“Savonarola. Il profeta disarmato” di Alberto Tedoldi

Prof. Alberto Tedoldi, Lei è autore del libro Savonarola. Il profeta disarmato, edito da Pacini: a distanza di oltre mezzo millennio dalla sua morte, e con un processo di beatificazione avviato, qual è la verità storica su Girolamo Savonarola?
Savonarola. Il profeta disarmato, Alberto TedoldiLa risposta migliore viene dalle parole di Francesco Guicciardini, il grande storico contemporaneo di Fra’ Girolamo Savonarola, ferrarese per nascita, fiorentino per adozione e martirio: «Io ne sono in dubbio e non ci ho opinione resoluta in parte alcuna…; ma bene conchiuggo questo, che se lui fu buono abbiamo veduto a’ tempi nostri uno grande profeta; se fu cattivo, uno uomo grandissimo».

Niccolò Machiavelli parlò criticamente di Savonarola in molti scritti: ne Il principe lo definì «profeta disarmato», carismatico nel proclamare vigorosamente dai pulpiti i principii religiosi e politici, ai quali riuscì a conformare la Repubblica fiorentina per breve arco di tempo, dalla cacciata dei Medici alla fine del 1494 sino alla primavera del 1498, allorché finì sul patibolo in Piazza della Signoria; egli fu, tuttavia, privo della capacità e della possibilità stessa, in quel contesto storico, di imporre con la forza la protratta osservanza di precetti e costumi assai rigorosi, che molti disapprovavano e contrastavano. «Profeti armati» erano per Machiavelli coloro che erano riusciti non solo a proporre «nuovi ordini e modi», facendo ricorso a Dio per «persuadere ad altrui», ma a ricorrere alle armi per imporne il rispetto.

Formatosi sin da giovinetto nelle humanae litterae, nella filosofia e nella teologia, Savonarola giunse una prima volta nella ricca e raffinata Firenze medicea appena trentenne, ma spiacque per la sua figura minuta e persino meschina, il parlare rude e quasi sciatto, l’accento e l’inflessione di terra padana. Già allora si scagliava contro la corruzione morale dei chierici, dei nobili e dei mercanti arricchiti, contro le frivolezze e le vanità mondane. Intendeva riportare l’eloquenza dei pulpiti all’originaria pienezza profetica e simbolica della parola biblica, ancorché di sé dicesse, citando San Giovanni Battista, «non sum propheta». Dinanzi alla rovina del mondo cristiano e della curia romana, sempre più corrotta e dedita a ogni sorta di vizio terreno, Fra’ Girolamo sentì e proclamò l’imminenza delle flagellazioni divine e la certezza di una palingenesi.

La sua alta e profonda dottrina derivava dalla tradizione retorica e religiosa del suo tempo. Fra’ Girolamo preparava, scriveva e proclamava i sermoni, traendo dal testo biblico figure allegoriche, suscitando speranze, proferendo minacce, spargendo terrori. Non gli bastava denunciare la decadenza del mondo cristiano, ma intendeva ricondurlo al Vangelo: Firenze per prima, città mercantile, dissoluta, dedita all’usura, preoccupata solo degli acquisti terreni. Di lì doveva prendere le mosse la riforma morale e religiosa della Chiesa e dell’Italia intera, che presupponeva una riforma politica e sociale, di cui Savonarola consegnò la memoria al Trattato circa el reggimento e governo della città di Firenze del 1498, quando ancora non poteva immaginare che i suoi giorni terreni erano ormai prossimi a concludersi tragicamente nel rogo di Piazza della Signoria.

I predicatori non solevano occuparsi di cose politiche. Savonarola, nella sua ansia di rinnovamento, si scagliò dal pulpito contro la tirannide corruttrice dei Medici. Con la Firenze medicea Savonarola condannava anche la Roma dei papi. Di lì a breve scenderà l’esercito francese lungo l’intera penisola, la carestia affamerà le campagne, la peste si diffonderà nelle città, i comuni e le signorie italiane cadranno in mani straniere. Giungerà lo scisma luterano e nel 1527, a quasi trent’anni dal supplizio di Savonarola, Roma verrà saccheggiata e appestata dai Lanzichenecchi, soldataglia e cavalli si accamperanno in San Pietro.

