“Savonarola” di Marco Pellegrini

Prof. Marco Pellegrini, Lei è autore di una biografia di Savonarola da poco pubblicata dall’editore Salerno. A distanza di oltre mezzo millennio dalla sua morte e con un processo di beatificazione avviato qualche anno fa, qual è la verità storica su Girolamo Savonarola?
Savonarola, Marco PellegriniSappiamo bene che non è possibile pretendere di stabilire una volta per tutte “la” verità storica, e men che mai quando le divergenze interpretative sono così acute come a proposito del “caso Savonarola”. Tuttavia possiamo dire di sapere davvero molte cose su questo personaggio. Grazie a una fortunata vicenda di conservazione documentaria, abbiamo a disposizione una vasta raccolta di fonti che ci consente di ricostruire con un buon grado di precisione quasi tutte le fasi della vita del Frate ferrarese. Pertanto, nel delinearne il profilo, il problema non sta nella scarsità dei dati a disposizione, che al contrario sono abbondanti. Piuttosto sta nell’incidenza di alcuni fattori di pre-comprensione, che se vengono seguiti acriticamente tenderebbero a dare di Savonarola un’immagine alquanto unilaterale o distorta.

Si spieghi meglio.
Da sempre Savonarola si è prestato a mitizzazioni che hanno fatto di lui l’emblema di una certa causa, destinata a imporsi come materia di interesse assoluto agli occhi dei posteri. Per circa un secolo dopo la sua morte, la sua memoria ha diviso le coscienze tra contestatori e difensori dell’autorità morale della Chiesa di Roma. Dall’Ottocento in poi, egli è stato di volta in volta esaltato ora come un precursore della Riforma protestante, ora come il fustigatore di una Chiesa sorda e corrotta, ora come il martire della causa democratica in una Firenze irrimediabilmente votata a cadere sotto la tirannia dei Medici. Naturalmente, non sono mancate le prospettive di segno opposto, che hanno enfatizzato i lati inquietanti di un personaggio raffigurato come un falso profeta: un mestatore e seduttore di popoli, abile a spacciare le proprie imposture per divine rivelazioni e pervaso da oscurantismo nella sua lotta contro l’arte e la cultura del cosiddetto “Rinascimento pagano”. È chiaro che una molteplicità di aspetti, quelli oscuri come quelli luminosi, sono compresenti nella figura caleidoscopica di un personaggio d’eccezione, quale indubbiamente fu Savonarola. Di lui sarebbe impossibile – oltre che ingiusto – fornire un ritratto tutto in luce o tutto in ombra. La sfida per uno storico di valore sta nel non appiattire il quadro su di una sola dimensione, e nell’evitare anacronismi e forzature che farebbero di lui l’anticipatore di svolte come la Riforma protestante o addirittura – come pure è stato affermato – la Riforma cattolica, che in realtà ebbero presupposti molto distanti dal suo operato.

Alla luce di tutte queste considerazioni, risalta comunque l’importanza storica di un personaggio come Savonarola, a prescindere da quale giudizio si abbia di lui. Possiamo dunque affermare che il Frate si è guadagnato a buon diritto tutta la fama che lo circonda? Può essere davvero considerato il simbolo di un’epoca?
Decisamente sì. Savonarola ebbe un’altissima coscienza della propria vocazione di profeta, ossia di interprete degli avvenimenti storici in corso. Da buon allievo e imitatore dei grandi profeti biblici – non solo quelli maggiori come Isaia e Geremia, ma anche i minori come Aggeo, nel quale amò identificarsi al suo esordio come riformatore politico – riteneva che Dio si servisse di uno strumento indegno, quale egli riconosceva di essere personalmente, per far pervenire al popolo un duplice monito. Da una parte la profezia di sventura: se vi ostinerete nel peccato, perirete nella sciagura che sta per arrivare. Dall’altra la profezia di benedizione: se vi convertirete, la sciagura passerà senza farvi male e vi troverete ricolmi di benefici e guadagni. Pervaso da un sentimento di urgenza, Savonarola calò questo modello biblico nell’incandescente congiuntura che fra 1492 e 1494 vide la morte prematura di Lorenzo il Magnifico, la disgraziata successione di suo figlio Piero a capo del regime e la calata in Italia di Carlo VIII re di Francia. Un evento, quest’ultimo, assolutamente inopinato, che stravolse ogni calcolo previsionale fondato sui precedenti storici e sulle ipotesi di plausibilità. Ad esso si adattò perfettamente la metafora del Diluvio, che Savonarola applicò per dare al suo pubblico un richiamo scritturale che consentisse di accettare come provvidenziali quegli eventi sconvolgenti, senza cedere al panico. Una chiave di lettura, per l’appunto, profetica, conforme al ruolo di sentinella che la Scrittura attribuisce ai profeti come scrutatori della storia. Come scrivo nel finale del libro, il Frate volle fungere da vedetta che, dall’alto dell’albero maestro, annunciò come imminente lo scoppio della tempesta delle guerre d’Italia: le quali non furono solamente un susseguirsi di catastrofi militari, ma segnarono il tramonto di una intera fase della nostra storia etico-civile.

