo che sia intuitiva la consapevolezza che ogni atto di copia non meccanica induca una serie di errori nella trasmissione di un testo, errori da cui bisogna liberare la lezione originaria di quello stesso testo. Ebbene, entrambe queste realtà sono frutto di una conquista intellettuale che non è affatto scontata (moltissimi popoli hanno vissuto per secoli, o vivono ancora oggi, senza servirsi di una grammatica per descrivere il proprio idioma, o senza sentire l’esigenza di ricostruire un testo o un’opera d’arte offesi dal tempo nella loro forma “originale”), ma che nel mondo greco antico fu possibile in condizioni speciali e quasi irripetibili, e vide come campo di azione e terreno di confronto proprio il testo dei poemi omerici. Ad Alessandria, infatti, l’afflusso di plurime copie di Iliade e Odissea, spesso appositamente cercate in giro per il Mediterraneo, consentì agli studiosi di saggiare le ragguardevoli discrepanze nella lezione del testo omerico come circolava a Efeso, a Marsiglia o a Siracusa, e di sviluppare così per la prima volta dei metodi atti a ristabilire quella che essi ritenevano la “lezione genuina” – un ideale che da oltre due secoli a questa parte gli omeristi moderni tendono a guardare con sospetto, ma che per gli antichi, largamente convinti dell’esistenza storica di un singolo poeta di nome Omero, manteneva il suo significato più pieno. È dunque proprio nell’intento di ricostruire il dettato originale dei due poemi di Omero che nasce quella che noi chiamiamo la filologia, un atteggiamento intellettuale che poi si è esteso nei secoli a tanti altri autori e a tanti altri àmbiti della creazione artistica e non solo.
D’altra parte, proprio la necessità di stabilire la correttezza delle forme del testo omerico imponeva di ricorrere a categorie generali che consentissero di ricostruire una morfologia “standard” della lingua greca: fu proprio questa esigenza a spingere, nel II secolo a.C., verso la nascita di una descrizione linguistica che possiamo chiamare a tutti gli effetti “grammatica”, e che si giovò in modo decisivo delle categorie filosofiche che venivano contestualmente elaborate nell’àmbito della filosofia stoica (“soggetto”, “oggetto”, “azione” et sim. sono infatti appunto categorie di stampo filosofico, atte a descrivere vari elementi dell’espressione linguistica, di qualunque lingua beninteso). Questo ruolo di detonatore che Omero giocò nella nascita dell’arte grammatica ebbe la singolare conseguenza che esempi omerici continuarono a essere correntemente impiegati nei manuali di grammatica e di sintassi fino all’età imperiale e bizantina, cioè anche in epoche in cui il greco omerico – di per sé un idioma artificiale e quasi certamente mai parlato come tale – era ormai assolutamente desueto: tanto poté la forza di una tradizione che affondava le radici nell’identità più profonda del popolo greco, e che è rimasta sostanzialmente indiscussa fino ai nostri giorni.
Filippomaria Pontani è professore ordinario di Filologia Classica presso l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia. Ha pubblicato gli Epigrammi greci di Angelo Poliziano (Roma 2002), le Questioni omeriche di Eraclito (Pisa 2005), il volume Sguardi su Ulisse (Roma 2005). Ha edito le Questioni naturali di Plutarco (Paris 2018) e gli Scritti omerici di C. Kondoleon (Leuven 2018). Oltre a numerosi articoli scientifici, ha tradotto prose e poesie dal neogreco (Poeti greci del Novecento, Milano 2010; N. Kazantzakis, Ascetica, Milano 2017).