La scomunica, il processo e il rogo di Savonarola recano impressi il segno del papa Alessandro VI Borgia, contro cui egli ebbe sempre a scagliarsi con crescente veemenza. Come scrisse Guicciardini, Fra’ Girolamo fu grande nello spirito e nella parola: mai disposto ai compromessi della politica, il rigore quasi teocratico dei suoi gravosi precetti non poteva durare senz’armi, per sola forza della parola e della fervida e incrollabile fede nel Vangelo di Cristo, condotta sino al martirio.

In quale contesto storico operò il frate ferrarese?
«In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangeli, Leonardo da Vinci, e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos’hanno prodotto? Gli orologi a cucù». La fulminante battuta di Orson Welles – giustapposta ex abrupto al copione del film Il terzo uomo (1949) – dà la misura della grandezza di un’epoca storica, crudele e terribile, eppure resa immortale dalle opere dell’italico ingegno. Savonarola visse in quell’epoca straordinaria, fucina di una modernità in fieri, ancòra radicata nel medioevo cristiano, ancorché la sua vicenda umana si snodi a cavallo della scoperta delle Americhe, quel 1492 che segna convenzionalmente il passaggio all’evo moderno.

Il papato veniva da secoli spaventosi: dopo la cattività avignonese e il ritorno nell’Urbe, l’unità della Chiesa era stata disgregata da papi e antipapi in competizione tra loro e non si ricompose fino all’elezione di Martino V nel concilio di Costanza del 1417, con il quale fu posta fine allo scisma d’Occidente. Molti cardinali si erano fatti persuasi, motu proprio o per simoniaco compenso, che in quella situazione storica e specialmente in Italia la Chiesa avesse bisogno di una personalità mondana, politica e diplomatica, abile e spregiudicata come quella di Alessandro VI Borgia.

Fra’ Girolamo, stando e operando nel cuore di una penisola in subbuglio, non poteva uscir vincitore da una tale contesa. Vi riuscirà, pochi lustri dopo il supplizio di Savonarola, un frate agostiniano tedesco, Martin Lutero.

Quali vicende condussero al processo e alla condanna a morte del frate ferrarese?
Nella primavera del 1497 Piero de’ Medici, figlio fatuo e imbelle di Lorenzo il Magnifico, tentò di riprendere il potere a Firenze, servendosi di alcuni cospiratori filomedicei, rimasti a far parte dell’oligarchia che governava la Repubblica fiorentina. Era quella un’epoca di divisioni e congiure che, una volta scoperte, venivano represse con spietata severità, per lo più necessaria a conservare il potere alla fazione politica vittoriosa nelle altalenanti sorti delle città italiane e delle alleanze tra signorie, papato e regni stranieri. I complici di Piero, appartenenti ad alcune tra le famiglie fiorentine più in vista, vennero giustiziati senza alcuna pietà. Come notò Machiavelli, la popolarità di Savonarola scemò grandemente per non essere intervenuto a salvarli. Il re di Francia non era più ridisceso in Italia, nonostante il Frate lo chiedesse e profetizzasse a gran voce, mentre Firenze era ormai isolata in Italia, stremata dalla pestilenza, dalle carestie e dalle ingenti perdite economiche e finanziarie subite nella guerra per riprendersi Pisa.

