
Insomma essere corsari, anziché pirati, era una bella polizza di assicurazione sulla vita. Naturalmente nessuna polizza è gratuita: i pirati trasformandosi in corsari si vincolavano non soltanto a ubbidire a un re, ma anche a pagargli una tangente sulle prede.
Al principio del Settecento, guarda caso, c’era un folto gruppo di pirati europei e americani insediati in Madagascar che smaniavano di fare quel salto di qualità e diventare corsari. Ormai le flotte da guerra dell’Inghilterra, della Francia, dell’Olanda eccetera, pattugliavano l’Oceano Indiano con navi molto più numerose e più potenti rispetto ai secoli precedenti; i pirati del Madagascar correvano maggiori rischi di essere catturati, ed erano in cerca di una bandiera che li proteggesse. Non andava bene la bandiera di una delle potenze citate, che erano tutte impegnate a difendere l’ordine costituito; doveva trattarsi della bandiera di una potenza media, e con ambizioni ancora in parte da soddisfare, insomma di una potenza un po’ eversiva; e perché non il Regno di Sardegna, per esempio? Lo Stato dei Savoia, una dinastia militare sempre in cerca di conquiste, e magari pronta a un’avventura dell’Oceano Indiano.
Per loro fortuna, non tutti i pirati del Madagascar erano gente rozza: fra di loro c’erano anche raffinate menti politiche, nobili e letterati capaci di tenere in mano la penna come la spada, e di scrivere in bello stile alla cancelleria del re di Sardegna Vittorio Amedeo II per invitarlo a proclamarsi re del Madagascar e prenderli sotto la sua protezione. La proposta fu firmata da un conte normanno con vocazione corsara, Pierre Joseph Le Roux d’Esneval, e partì in un anno imprecisato fra il 1720 e il 1730, nella forma di un documento che oggi si trova nell’Archivio di Stato di Torino, dove si può consultare.
Il fascicolo è lungo 65 pagine e fa una grande e abile opera di marketing per sponsorizzare l’ipotesi. I filibustieri del Madagascar garantivano che re Vittorio Amedeo non avrebbe dovuto investire un soldo nell’impresa, perché sarebbero stati proprio loro, i pirati promossi corsari, a fornirgli gratis tutta la manodopera militare e tutte le navi necessarie a presidiare il Madagascar e le sue acque, e anzi gli avrebbero pure pagato sostanziose “royalty” sulle prede fatte in mare. Addirittura, si prospettava l’ipotesi di usare il Madagascar come base di conquiste in Etiopia, due secoli prima che Mussolini resuscitasse l’impero sui “colli fatali” di Roma.
Ardite prospettive. E se Vittorio Amedeo avesse accettato? Chissà: magari il Piemonte sarebbe stato assorbito in pieno da lontane guerre di colonizzazione e di conquista, e non avrebbe avuto né l’interesse né le risorse per unificare l’Italia. Invece le cose andarono diversamente: Vittorio Amedeo ci pensò su, poi non ne fece nulla, perché era ancora impegnato a metabolizzare pienamente nei suoi domini la Sardegna (acquisita da poco) e la stessa linea seguì il figlio e successore Carlo Emanuele III; ai Savoia il Madagascar appariva favoloso ma un po’ troppo impegnativo.
Nel libro Lei scrive: «Le vicende dei Savoia sono sempre un po’ sopra le righe […] I Savoia […] sono sempre eccessivi: già nell’anno Mille pretendono di essere una potenza politica e militare di caratura continentale; poi nei secoli si buttano per principio in tutte le guerre, anche quelle che non li riguardano affatto, allo scopo di sedere di volta in volta alle successive conferenze di pace e contribuire così a ridisegnare la carta geografica dell’Europa e del mondo». Quali, tra gli episodi da Lei narrati, lo confermano?