Ha citato Lorenzo de’ Medici, un personaggio a cui Lei ha dedicato diversi studi. In questo libro viene raccontato come, in punto di morte, il Magnifico volle Savonarola al suo capezzale per confessarsi. Che rapporto vi fu realmente tra i due personaggi?
Il rapporto che intercorse far i due fu di grande rispetto reciproco, malgrado i timori sottintesi e perfino le diffide silenziose che negli ultimi anni della vita del Magnifico non fecero che appesantirsi e che produssero uno stallo. Sappiamo per certo che Lorenzo non apprezzò affatto le tirate che Savonarola cominciò a dedicare fra 1490 e 1491 alla corruzione del sistema sociale imperante a Firenze, dove una cerchia di pochi privilegiati gestiva a proprio arbitrio una città che, sulla carta, restava una repubblica a governo popolare. Tuttavia lo stesso Lorenzo aveva voluto, solo pochi anni prima, il trasferimento di Savonarola dall’Emilia al convento fiorentino di San Marco, un’istituzione che era nata e viveva sotto il patrocinio di casa Medici. La mossa, suggerita da Giovanni Pico della Mirandola, fu dettata dall’intento di arricchire la città dei talenti intellettuali che avrebbero contribuito a fare di Firenze il faro culturale dell’Europa del tempo. In prosieguo di tempo, Lorenzo forse si pentì di essersi tirato in casa quel frate così impermeabile ai condizionamenti, il quale dal canto suo aveva sviluppato, in modo del tutto imprevedibile, una vena apocalittica nella sua predicazione. Ma occorre dire, una volta di più, che Savonarola non fu che l’antenna, estremamente sensibile e sicuramente geniale, di una crisi – una crisi morale, prima ancora che religiosa e politica – che serpeggiava nei recessi della società fiorentina in ogni strato, compresi i piani alti. L’élite fiorentina aveva molte riserve sul primato di casa Medici e sul modo in cui i membri della casata lo esercitavano.