Tutto precipitò con la sfida ordalica lanciata dai francescani di Santa Croce, che Fra’ Domenico, assistente di Savonarola, frettolosamente e ingenuamente accettò per difendere dinanzi al popolo fiorentino la reputazione e le virtù profetiche del maestro, già scomunicato dal papa Borgia con una bolla pontificia fermamente contestata da molti. La delusione popolare per la mancata “prova del fuoco” innescò le polveri: la folla, eccitata e fomentata dagli Arrabbiati e dai Compagnacci, che si contrapponevano ai seguaci del Frate, spregiativamente denominati Piagnoni o Bigotti, assaltò il convento di San Marco il giorno seguente, quando i fedeli uscivano dalla chiesa dopo la messa della Domenica delle palme con i ramoscelli d’ulivo in mano. Frati e Piagnoni, asserragliati in convento, opposero una strenua difesa, ma ben presto capitolarono alle soverchianti forze della Signoria, ormai decisa a farla finita con il Frate e a secondare i desiderata del papa Borgia. Alcuni frati proposero a Fra’ Girolamo di farsi calare dalle mura del convento e fuggire; ma quegli si dispose a seguire i commissari e i mazzieri della Signoria e Fra’ Domenico, la cui avventatezza nell’accettare la sfida dei francescani alla prova del fuoco era stata cagione ultima di tanta rovina, disse di voler andare con lui «a queste nozze».

Quando i due frati uscirono da San Marco, nella notte tra l’8 e il 9 aprile 1498 (a sei anni esatti dalla morte di Lorenzo il Magnifico), si levò uno spaventoso clamore. Chiusi in mezzo alle guardie, legati i polsi come malfattori, furono scortati in mezzo a due ali di folla, tra bestemmie, sputi ed insulti.

S’ebbero tre processi, due secolari e uno ecclesiastico. Gli è che parlar di processi è un bel dire: “processo” era, secondo le usanze dell’epoca, il resoconto notarile delle confessioni del reo, procurate mediante inquisizioni, torture e manipolazioni d’ogni genere e sorta, dove inquirenti, verbalizzanti e giudicanti erano le stesse persone.

Ben poca cosa sono i riscontri delle imputazioni elevate al Frate, che trascorrevano dalla sfera religiosa a quella politica, con prevalenza tuttavia di quest’ultima, ascrivendosi a Fra’ Girolamo di essere a capo di un movimento politico per «la gloria del mondo et havere credito et reputatione». Quanto alle esecuzioni capitali dell’agosto del 1497, Savonarola disse di non averle potute impedire, mentre sulle lettere indirizzate al re di Francia, al re di Spagna e all’Imperatore Massimiliano sostenne che la sua richiesta di indire un concilio universale era stata dettata dal grande sdegno contro la corruzione della curia romana.

Alessandro VI Borgia inviò a Firenze una commissione pontificia guidata da un amico del figlio Cesare Borgia, il giovane vescovo spagnolo Remolino, il quale condusse le inquisizioni del processo ecclesiastico, assicurando che si sarebbe fatto un bel rogo e dicendo di aver già «la sentenza in petto». Poiché «Ecclesia non sitit sanguinem», i tre frati domenicani, privati del sacerdozio, vennero consegnati al braccio secolare, affinché dai «nefandissimi crimini» non vadano immuni e impuniti, «tutti e ciascuno impiccati e inoltre bruciati, onde l’anime loro siano separate dal corpo». Arse le membra, le ceneri di Savonarola furono disperse nell’Arno, ad evitare che il popolo serbasse le reliquie di un uomo venerato in vita da alcuni come un santo, odiato da altri come un fanatico.

Qual è l’eredità di Girolamo Savonarola?
La risposta è necessariamente complessa, perché la figura, la personalità e la memoria di Savonarola sono tuttora molto controverse e divisive, nella contrapposizione che già allora vi era tra chi lo venerava come un santo e chi lo reputava soltanto un fanatico, desideroso unicamente di instaurare un regime teocratico.

Al di là di giudizi, anche storiografici, troppo spesso precostituiti e partigiani, egli appare oggi, a distanza di mezzo millennio, come un gigante della fede, vissuta con assoluta integrità e ferma coerenza sino al martirio, proiettata alla trasformazione della Chiesa corrotta e della società, con proposte politiche straordinariamente antesignane, come quella di fare del Consiglio Grande il supremo organo legislativo di Firenze, portato a cinquecento componenti nel quadro di una riforma democratica delle istituzioni repubblicane.