Quella che lei riporta è una considerazione di fondo, che trascende i singoli episodi storici. I Savoia sono sempre stati ambiziosissimi e hanno guardato all’Europa, e anche all’Oriente, già quando controllavano appena qualche valico alpino. Guardiamo per esempio a Emanuele Filiberto, che combatte a San Quintino in una remota guerra d’oltralpe tra i francesi e gli spagnoli, oppure a Cavour e a Vittorio Emanuele II, che spediscono i soldati piemontesi nell’ancor più remota Crimea: sono due fatti, fra i tanti, che testimoniano della scelta strategica dei Savoia di essere ogni volta presenti, per principio, su tutti i grandi campi di battaglia d’Europa, anche senza avere interessi diretti in gioco nell’una o nell’altra contesa, nell’una o nell’altra guerra, al solo scopo di esserci e di contare nella successiva definizione della pace; questa lunga tradizione andrebbe tenuta presente anche quando si ragiona sull’ingresso, tormentoso e problematico, del Regno d’Italia nella prima e nella seconda guerra mondiale: pur non spiegando tutto, la predisposizione dei Savoia a non voler mai stare fuori dai grandi giochi politici e militari andrebbe inserita nel quadro complessivo. Tengo però a sottolineare che il mio libro non si dilunga a raccontare episodi storici già ben noti e documentati, invece getta luce su vicende sconosciute o misconosciute. Non vado alla ricerca di quel che è risaputo, ma di quello che è del tutto nuovo, oppure che è noto agli storici ma è finora sfuggito all’attenzione del grande pubblico.
Quali vicende accompagnarono il tentativo di Vittorio Emanuele II di organizzare una crociata pan-europea alla conquista di Costantinopoli?
Premessa: benché le potenze dell’Europa occidentale si fossero lasciate alle spalle l’esperienza delle Crociate, e anzi tendessero a spalleggiare la Turchia contro le mire espansive della Russia, le stesse potenze erano disposte, all’occasione, a ricorrere alle armi contro i turchi, allorché l’opinione pubblica occidentale si indignava per qualche massacro nei Balcani; in quei casi, la voce dei popoli costringeva le cancellerie a intervenire. È andata così, per esempio, in occasione della rivolta dei greci contro i turchi fra il 1821 e il 1830, e poi di nuovo di quella dei bulgari nel 1876-1878. Questa seconda circostanza diede a Vittorio Emanuele II l’occasione di proporre una crociata per scacciare i turchi da Costantinopoli. L’iniziativa può sembrare anacronistica, ma anziché essere in ritardo di molti secoli rispetto alle Crociate potrebbe essere vista (all’opposto) come in anticipo di qualche decennio rispetto alla guerra dell’Italia contro la Turchia del 1911-1912 e all’incursione della flotta italiana nei Dardanelli in vista di Costantinopoli.
Delle ambizioni orientali di Vittorio Emanuele II nel 1876 conosciamo i retroscena grazie a un rapporto dell’ambasciatore britannico in Italia Augustus Berkeley Paget. Il diplomatico riferisce di un colloquio privato in cui il re gli sottopose i suoi piani, con lo scopo di sondare e preparare il terreno a Londra. Vittorio Emanuele disse a Paget di aver già chiesto agli imperatori d’Austria e di Germania “mano libera per risolvere la Questione d’Oriente”. Secondo lui bisognava “cacciare il Sultano dalla Turchia e sistemarlo in qualche regione dell’Asia centrale; dopo di che, io [cioè Vittorio Emanuele, Ndr] direi alle altre potenze di papparsi tutto quello che vogliono nell’Impero turco, e quanto a me prenderei solo quelque petite chose per l’Italia. Anche l’Inghilterra potrebbe avere tutto ciò che desidera”.