Dal suo libro risulta che Savonarola si considerò l’avvocato e il tutore del “popolo” di Firenze. Eppure il “popolo” nel momento della prova lo abbandonò, o quanto meno non intervenne a salvarlo. Quali vicende condussero all’arresto e alla morte del Frate ferrarese?
Il modo in cui Savonarola cadde rappresenta una dimostrazione esemplare delle debolezze che affliggono un certo sistema socio-politico, quando esso si fonda sul potere carismatico di un capo che improvvisamente perde la propria credibilità e precipita, in un battibaleno, dalla posizione di dominatore a quella di capro espiatorio. Dal mio libro credo che risulti chiaro che Savonarola non fu affatto un esaltato, né tantomeno un improvvisatore. Uomo di solida dottrina e di chiare vedute, riteneva che l’unica forma di governo legittimo per Firenze fosse il “vivere civile”, come si diceva allora: ossia la forma-stato repubblicana a base egualitaria (non per tutti, però: solo per i capifamiglia maschi). Questo presupposto lo portò a scorgere nel “popolo” (usiamo il termine fra virgolette, per indicare il ceto medio degli artigiani e imprenditori, anche facoltosi) il naturale fondamento di uno stato repubblicano. Il problema fu dato dalla mescolanza di riformismo e profetismo che sorresse la sua azione e che si fece inestricabile al punto da rendere necessaria una conferma di tipo soprannaturale per un’operazione politica dai tratti rivoluzionari. A lungo andare, l’edificio costituzionale eretto da Savonarola – una repubblica dalla forte accentuazione “democratica” (anche questo termine va usato fra virgolette) – si trovò a dipendere dalla sua reputazione di profeta e di santo. Una condizione che a un certo punto si fece sostenibile solo a patto di entrare in una gara assurda, come fu la prova del fuoco che lanciarono i frati francescani, suoi rivali, ai primi di aprile del 1498. Quando Savonarola, dopo aver precipitosamente accettato la sfida, fu colto da titubanze e infine si adoperò per evitare la prova del fuoco, che difatti non ebbe luogo, scrisse da solo la propria condanna a morte. Gran parte della cittadinanza fiorentina, delusa dal mancato miracolo, lo giudicò un impostore e non mosse un dito quando i nemici diedero l’assalto al convento di San Marco e lo catturarono, consegnandolo a un tribunale misto, civile ed ecclesiastico, che lo sottopose a tortura e lo mise al rogo.

Per finire, cosa resta ancora da chiarire nella vicenda di Savonarola?
Per dovere professionale, ogni storico è tenuto a riconoscere che qualsiasi argomento di indagine è sottoponibile a un processo infinito di perfezionamento e di revisione. Tanto più questo avvertimento si rende necessario nel caso di un personaggio che, come ben sappiamo, da diversi decenni nell’opinione generale è ormai passato dall’imbarazzante – e immeritata – reputazione di ribelle della Chiesa a candidato alla beatificazione, dunque al riconoscimento di una condizione di ammirevole esemplarità che dovrebbe essere proclamata proprio da quella Sede apostolica che cinquecento anni fa lo spedì sul rogo. Anche per questo disagevole contrasto tra un pronunciamento passato e uno presente (o futuro) dell’autorità romana, il processo di canonizzazione si è provvisoriamente arenato, come viene spiegato nell’ultimo capitolo del mio volume. Pertanto se vi è un punto sul quale è opportuno fare la massima chiarezza, è anzitutto la natura della critica che Savonarola sollevò intorno alla Chiesa romana dei suoi tempi. Egli affermò che il papa, in quanto uomo, può peccare e può errare nelle sue valutazioni. Questo ridimensionamento della maestà del pontefice – il quale, va ricordato, all’epoca era oggetto di un vero e proprio culto gerarchico che lo equiparava a Cristo, di cui si proclamava vicario, nel ruolo di reggitore e signore dell’universo – fu imputato a Savonarola come un gesto eretico e scismatico, e fu il principale tra i capi d’accusa che gli valsero la sentenza capitale, oltre alle imputazioni di falsa profezia e di sedizione politica. Sembra chiaro che siamo davanti a un atto d’ingiustizia, la quale per di più si avvalse di manipolazioni per arrivare allo scopo voluto, che era l’eliminazione fisica di un personaggio indesiderato. Fra le molte sfide che offriranno materia di lavoro agli storici che verranno, questa mi pare una delle più sollecitanti.

Marco Pellegrini (Bergamo, 1963) è professore ordinario di Storia moderna e di Storia rinascimentale presso il Dipartimento di Lettere, Filosofia, Comunicazione dell’Università di Bergamo. Tra i maggiori esperti attuali di Rinascimento italiano, ha collaborato all’edizione delle Lettere di Lorenzo il Magnifico, pubblicando il volume XII (Firenze, Giunti, 2007). Ha al suo attivo numerosi articoli e libri, tra i quali: Il papato nel Rinascimento (Bologna, Il Mulino, 2010); Guerra santa contro i turchi (ivi, 2015); Le guerre d’Italia, 1494-1559 (ivi, 2018).

ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER
Non perderti le novità!
Mi iscrivo
Niente spam, promesso! Potrai comunque cancellarti in qualsiasi momento.
close-link