Certamente l’azione sociale e politica non aveva contato per lui che come un mezzo necessario per compiere la riforma morale e religiosa della cristianità corrotta. Un regime popolare poteva contribuire alla sua impresa meglio di un regime aristocratico, come avrebbe poi scritto nel Trattato circa el reggimento e governo della città di Firenze. Il Consiglio Grande venne forgiato sul paradigma del Maggior Consiglio a Venezia, cui partecipavano tutte le famiglie patrizie. A Firenze però, secondo la tradizione delle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri, avrebbe compreso mercanti e piccoli possidenti, bottegai e artigiani abbienti, legulei ed anche un esiguo numero di poveri “vergognosi”, appartenenti a famiglie un tempo ricche e illustri, poi cadute in disgrazia. Di esso avrebbero fatto parte nel tempo tutti i cittadini, secondo requisiti basati sull’appartenenza a famiglie i cui ascendenti avessero ricoperto incarichi pubblici da almeno tre generazioni: si trattava di circa tremilacinquecento eleggibili, quasi la metà degli uomini adulti su una popolazione che, nella Firenze di allora, non arrivava a cinquantamila abitanti. Istituzione che oggi definiremmo democratica e che non aveva pari nell’Europa dell’epoca.

Grazie a questa savia riforma, che imitava la forma del governo veneziano nei limiti in cui un governo popolare può somigliare a uno aristocratico, la Repubblica tornò in auge e di questa pur breve esperienza il popolo fiorentino serbò a lungo memoria. Furono soppressi i prestiti forzosi e le tassazioni arbitrarie. Venne introdotta una contribuzione del dieci per cento sui beni immobili, qual nuova base delle finanze repubblicane. La riapertura del Tribunale della Mercanzia facilitò la ripresa regolare e leale degli affari. Venne fondato, contro le esose usure degli strozzini e le anteriori resistenze di Lorenzo il Magnifico, il Monte di Pietà, che prestava denaro a modico interesse e soccorreva i poveri. Nell’amministrazione della giustizia si tentò di frenare lo spirito di parte e la corruzione dei giudici e fu concesso finalmente il diritto di appello al Consiglio Grande per le sentenze che irrogavano le pene più gravi in materia criminale.

Il lascito di Savonarola non è meno grande negli scritti religiosi, specialmente quelli dell’ultimo periodo della sua intensa vita, come il Triumphus Crucis, sobrio e lucido trattato apologetico inteso a mostrare la verità della fede cristiana, e la Regola del ben vivere, consegnata a due lettere indirizzate al suo carceriere e alla figliuola di questo nei giorni immediatamente precedenti il supplizio.

Quanto al suo esser «profeta», sia pur «disarmato» come lo definì Machiavelli, impressiona un passo dell’Omelia sul Salmo XXXIX (40) «Expectans Expectavi» del 1491, nel quale Fra’ Girolamo riesce ad antivedere, con stupefacente lucidità precorritrice, l’assalto a San Marco, il rogo in Piazza della Signoria, il vento che si leverà sui corpi consunti dal fuoco e la dispersione delle ceneri in Arno, come sarebbe avvenuto sette anni più tardi: «Andranno gli empi al santuario, con le scure e col fuoco le porte spezzeranno e abbruceranno, e piglieranno gli uomini giusti e nel luogo principale della città li abbruceranno; e quello che non consumerà il fuoco e non porterà via il vento, gitteranno nell’acqua».

Alberto Tedoldi è professore di Diritto processuale civile nell’Università di Verona. È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali si ricordano le opere monografiche L’istruzione probatoria nell’appello civile (2000), Il procedimento per convalida di sfratto (Zanichelli, 2009), Astensione e ricusazione del giudice (Zanichelli, 2015), L’appello civile (2016), Il procedimento sommario (Zanichelli, 2016), Il processo in musica nel Lohengrin di Richard Wagner (2017), Esecuzione forzata (2020), Savonarola. Il profeta disarmato (2020), nonché numerosi articoli, saggi, contributi in volume e note a sentenza in materia di diritto processuale civile e diritto fallimentare.

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