Questo colloquio è del gennaio del 1876 e non furono parole buttate lì a caso, perché ci fu un seguito nel maggio dello stesso anno. Il re d’Italia fece sapere nuovamente a Londra di ambire a un ruolo attivo sullo scenario internazionale, perché era “contrario alla sua natura starsene con le mani in mano”. Vittorio Emanuele II pensava che “se l’Impero ottomano [si fosse disgregato], all’Inghilterra [sarebbe piaciuto] annettersi l’Egitto”, e che “una spartizione del bottino [avrebbe potuto] costituire la base per una più stretta intesa fra l’Italia e la Gran Bretagna”. In un’altra occasione il re aggiunse: “Se avessi 200.000 uomini risolverei la questione balcanica”.
Proposte assurde? Non necessariamente. Il 1876 è proprio l’anno in cui cominciò la rivolta bulgara contro i turchi, destinata a portare nel 1878 all’avanzata russa fin quasi a Costantinopoli, autorizzata (incredibile a dirsi) dalle stesse potenze europee che un ventennio prima avevano fatto guerra alla Russia per impedirle di fare la stessa cosa, cioè di avvicinarsi al Bosforo. Insomma in quel torno di tempo tutto era in movimento, la situazione era fluida, sarebbe bastato trovare la combinazione diplomatica giusta e i propositi di Vittorio Emanuele avrebbero anche potuto realizzarsi. Però, le carte da giocare al tavolo della politica europea non erano in mano all’Italia ma ai grandi imperi guidati da Mosca, Berlino, Londra, Parigi: da Roma si potevano solo fare proposte, ma se poi non si trovava il consenso di quei giganti non si poteva insistere. Vittorio Emanuele II vide sfumare i sogni di gloria in Oriente e l’Italia rinviò la guerra alla Turchia al 1911.
Pochi sanno che i Savoia espressero anche un papa (o un antipapa)…
Pur con tutte le sue ambizioni, la famiglia dei Savoia nella sua lunga storia non ha manifestato molte mire verso il papato. L’unico esponente della dinastia che abbia assunto la tiara, cioè il duca Amedeo VIII, eletto pontefice nel 1439 come Felice V, è da classificarsi (presumibilmente) fra gli antipapi, in quanto eletto da un concilio di Basilea scomunicato dal papa Eugenio IV che sedeva a Roma. D’altra parte, quel concilio raccolse dietro di sé i due terzi della cristianità… perciò è discutibile chi in quegli anni fosse il vero papa e chi l’antipapa.
Chi aveva le idee chiare sul conto del papa Savoia era il papa Eugenio IV, che ne parla così: “Questo figlio di Satana (…) da tempo ascoltava le previsioni degli indovini e delle streghe (…) Queste miserabili creature, così numerose nei sui Stati, lo spinsero a impadronirsi della Chiesa di Dio (…) Fatta alleanza con quelli di Basilea, riuscì con la violenza, la frode, l’inganno, le promesse, le minacce, a farsi mettere alla testa della Chiesa, un idolo, un Belzebù, un principe dei demoni, in contrasto col vero vicario di Cristo”.
Date queste premesse, sembrava improbabile che fra i due sbocciasse la pace, ma le vie del Signore sono infinite, e si trovò un compromesso che salvò la faccia a ognuno dei contendenti: il nuovo papa Niccolò V fu successore sia di Eugenio sia di Felice, e così il pontefice della cristianità occidentale tornò a essere uno soltanto. Sulla vicenda calò un silenzio un po’ imbarazzato, visto che la Chiesa avrebbe preferito dimenticarla, i Savoia pure, ed è anche per questo che se ne parla poco nei libri di storia.
Che rapporti intrattennero i Savoia con la Massoneria?
Fra il Sette e l’Ottocento la Massoneria ha avuto un ruolo storico enorme – pur senza essere il burattinaio che tira tutti i fili, come vorrebbero certe caricature o leggende nere, a seconda dei punti di vista. Negli anni del Risorgimento e del Regno d’Italia i Savoia hanno quasi sempre simpatizzato per la Massoneria, perché il progetto dei patrioti, molti dei quali massoni, di cui il Piemonte si mise a capo, era di ispirazione ghibellina; a parte la breve stagione in cui è sembrato che potesse essere lo stesso papa Pio IX ad assumerne la guida (ipotesi irrealistica e presto sfumata), fu chiaro fin dall’inizio che l’unità del paese sarebbe sorta anche sulle ceneri del potere temporale dei Papi. E in questo quadro la Massoneria, pur non essendo né anticristiana né anticattolica, offriva una base concettuale allo stato laico.
Re Vittorio Emanuele si circondò di ministri massoni, da Agostino Depretis a Pier Carlo Farini, diplomatici massoni come Costantino Nigra, e generali massoni come Maurizio Gerbaix de Sonnaz e Emanuele della Rocca di Bianzè, senza contare quelli di origine garibaldina come Nino Bixio (che entrò nell’esercito con il grado di generale dopo l’Unità d’Italia). Quanto a Cavour, non ci sono prove di una sua appartenenza alla Massoneria, ma si sa che ne cercò costantemente l’aiuto, e provò a determinarne gli indirizzi influendo sulle successive nomine dei Gran Maestri. Analogo atteggiamento tenne suo figlio Umberto I, che ereditò un Regno ghibellino e a sua volta, pur senza aderire alla Massoneria, si circondò di ministri massoni: ancora Depretis e poi Francesco Crispi, Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli. Invece Vittorio Emanuele III emanò il provvedimento fascista che mise al bando la Massoneria. Non un “fratello”, decisamente.
Quale fondamento ha la voce che re Vittorio Emanuele II fosse figlio di un macellaio fiorentino anziché di Carlo Alberto?
Fra le vicende poco note di cui parlo nel mio libro, questa è l’unica controversa, nel senso che non è provata da documenti inoppugnabili; comunque è stata avvalorata (sottotraccia) da Massimo d’Azeglio, e più di recente è stata presa in seria considerazione da Denis Mack Smith. Chiariamo subito che il sospetto non è di adulterio ma di sostituzione di bambino, per ragioni di Stato.
La notte del 16 settembre 1822, nella villa Poggio Imperiale a Firenze – dove Carlo Alberto e la moglie soggiornavano – bruciarono il lettino del piccolo principe (e futuro re) Vittorio Emanuele e l’abito della balia, che aveva appiccato involontariamente il fuoco manovrando un lume. La ragazza morì carbonizzata, e invece il bambino si salvò miracolosamente, senza il minimo danno. Strano. La vox populi disse che il principino era morto ed era stato sostituito con un altro bambino, figlio di un macellaio soprannominato Maciacca, o Tanaca (vero nome Gaetano Tiburzi). Secondo la testimonianza dell’ex primo ministro Massimo d’Azeglio, raccolta a viva voce dall’editore e scrittore Gaspero Barbera, il vero figlio di Carlo Alberto sarebbe “rimasto abbruciato nell’incendio”; anche il generale Alfonso La Marmora e altri dignitari espressero dubbi sulla reale paternità di Vittorio Emanuele II, dubbi poi soffocati.
Ma perché la messa in scena, se tale fu? C’erano gravi ragioni di politica internazionale. In quel momento, Vittorio Emanuele era l’unico erede della dinastia e se fosse morto le potenze europee avrebbero potuto, di lì a poco, accordarsi per dichiarare estinti i Savoia e sostituirli con un altro casato.
Tutto vero, tutto falso riguardo a Vittorio Emanuele II figlio di un macellaio? Per lo meno il dubbio è lecito; nella storia delle famiglie reali si è visto ben altro. Sembra inverosimile che nello stesso rogo la balia muoia carbonizzata e il bambino che lei accudisce non subisca neanche una bruciatura, nel suo lettino ugualmente carbonizzato. Per chiarire il mistero servirebbe un esame pubblico del Dna, che i Savoia non faranno mai.